Prospettive assistenziali - n. 112 ottobre-dicembre 1995
VALORI E PRATICA DELLA MEDICINA DI FRONTE ALLE PERSONE ANZIANE CRONICHE NON AUTOSUFFICIENTI
FULVIO AURORA (*)
L'interesse del gruppo di Milano dell'ESDE (1) intorno al problema della cronicità nasce dall'impegno iniziato da alcuni anni a difesa delle condizioni di vita e di salute delle persone anziane croniche non autosufficienti. II nostro proposito è quello di affermare il diritto alla riabilitazione e alle cure sanitarie di queste persone, all'interno del Servizio sanitario nazionale con modalità, strumenti e strutture che privilegino l'intervento domiciliare.
In Italia sono estremamente poche le esperienze di cure domiciliari per le persone affette da gravi e invalidanti patologie. Non siamo certamente qui per discutere di politica sanitaria, ma mi chiedo con Dumas, citato da M. Foucault in "Nascita della clinica": «Perché separare la scienza dei medici da quella dei filosofi? Perché distinguere due studi che si confondono per origine e destinazioni comuni?».
Vorrei aggiungere che, quando le due discipline si confrontano per trovare un senso comune, danno origine ad un ordine del discorso che deve essere alla base di scelte concrete nella politica della salute. Così la scelta per l'intervento medico a domicilio, in particolare per l'anziano cronico risulta essere più efficace, più rispettosa, anche se non sempre e in tutte le condizioni può essere compiuta.
Non occorre qui entrare ulteriormente in questo argomento che è stato solo usato per richiamare ad un principio fondamentale per l'anziano malato grave: «Prima intervenire a casa».
In effetti vi sono una serie di principi etici riconosciuti da tutti, che non corrispondono alla pratica. E questo non è il frutto solo di momentanee difficoltà, ad esempio quelle economiche, ma di una inconfessata e forse inconfessabile cultura di fondo, che mai esce allo scoperto.
È giusto curare le persone inguaribili?
É giusto utilizzare per i malati cronici gravi le tecnologie più avanzate della medicina? Parliamo di quelle persone il cui destino è segnato, che hanno bisogno di essere continuamente assistite, che hanno normalmente più di una patologia che le rende prive di autonomia.
Pensiamo, ad esempio, ai malati di gravi malattie neurologiche o a quelli affetti da gravi malattie tumorali, ecc.
La domanda posta non è retorica perché la risposta non è così scontata. Un problema che veniva posto già agli esordi della nascita del sapere medico, nel quinto secolo a.C. Uno storico della medicina riferendosi a quel periodo infatti asserisce: «Rispetto allo scopo dell'arte della medicina, tutti concordano sul fatto che la medicina deve essere utile al malato, o almeno non nuocergli; quando però si tratta di sapere se il medico debba seguire tutti i malati, o soltanto quelli che giudica curabili, le risposte si fanno contraddittorie». (J. Jouanna. La nascita dell'arte medica occidentale, in Storia del pensiero medico occidentale, a cura di M. Grmek - Laterza 1993).
Per diversi secoli, però, questa domanda è stata quasi accantonata, in quanto le grandi epidemie hanno rotto ogni distinzione istituendo per i malati dei luoghi di separazione e di abbandono e successivamente trasformando questi luoghi in ricettacolo di ogni forma di bisogno (poveri, malati, sofferenti psichici, handicappati, bisognosi di qualsiasi genere). II cambiamento, o meglio la separazione dei malati da tutti gli altri bisognosi, si può far coincidere con la nascita dell'ospedale moderno. E facciamo riferimento alla "Reformazione" ospedaliera di Milano del quindicesimo secolo: «L'istituzione ospedaliera, una delle manifestazioni istituzionali e di vita associata più direttamente legata alla coscienza sociale di un popolo e alla ideologia predominante di una data epoca, ha la sua origine nell'etica caritativa del Medio Evo cristiano. In quel contesto gli ospedali erano spazi caritativoassistenziali aperti a chiunque si trovasse nel bisogno, senza giudizio di merito o di colpa, senza distinzione fra esigenza sanitaria e indigenza economica. Pauperes et infirmi, senza distinzione, erano tutti coloro che vivevano là dove la malattia era prodotta dalle stesse condizioni di vita. Gli uni e gli altri erano oggetto, quali controfigure del Cristo vivente, di hospitalitas disinteressata, espressione civile della charitas. Accoglienza e assistenza venivano dati ad indigenti e malati o, incondizionatamente, pur non essendo in condizioni di indigenza e di malattia, avevano comunque bisogno d'aiuto, non essendo in grado di affrontare da soli le crisi economiche e fisiche di sopravvivenza». (G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Cap. II, la "Reformazione" ospedaliera del Quattrocento, Ed. Laterza). Con questa riforma ospedaliera si distinsero i malati acuti da tutti gli altri, riservando l'ospedale nuovo uscito dalla Riforma ai soli malati acuti. Così, nella culla della riforma, la città di Milano, apprendiamo che «agli inizi del Cinquecento, nella Cà Granda vengono ricoverati i malati acuti, mentre i malati cronici vengono ricoverati negli ospedali aggregati .., onde non trasformare la Cà Granda in un vecchio ospizio» (Cosmacini, op. cit.).
La riforma di allora fu sicuramente un progresso rispetto alle forme precedenti; non per questo si deve dare per scontata da allora la distinzione fra acuti e cronici. Questa distinzione risponde in effetti alle esigenze dei malati o piuttosto a quelli della struttura sanitaria o ai cosiddetti interessi scientifici della medicina?
L'idea di malattia cronica era più presente nelle epoche passate quando i mezzi di cura erano inferiori agli attuali. La cura dei malati cronici era più connessa all'idea di accompagnamento che alla pura gestione della malattia, con un risvolto non strettamente sanitario.
Negli ultimi decenni, quelli che abbiamo analizzato negli incontri dell'ESDE, quali portatori del riduzionismo in medicina, si è avuto una grande evoluzione scientifica e tecnologica, si sono raggiunti enormi livelli di specializzazione, ma, al tempo stesso, quasi come contro altare, si è perso l'idea di visione unitaria e globale del malato e della sua malattia.
Nella pratica i malati veri sono quelli acuti; ai malati cronici, quelli che non guariscono, nella gran parte dei casi viene riservato un altro tipo di trattamento, dovuto, non certo alla loro specificità, ma proprio alle loro condizioni di inguaribili.
Per esempio, che cosa sono le cure palliative? Perché devono essere palliative? Sembra che queste cure, rivolte in genere a certi tipi di malati cronici, devono far parte di un ambito medico specialistico e particolare: vi è un certo tipo di medicina che arriva fino ad un certo punto, poi vi è la delega ad un altro. E ciò mi sembra non essere scientificamente sostenibile, né eticamente accettabile.
E altrettanto non è accettabile una netta distinzione fra i malati acuti e malati cronici. Ci sono certo delle situazioni estreme, urgenti, cui si deve immediatamente far fronte, ma oggi la gran parte delle malattie non sono forse croniche e la maggior parte dei malati non sono forse malati cronici, con dei momenti, a volte, di acuzie?
II sospetto che possiamo avere sulla ragione di questa distinzione ci rimanda piuttosto ad altri motivi. II primo è quello, come abbiamo già accennato, dell'interesse medico e medico-scientifico della riuscita. Secondo questa concezione, la malattia è un male che deve essere conosciuto e debellato e se ciò non fosse possibile non può essere più un problema della medicina, della struttura sanitaria, ma di un'altra entità, che da noi in Italia si chiama "assistenza" e che ha i suoi templi nelle case di riposo e strutture protette per " non autosufficienti" (ai quali è stata tolto il nome ed anche la dignità di malati).
II secondo, che a volte non è distinguibile dal primo, è un motivo di ordine economico. Lo Stato sembra essere spaventato dall'allungamento della speranza di vita. Ci vengono dipinte a tinte fosche società di tanti vecchi che devono essere mantenuti da pochi giovani. Molti di questi vecchi sarebbero gravemente malati, con delle spese sempre più pesanti da sostenere.
La prima tendenza porta alla costruzione di molti centri specialistici: il centro anti-diabete, il centro dell'ipertensione, ecc. Se pochi di questi centri sono necessari per casi veramente importanti e difficili, non è sostenibile e non è accettabile la loro estrema generalizzazione. II medico di medicina generale, e anche l'ospedale generale, non avrebbero più senso; spingere all'estremo la specializzazione porterebbe ad enormi spese, in contrasto con un tipo di cura più comprensiva dei problemi di ciascuno che necessita senza alcun dubbio di spese molto minori. In particolare, i malati cronici al di fuori di questo approccio complessivo avrebbero ben poche chances di essere curati.
La seconda tendenza, della pretesa paura a dover curare enormi masse di anziani, va annoverata fra i luoghi comuni, perché i dati vanno in un'altra direzione: «Si è potuto dimostrare, infatti, con indagini condotte in Svezia e in Francia, che l'età non rappresenta il solo, e forse neppure il più importante, fattore del processo biologico dell'invecchiamento. L'occupazione svolta in precedenza e il livello di istruzione rivestono un ruolo altrettanto, se non più importante: lo stato di salute è generalmente peggiore per coloro che svolgono o hanno svolto lavori manuali rispetto agli impiegati, e per coloro che hanno un livello di istruzione inferiore rispetto ai più istruiti. Dalla prevedibile modificazione della struttura socioeconomica, professionale e culturale degli anziani di domani possiamo, quindi, attenderci un contributo positivo anche nell'eventualità - ed è un'ipotesi palesemente troppo pessimistica per gran parte delle malattie - che i livelli di morbosità specifici rimangano invariati nel tempo. Non necessariamente, quindi, l'aumento della quota di popolazione anziana dovrà comportare un maggior onere sanitario, né una maggior proporzione di individui non autosufficienti, soprattutto
se verranno indirizzati sforzi adeguati in direzione della prevenzione e del trattamento di quelle malattie che, pur non avendo un ruolo importante per la durata della vita, ne hanno sicuramente uno importante per la sua qualità (si pensi ad esempio, alle malattie del sistema osteo-articolare)». (A. Verdecchia, V. Egidi, A. Golini, Popolazione anziana, invecchiamento demografico e condizioni di salute, in "La salute degli italiani", Rapporto 1993, a cura di Marco Geddes, Roma, 1994).
Per finire, la domanda posta all'inizio dai fondatori della medicina occidentale trova una risposta molto problematica, specialmente per il futuro.
Si prepara infatti un'epoca, nella quale già ci siamo, di pesanti restrizioni sul piano sociale; non solo, ma nella quale si preferisce non mettere in discussione in modo radicale, aperto e completo, la cultura specialistico-riduzionista della medicina e dei sistemi sanitari fino ad oggi consolidati.
II caso degli anziani cronici non autosufficienti è emblematico. Se si affronta il loro problema, che è il nostro problema (non tutti moriremo giovani), vi è la possibilità di iniziare un cammino inverso, peraltro nuovo: quello della considerazione globale della persona, con le sue speranze, la sua storia, la sua malattia e il suo ambiente. Senza nulla togliere alle grandi scoperte tecnologiche attuali e a quelle che verranno, diventa necessario avere una visione più ampia, in cui inserire la tecnologia senza da essa farsi asservire.
La risposta, dunque, alla domanda iniziale, se gli inguaribili sono soggetti da curare, per essere positiva, richiede una battaglia di lunga durata e la rifondazione di una etica medica e sociale che oggi non c'è. E sarà solo dal rapporto fra la scienza dei medici e quella dei filosofi che potrà uscire una politica della salute efficace e da tutti riconosciuta.
(*) Relazione presentata al Convegno di Parigi svoltosi dal 30 maggio al 4 giugno 1994 sul tema "Medicina e filosofia".
(1) École Dispersée de Santé Européenne.