Prospettive assistenziali, n. 113, gennaio-marzo
1996
ANGELA E MAURIZIO LIBERTI
«Quando
si aspetta qualcosa ci si pongono mille interrogativi, si fanno mille ipotesi,
si cerca di prendere in considerazione tutto, poi, magari, capita l'unica cosa
a cui non si era pensato».
C'è scritto così nel diario che tenevamo all'inizio
del nostro cammino di genitori adottivi. Avevamo appena presentato la domanda
e scrivevamo su un quaderno tutto quello che ci passava per la testa riguardo
a questa nuova, particolare esperienza che avevamo deciso di vivere. Certo mai
avremmo pensato di essere così profeti.
Ma andiamo con ordine. Appena avviata la procedura
per l'adozione cominciammo a raccogliere tutte le informazioni possibili su
questa realtà. Attraverso il contatto con le associazioni presenti nella nostra
città e la lettura di tutti i libri che esse ci consigliavano ci rendemmo
presto conto che in Italia i bimbi adottabili erano pochi e che gran parte di
essi, allora come oggi, erano grandicelli o portatori di handicap.
I mesi che seguirono, durante i quali ebbero inizio i
colloqui con la psicologa e l'assistente sociale per ottenere l'idoneità
all'adozione, li trascorremmo a cercare di chiarirci le idee e a consultarci
con parenti e amici allo scopo di capire cosa veramente potevamo offrire ad un
bambino e fino a che punto saremmo stati capaci di farci carico di eventuali
problemi.
Man mano che l'istruttoria procedeva maturammo la
nostra disponibilità ad accogliere bimbi non neonati e anche portatori di
handicap fisici, a patto che si trattasse di problemi che fossimo in grado di
gestire con le energie di cui disponevamo, senza che la nostra esistenza ne risultasse
sconvolta. Strada facendo l'adozione internazionale assunse ai nostri occhi
un'importanza secondaria: ci rendevamo conto ogni giorno di più (e questo era
anche il parere dei nostri interlocutori) che se davvero fossimo stati disposti
ad accogliere un bimbo grandicello o portatore di qualche deficit, le
probabilità dì adottare un bimbo italiano erano certamente più consistenti.
Così fu. Appena due mesi dopo aver ottenuto
l'idoneità all'adozione, l'ANFAA - Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie, ci contattò per segnalarci un caso di difficile soluzione: un
bimbo neonato portatore di handicap per il quale il Tribunale per i minorenni,
esaurita la propria lista di attesa senza trovare una famiglia disposta ad
accoglierlo, si era rivolto all'associazione, chiedendole di cercare una
famiglia per quel bambino, altrimenti destinato al ricovero in istituto.
Chiedemmo di quale handicap si trattasse: "Acondroplasia" ci
risposero, vale a dire una forma piuttosto rara di nanismo.
La nostra involontaria profezia si avverava! Mesi
prima, quando insieme cercavamo di calcolare quali handicap saremmo stati in
grado di fronteggiare, avevamo infatti immaginato una lunga serie di situazioni
possibili, ma la bassa statura proprio non ci era venuta in mente!
Spiazzati da questa proposta, oltremodo incerti
sulla nostra capacità di offrire risposte adeguate ad un handicap di cui nulla
sapevamo e col quale mai eravamo venuti a contatto, cercammo per giorni e
giorni, prima di vedere il bambino, di chiarirci le idee, parlandone per ore
fra noi, tornando a consultarci con amici e parenti, chiedendo consiglio agli
operatori delI'ANFAA, che nel frattempo avevamo cominciato a frequentare con
regolarità.
E al centro dei nostri discorsi stava soprattutto un
concetto: l'handicap, con la sua gestione, i problemi che avrebbe comportato e
la loro soluzione. Alla fine, dopo tante ipotesi, non restava che una cosa da
fare: vedere il bambino. Andammo a trovarlo nel gruppo-appartamento in cui era
stato temporaneamente ricoverato. Lo prendemmo in braccio, provammo a cullarlo
un po', con tutta la goffaggine e l'impaccio di chi non ha mai avuto da cullare
neanche fratellini più piccoli, e ci rendemmo conto che quello che stavamo
coccolando non era "un handicap": era un bambino. Per giorni e giorni
avevamo ragionato sui problemi da affrontare, sulla nostra capacità di gestire
"l'handicap", ora ci trovavamo di fronte niente altro che un bambino,
che aveva bisogno di due genitori.
I problemi, tutti i problemi che avevamo immaginato
(e anche tanti altri), restavano certo sul tappeto, ma adesso c'era una persona
a cui pensare, c'era un faccino da immaginare.
Quella stessa sera, in un ristorante della periferia
con una coppia di nostri amici brindammo "a nostro figlio".
Per tutta un'estate andammo a trovarlo, per
conoscerne le abitudini e imparare ad accudirlo e per far sì che lui si
abituasse a noi, finché verso la fine di agosto lo portammo a casa con noi.
Problemi, dicevamo, ce n'erano, e non solo legati all'handicap di nostro
figlio: i nostri rispettivi genitori non erano entusiasti della nostra scelta,
ma mentre la nonna materna, parlandone, imparò già allora a comprendere le
motivazioni della nostra decisione (ora è innamoratissima di suo nipote), il
nonno paterno mostrò fiera ostilità nei confronti di quello che riteneva un
passo del tutto irresponsabile di suo figlio, il che non fu privo di
conseguenze sui rapporti fra noi due; la grande distanza che ci separava,
però, fece in modo che di questi problemi non risentisse affatto il rapporto
fra noi e il bambino, sviluppatosi fin dall'inizio in modo molto sereno.
Problemi motori ce n'erano: a tre mesi ancora non
riusciva a tenere su la testa, troppo grossa e pesante. Inoltre la sera, al
momento di addormentarsi, urlava, urlava forte, anche per due ore di fila, e
urlava tanto più forte e più a lungo quanto più piacevole e gratificante era
stata la sua giornata. Ora, a distanza di alcuni anni, confortati anche dal
parere degli esperti consultati, sappiamo che il sonno era il suo peggior nemico:
addormentandosi, lui temeva di perdere di nuovo i suoi genitori, di essere abbandonato
un'altra volta.
I problemi motori non si limitavano alla testa: il
nostro bimbo ha imparato a camminare a due anni, con l'aiuto di una fisiatra e
di una fisioterapista estremamente preparate e attente; poi, a tre anni
suonati, ha imparato a parlare, e adesso, per fortuna, non si ferma più.
Ma a quell'epoca è stato veramente difficile capire
quale strada potevamo percorrere per trovare le competenze professionali
giuste, che potessero offrire al nostro bambino i correttivi più efficaci ai
suoi deficit. Apprendemmo, così, che questa patologia, a causa della sua rarità
(un caso ogni 28.000 nati vivi), era (e ancora è) pochissimo conosciuta in
tutti i suoi aspetti e nei suoi sviluppi, e ricevemmo dalla massima parte degli
specialisti interpellati risposte incerte e contraddittorie circa gli eventuali
interventi terapeutici necessari a far crescere nel modo migliore nostro
figlio. C'era chi minimizzava ("È un normale caso di
acondroplasia..."), chi ammetteva la propria ignoranza e correva a consultare
libri ("Vedete, qui dicono che...") e chi guardava il bimbo con
circospezione, preoccupato di non lasciarsi sfuggire il minimo segnale di
complicazione.
Sapevamo infatti che, sebbene raramente, le
alterazioni ossee proprie dell'acondroplasia possono comportare complicanze di
natura neurologica e limitazioni e difetti di alcuni apparati, per questo
cercavamo chi potesse capire come stava nostro figlio rispetto alla generalità
dei casi della sua stessa patologia.
Purtroppo nella nostra città non avevamo trovato,
fino a quel momento, che dubbi; per questo decidemmo di chiedere che il bimbo
venisse valutato approfonditamente da quelli che all'epoca ritenevamo i più
grandi esperti in fatto di acondroplasia: i medici di uno dei più grandi
policlinici pediatrici italiani.
Lì fummo rassicurati da quasi tutti gli specialisti,
fin quando giungemmo all'ultima tappa del "check-up",
la valutazione neurologica da parte dei neurochirurghi. Questi ultimi
battezzarono immediatamente come paresi la relativa ipotonia muscolare degli
arti, che altri avevano giudicato come un elemento consueto della sindrome. Effettuati
poi alcuni accertamenti, i chirurghi sentenziarono che il bimbo era condannato
ad una grave tetraparesi spastica, per arrestare la quale ci proposero un
intervento chirurgico che essi stessi definirono palliativo e del quale sottolinearono
l'elevato rischio operatorio e l'estrema incertezza dei risultati, gravati
peraltro, per loro stessa ammissione, da effetti collaterali di per sé gravi. «Dopo un simile intervento - ci informò
il primario, ammettendo fra l'altro la sua limitatissima esperienza su queste
patologie - è probabile che insorga una
grave scoliosi. Questi, del resto, sono bambini che non hanno né capo né coda».
Non saremo mai in grado di descrivere il senso di
morte che queste parole ci trasmisero; ricordiamo però perfettamente la
lucidità con la quale, superando lo smarrimento iniziale, ci rifiutammo di
credere a un simile destino per nostro figlio, o quanto meno di soggiacervi
supinamente. Consultati amici, parenti e operatori, rinunciammo
all'intervento chirurgico e, aiutati dalla nostra fisiatra, demmo il via a quel
programma fisioterapico che ha portato il nostro bimbo prima a camminare e poi
a correre, saltare, arrampicarsi, come la maggior parte dei suoi coetanei.
Certo, le gambe e le braccia sono corte e raggiungere
l'autonomia in queste condizioni è più difficile. La nostra casa comincia ad
essere popolata di panchetti di tutte le misure, abbiamo spostato in basso
alcuni interruttori e lui, dal canto suo, mostra una gran voglia di riuscire a
far da solo. Cerchiamo di spiegargli che "basso" non è sinonimo di
"piccolo" e, passo dopo passo, lui impara a rispondere a chi lo
apostrofa: «Sono basso, ma sono grande lo
stesso; ho sei anni e vado a scuola elementare».
Nel corso di questi anni abbiamo scoperto
un'associazione che si occupa di questa sindrome e della ricerca di soluzioni
e terapie possibili per tutti i problemi che essa comporta; è attraverso di
essa che siamo riusciti a trovare infine le giuste competenze professionali e
ad avere un quadro ben chiaro della relativa "normalità"
nell'evoluzione e nella crescita di questi bambini. Questo ci ha aiutati ad
essere più sereni nella gestione dell'handicap di nostro figlio, e ci ha
indotti a proporci quali referenti dell'associazione nella nostra regione,
proprio per aiutare anche altre famiglie a trovare le risposte giuste ai
problemi di bimbi così particolari.
Adesso lui è sereno, chiacchierone, un po' permaloso,
spesso insicuro. A volte dobbiamo fare i conti con la sua paura di non riuscire
ad imparare tutto quello che apprendono i suoi coetanei più alti, ma si lascia
rassicurare: con i compagni di scuola è molto integrato e quando ha bisogno di
aiuto lo chiede senza difficoltà.
Ogni tanto ci chiede a bruciapelo: «Perché avete preso proprio me? lo forse
avrei voluto altri genitori...» oppure: «Perché
quell'altra signora non poteva tenermi?». Qualche risposta rassicurante
basta a farlo tornare a giocare sereno, ma ha sempre bisogno di essere
rassicurato circa la nostra costante presenza e il fatto che la nostra scelta
di accoglierlo e volergli bene non possa più mutare. È molto affettuoso e ci
sembra che abbia avviato un rapporto positivo con il mondo esterno.
La resa dei conti, lo sappiamo, deve ancora venire:
ben presto metterà in rapporto la sua diversità con il suo abbandono, e noi
cerchiamo di prepararci a dargli le risposte più oneste, capaci di limitare
l'angoscia che quella consapevolezza potrebbe generare.
Nel
frattempo ci godiamo l'allegria e la vitalità di un bimbo sereno.
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