Prospettive assistenziali, n. 113, gennaio-marzo
1996
Interrogativi
IL DEMENTE SENILE È UN
MALATO DA CURARE?
Su Vivereoggi„
n. 1, febbraio 1995, è stato pubblicato un ottimo articolo di Fabio Trecate dal
titolo "I percorsi del demente". Viene giustamente sostenuto che «l'età avanzata e la complessità della
malattia non devono costituire motivo
per non curare o curare di meno. Non si chiede che i dementi siano curati di
più, ma in modo appropriato, secondo le
loro esigenze e senza decurtazione di
interventi potenzialmente utili».
L'autore aggiunge che la complessità degli interventi
da fornire al paziente demente «richiede
un'alta specializzazione, non una
monospecializzazione, ma una superspecializzazione» e che occorre che si
affermi «una mentalità sempre più
geriatrica e riabilitativa».
Nonostante le complesse esigenze curative e
riabilitative delle persone colpite da demenza senile, la Regione Lombardia
(così come quasi tutte le altre Regioni) ha affidato la competenza ad
intervenire al settore dell'assistenza sociale, mentre il comparto sanitario svolge
solo una azione di supporto.
Non ritiene l'autore che questa situazione sia non
solo contraria alle leggi vigenti (che affidano la prevenzione, la cura e la
riabilitazione al Servizio sanitario nazionale), ma anche al buon senso?
Perché nessuno si oppone - e purtroppo nemmeno le
Associazioni che dovrebbero tutelare i malati di Alzheimer - a questa grave
violazione dei diritti?
È giusto che gli operatori sanitari, mentre sostengono
che i dementi devono essere «curati in
modo appropriato», accettino di operare in strutture assistenziali (come
il Golgi, il Redaelli, il Trivulzio, l'Opera Pia Cronici, le Opere Pie Annesse,
l'istituto Santa Margherita, ecc.), senza sollevare alcuna obiezione? (1).
L'OSPEDALE È PATOLOGICO, MA
GLI ISTITUTI DI ASSISTENZA?
Molti esperti asseriscono che la degenza ospedaliera
provoca rilevanti effetti iatrogeni. È il caso di E. Tomasella, G. Rupolo e C.
de Bertolini dell'Università di Padova (2), i quali affermano che «l'ingresso in ospedale è un avvenimento altamente stressante perché
comporta un importante cambiamento nella
quotidianità di una persona che per di più è colpita da una malattia».
Ma perché non si mette in evidenza che quando si
entra in un istituto di assistenza la situazione, in genere, è di gran lunga
più negativa?
Non è forse vero per tutti noi che l'ospedale è un
luogo dove i malati vengono curati e il cui obiettivo è la guarigione o,
almeno, il contenimento dell'infermità?
Ma l'istituto non è obiettivamente il posto in cui
sono escluse dalla società le persone indesiderate?
Per
i vecchi le strutture assistenziali non sono sedi di pre-morte?
Quali speranze hanno coloro che entrano in un
istituto di ricovero dove spesso le cure sanitarie sono carenti?
Perché gli operatori sanitari, preposti cioè alla
salute dei cittadini, non valutano anche le nefaste conseguenze del ricovero
in centri denominati di assistenza, ma in effetti preposti all'emarginazione?
LA
PERSONA HANDICAPPATA NON È INVALIDA?
Sorprendenti le affermazioni contenute nella sentenza
pronunciata dal Tribunale amministrativo per l'Abruzzo in data 11 maggio 1994.
Sul ricorso presentato da una insegnante contro il
Ministero della pubblica istruzione e il Provveditorato agli studi di L'Aquila,
il TAR (composto da Quadrio Michelotti - Presidente, Luciano Rasola -
Consigliere relatore, Roberto Politi - primo Referendario) ha sostenuto -
incredibile ma vero - che un cittadino «ancorché riconosciuto invalido permanente e totale al 100%» «non è
stato riconosciuto handicappato, né poteva
esserlo, atteso che questa è una condizione
specifica di menomazione distinta da quella dell'invalidità»!
Ma
"handicappato" e "invalido" non sono sinonimi?
(1) Analoghe considerazioni valgono
per l'articolo "Operatori per anziani e demenza" di Livia Silvano,
psicologa consulente per la formazione di personale dei servizi per anziani, e
di Lucia Bertoni, assistente sociale - Ufficio servizi sociali
dell'Amministrazione provinciale di Mantova, pubblicato sul n. 19, 1 ° novembre
1995 di Prospettive sociali e sanitarie. AI riguardo, è preoccupante che gli
operatori rivolgano la loro attenzione esclusivamente al funzionamento dei
servizi (e quindi alla formazione del personale) e non anche e soprattutto ai
criteri di accesso ai servizi (e cioè ai diritti dei cittadini).
(2) Cfr. Salute e territorio, n. 93, 1994.
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