Prospettive assistenziali, n. 114, aprile-giugno
1996
IL CENTRO DIURNO PER HANDICAPPATI INTELLETTIVI
GRAVI ULTRAQUATTORDICENNI
MARIA GRAZIA BREDA *
Trent'anni fa gli handicappati intellettivi o vivevano
con i loro genitori o erano ricoverati in istituto o, addirittura, in
manicomio. Praticamente non esisteva altro, né centri diurni, né comunità
alloggio.
Poi si incominciò a parlare di diritti: le persone
handicappate dovevano essere considerate a tutti gli effetti dei cittadini, con
precisi diritti, compreso il diritto all'inserimento sociale.
Ancora oggi nel rispondere ai bisogni e alle esigenze
delle persone handicappate si possono scegliere strade e obiettivi diversi:
- creare servizi esclusivamente per handicappati
secondo un modo di pensare che vede la persona handicappata come soggetto da
"proteggere" e, di fatto, da escludere;
- prevedere i necessari adattamenti all'interno di
tutti i servizi rivolti agli altri cittadini, indistintamente, per affermare il
pieno inserimento sociale della persona, anche quando è handicappata: casa,
lavoro, scuola, sanità, trasporti, ...
II primo impegno, le prime battaglie, sono state
date sul fronte della scuola. Abbiamo così ottenuto il riconoscimento del
diritto, esigibile, all'integrazione scolastica per tutti gli handicappati,
compresi gli handicappati intellettivi con grave o limitata autonomia.
II diritto ad usufruire della "scuola di
tutti" si contrapponeva (e si contrappone) alle classi speciali, alle
classi differenziali, ai centri speciali per soli handicappati.
A Torino, per esempio, si è ottenuto che, a partire
da quest'anno, siano progressivamente superati i CESM, centri educativi
speciali municipali per consentire anche ai soggetti più gravi la frequenza
scolastica nelle scuole normali. Verranno salvaguardate sia le attrezzature,
sia le professionalità degli insegnanti, ma gli allievi fruiranno, di diritto,
della scuola del proprio quartiere, come tutti.
Non è ovunque attuato, purtroppo, il diritto
all'inserimento nel nido e nella scuola materna, anche se praticamente
realizzato ormai ovunque.
Un'altra grande battaglia è stata data sul fronte
del lavoro e, quindi, della preparazione al lavoro. In particolare per gli
handicappati intellettivi si sono pretese (e ottenute) assunzioni in posti di
lavoro vero (in luogo dei laboratori protetti) e corsi prelavorativi nei centri
di formazione professionale per sconfiggere l'isolamento a cui sono condannati
nei centri di formazione speciale. Naturalmente parliamo di quanti, pur avendo
un handicap intellettivo, sono in grado di assicurare comunque una resa
produttiva accettabile e proficua.
Per limitare al massimo il ricovero negli istituti,
soprattutto dei soggetti con scarsissime autonomie, l'impegno è stato rivolto
verso gli enti locali per ottenere l'istituzione di centri diurni e di comunità
alloggio, su cui ci soffermeremo più avanti. Questi servizi, però, non sono
ancora obbligatoriamente istituiti dai Comuni e per tali ragioni è necessario
impegnarsi per trasformare un'opportunità in un diritto.
Questo anche per contrastare il pericolo - sempre
presente - del ritorno al ricovero (e quindi all'emarginazione) in assenza di
alternative valide.
Le RSA, residenze sanitarie assistenziali, per
esempio, sono predisposte da parte di alcune Regioni (Emilia Romagna, Lazio,
Veneto...) non solo per gli anziani cronici non autosufficienti, ma anche per
handicappati fisici, sensoriali, intellettivi.
Le RSA, quindi, rischiano di diventare i vecchi
contenitori "ghetto", contro cui si è tanto lottato in questi anni.
A seconda della via che si sceglie (esclusione o
integrazione) diverse sono le strade da percorrere.
Ovviamente noi siamo impegnati per la realizzazione
della piena integrazione sociale di tutte le persone handicappate, ma per passare
dall'affermazione di principio, alle richieste che concretamente si devono fare
per ottenere il rispetto dei diritti, dobbiamo individuare qual è l'ente che
deve fornire le prestazioni e perciò avere altrettanto chiaro di chi si parla,
perché in base all'autonomia e alla natura del bisogno che la persona
handicappata esprime, vi sono settori ed enti diversi che sono tenuti a
provvedervi.
II principio di fondo che ci deve guidare è che gli
handicappati sono cittadini come tutti e, dunque, le richieste vanno
indirizzate all'organismo competente in materia, che interviene per risolvere
quel problema anche per chi non è handicappato.
Handicap intellettivo e
malattia mentale
L'incontro di oggi si rivolge ad una particolare
fascia di popolazione: gli handicappati intellettivi.
Chiariamo quindi innanzitutto il perché dell'uso del
termine "intellettivo". Le parole hanno sempre un significato e
contribuiscono, nel bene e nel male, a creare cultura.
Oggi, ad esempio, viene ancora usato il termine
"psichico" (e la recente legge quadro sull'handicap 104/1992,
purtroppo non fa eccezione) per indicare sia le persone che hanno un handicap
intellettivo (insufficienza mentale), sia coloro che presentano disturbi di
natura psichiatrica.
A causa della confusione che crea l'impiego della
stessa parola per descrivere le due situazioni così diverse, dall'entrata in
vigore della legge 482/1968 fino alla sentenza della Corte costituzionale n.
50/1990 gli handicappati intellettivi sono stati esclusi dal collocamento
obbligatorio al lavoro.
Per la stessa ragione giovani psicotici continuano
ad essere inseriti nei centri diurni assistenziali per handicappati
intellettivi.
Le conseguenze sono negative sia per gli utenti, a
causa delle ovvie difficoltà di convivenza che vi sono tra le due tipologie di
soggetti; così diverse, e per lo stesso personale educativo, che non ha,
ovviamente, la professionalità e la conoscenza che sono richieste per chi si occupa
della cura delle persone con malattia mentale.
Proprio perché si arriva dall'esperienza tragica dei
manicomi, prima ricordata, o comunque degli istituti emarginanti, è bene
pretendere che siano rispettate le diversità e previsti, pertanto, servizi che
tengano conto delle esigenze e delle autonomie nel rispetto di ciascuno.
Infatti, una volta chiarito, ad esempio, che i soggetti
psicotici o con disturbi psichiatrici sono di competenza del settore sanitario,
è all'USL, comparto sanità, che vanno avanzate le richieste di servizio,
perché, in base alle leggi vigenti, è la psichiatria che deve organizzare le
risposte diurne e residenziali sui territorio per questi utenti.
Un nuovo criterio di
valutazione: l'autonomia
Gli handicappati intellettivi non sono tutti uguali,
ma presentano bisogni ed esigenze che sono diverse a seconda del grado di
autonomia che possono raggiungere con i sostegni che sono messi a loro
disposizione.
È importante spostare t'obiettivo sul concetto di
autonomia per tutti gli handicappati (anche quelli fisici e sensoriali), ma
oggi noi parliamo di handicappati intellettivi e, per quanto li riguarda,
possiamo dire che, in base all'autonomia che esprimono (o che potrebbero
esprimere) possono essere sinteticamente così suddivisi:
- persone che con idonei interventi sono in grado di
raggiungere livelli di autonomia e capacità lavorativa per lo svolgimento di
mansioni semplici nei normali posti di lavoro, e, quindi, hanno diritto al
lavoro;
- persone che, a causa di gravi compromissioni
intellettive, che non consentono alcuna possibilità di inserimento lavorativo,
hanno la necessità di avere assicurate prestazioni finalizzate al
raggiungimento e mantenimento della massima autonomia possibile e, quindi,
hanno diritto di essere inserite nei centri diurni.
Non esistono soggetti irrecuperabili, anche se
"gravissimi", cioè con limitatissime autonomie. A tutti vanno
pertanto garantite condizioni di vita dignitose.
Come sì diceva inizialmente, dobbiamo individuare
qual è l'ente che deve fornire le prestazioni per gli uni (avviabili al
lavoro) o per gli altri (bisognosi di servizi assistenziali), mentre tutti i
servizi sociali (casa, trasporti, tempo libero...) dovranno, ovviamente,
prevedere opportunità e accessibilità per tutti gli handicappati intellettivi,
qualunque sia la loro autonomia.
Ad esempio, la formazione professionale prelavorativa
degli handicappati intellettivi deve rientrare tra le competenze degli
assessorati regionali, provinciali e comunali che intervengono nel settore per
la preparazione al lavoro di tutti gli altri giovani.
Si deve, quindi, chiedere l'apertura su tutto il
territorio regionale, presso i centri di formazione professionale, dei corsi
prelavorativi, analoghi a quelli avviati dal Comune di Torino, dall'Engim di
Nichelino, dall'Enaip di Settimo per dare concretamente una risposta agli
handicappati intellettivi che hanno una autonomia sufficiente per poter essere
avviati al lavoro.
Non si deve accettare che sia il servizio assistenziale
(del Comune o dell'Usl) ad occuparsi di questi giovani, con i suoi servizi,
perché:
- si favorisce l'isolamento di persone che invece
possono inserirsi positivamente nel contesto normale di vita;
- si deresponsabilizzano i settori di competenza
(scuola, formazione professionale, lavoro, trasporti) con la conseguenza che
diventano sempre più selettivi ed escludono sempre più le persone deboli;
- si caricano sui bilanci dell'assistenza spese di
competenza di altri settori, ben sapendo che i bilanci assistenziali sono
cronicamente insufficienti a coprire le esigenze delle persone più deboli e
meno autonome, come gli handicappati intellettivi di cui ci occupiamo oggi. Si
tratta cioè di persone che, proprio perché con limitatissima o nulla autonomia,
non sono in grado né lo saranno mai, di esercitare sulle autorità (a differenza
di altre categorie di handicappati) le opportune pressioni a sostegno delle
loro pur legittime rivendicazioni.
Assistenza, quindi, solo a chi non può essere
inserito al lavoro.
L'assistenza alle persone non autonome: un diritto
sancito dalla Costituzione
II primo comma dell'art. 38 della Costituzione
recita: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per
vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale».
Tuttavia il limite è dato dalla mancanza di una legge
che recepisca quanto affermato dalla Costituzione e, pertanto, il diritto
all'assistenza non è realmente esigibile.
Per cui: da un lato è indispensabile ridurre in tutta
la misura del possibile il numero delle persone che utilizzano l'assistenza,
limitandolo a chi effettivamente ne ha diritto, in base alle condizioni
previste dall'art. 38 della Costituzione, che individua come soggetti di
assistenza solo gli inabili e sprovvisti dei mezzi di sussistenza. Dall'altra
parte però è necessario ottenere precisi provvedimenti, perché siano davvero
esigibili i servizi assistenziali per queste persone.
Dobbiamo dire che per fortuna (!) sono rimaste in
vigore disposizioni (una risale addirittura al secolo scorso) in base alle
quali i Comuni e le Province hanno l'obbligo inderogabile di intervenire, se
necessario immediatamente, al ricovero in comunità alloggio o in istituto delle
persone prive di sostegno familiare e non in grado di provvedere autonomamente
a se stesse.
In particolare i Comuni sono tenuti ad assistere gli
handicappati minori e adulti rimasti privi di famiglia (ad esempio a causa di
decesso dei genitori come previsto dall'art. 154 del regio decreto 18 giugno
1931 n. 77, che si richiama alla legge 19 novembre 1889 n. 6535 (1). Se i Comuni
non provvedono compiono un reato.
È
una disposizione molto chiara, confermata dal regio decreto 3 marzo 1934 n. 383
(2). Le associazioni di familiari e le associazioni degli handicappati
dovrebbero adoperarsi quindi per pretenderne l'attuazione.
Tuttavia, quando si parla di ricovero, viene inteso
anche il ricovero in istituto e non solo quello in comunità alloggio. Vi è
ancora molta strada da fare, quindi, anche in questo campo, così come in
quello dei centri diurni.
Anche la legge quadro sull'handicap non ha stabilito
nulla di prescrittivo a carico delle Regioni e degli Enti locali (Comuni
singoli o associati) per cui la famiglia di un handicappato intellettivo
ultraquindicenne con limitata o nulla autonomia a tutt'oggi non ha diritti
certi (salvo, come abbiamo visto prima, quello del ricovero in istituto).
Vedremo più avanti, cosa si può fare per ottenerli.
Perché chiediamo centri diurni come diritto
Noi riteniamo che sia doveroso assicurare agli
handicappati intellettivi un tenore di vita dignitoso, qualunque sia la loro
gravità. E per assicurare loro livelli di vita accettabili crediamo che il
luogo privilegiato sia la famiglia, che però non pub e non deve essere lasciata
sola, con i suoi problemi.
Soprattutto quando il figlio cresce e porta con sé
oltre ai problemi legati all'handicap anche quelli legati all'età, è indubbio
che alla famiglia deve essere assicurato il massimo del sostegno per poter
continuare a reggere il peso che ciò comporta.
La famiglia deve essere messa in grado di poter
vivere una sua vita, il più possibile normale, che comprende tempi di riposo e
di svago, altre relazioni e altri affetti da coltivare.
Di qui la fondamentale importanza che viene ad
assumere il centro diurno per favorire la permanenza in famiglia di
handicappati intellettivi ultraquindicenni con limitata o nulla autonomia.
I centri diurni: anche la qualità è un diritto
I centri diurni dovrebbero fornire alle persone
handicappate opportunità e stimoli per il raggiungimento della massima
autonomia possibile, ed essere aperti almeno dal lunedì al venerdì, per otto
ore al giorno, con personale adeguato sia come preparazione professionale che
come numero degli addetti.
Naturalmente non pensiamo ad attività svolte solo nei
centri diurni e solo tra i soggetti handicappati intellettivi che porterebbero
evidentemente anche ad un peggioramento (anche solo per imitazione di soggetti
più compromessi) della loro autonomia. Così come è evidente che le famiglie
che possono o desiderano usufruire solo del tempo parziale, lo potranno
scegliere. Si chiede, però, che sia stabilito un diritto al servizio, così come
avviene per la scuola dell'obbligo.
A nostro avviso andrebbe già previsto, nella legge
per il collocamento al lavoro degli handicappati (attualmente in via di
ristesura) che agli handicappati intellettivi, privi di autonomia e capacità
lavorativa, non avviabili al lavoro, sia assicurato il diritto alla frequenza
ai centri diurni assistenziali, che i Comuni dovrebbero obbligatoriamente
istituire.
Uno degli obiettivi della giornata consiste proprio
nel suggerire se possibile attraverso lo scambio e il confronto delle
esperienze come si possano organizzare le 40 ore che le famiglie richiedono,
senza necessariamente farle passare dentro il centro diurno.
Abbiamo invitato alcune realtà a testimoniare proprio
in merito ai possibili contatti esterni che si possono costruire sia
all'interno di uno stesso Comune, o tra Usi e Scuole di Stato, o per sollecitazione
di un'Associazione di volontariato in relazione con i centri diurni dell'USSL.
Anche in base al grado di autonomia dei soggetti si
possono differenziare le attività. Ad esempio vi sono molti handicappati che,
pur non essendo molto gravi, non hanno tuttavia la capacità lavorativa
necessaria per poter essere avviati al lavoro, neppure a part-time.
Vi sono possibilità, anche per loro, diversificate
all'esterno dei centri diurni, per cui, grazie ad esempio a tirocini
"socializzanti" (svolti in ambienti lavorativi per esempio pubblici,
ma non solo) parte delle 40 ore possono essere trascorse in ambienti
favorevoli al mantenimento dei livelli di autonomia acquisiti, se non a
migliorarli. Penso al mantenimento dei parchi, dei giardini o a piccole
mansioni (piccole pulizie, consegna di carte da una persona all'altra...).
Non siamo invece favorevoli - anche se si sono
accettati per mancanza di riposte concrete esaurienti - all'educativa
territoriale così come è impostata attualmente e cioè all'appoggio di educatori
che seguono per alcune ore al giorno direttamente il giovane handicappato
intellettivo.
Queste esperienze sono negative per la famiglia, che
realmente non ne viene sollevata; per il soggetto, perché non rientra in un
progetto globale educativo/assistenziale; per l'educatore stesso, che ha
un'esperienza più di badanza,
che
di possibilità di esercizio delle proprie capacità non avendo ovviamente a
disposizione le risorse, le attrezzature, la struttura stessa del centro
diurno.
Insistiamo da sempre sulla necessità di assicurare
un supporto serio (e quindi sulla possibilità di un tempo pieno di frequenza)
perché laddove si è realizzato i genitori, ricevendo un aiuto concreto, hanno
continuato a tenere presso di loro i figli anche gravemente handicappati. In
questo modo sono state anche realizzate notevoli economie di spesa a carico
del settore pubblico.
Accurata scelta del personale
Un capitolo importante è stato dedicato nel libro
"Handicap oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte" (3) alla
scelta del personale che deve occuparsi delle persone assistite, non in grado
- come gli handicappati intellettivi - di potersi difendere autonomamente.
È ovvio che le condizioni di vita delle persone
assistite dipendono in larghissima misura dalle capacità e anche dal numero del
personale addetto. Ma la professionalità degli operatori (in particolare degli
educatori) è un elemento della massima importanza. La professionalità non si
acquisisce una volta per tutte: essa deve essere continuamente aggiornata.
La scelta del personale e la determinazione del
numero minimo degli addetti sono condizioni di fondamentale importanza per una
idonea qualità della vita dell'assistito.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario
evitare, per quanto possibile, che venga assunto personale con gravi disturbi
della personalità. Infatti, gli handicappati intellettivi gravi non sono in
grado né di reagire alle violenze subite, né di segnalarle.
È pertanto necessario che tutti gli operatori, prima
di essere assunti per lo svolgimento di attività siano sottoposti, con tutte
le garanzie di riservatezza del caso, a un esame approfondito della loro
personalità.
Centri scientificamente riconosciuti validi, scelti
di comune accordo dagli enti e dai sindacati dei lavoratori, dovrebbero essere
incaricati di rilasciare una dichiarazione attestante che l'operatore è
adeguato per le caratteristiche della sua personalità a svolgere determinate
attività con handicappati gravi.
Ovviamente dovrebbe essere garantita la totale
riservatezza nei confronti di coloro che non ottenessero la suddetta
certificazione, riservatezza totale anche nei riguardi dell'ente pubblico e
privato che li ha indirizzati, al quale nulla deve essere comunicato né
direttamente né indirettamente, a esclusione di quanto scritto nella certificazione
consegnata direttamente a ciascun operatore ritenuto idoneo.
Perché il centro diurno deve diventare un diritto
Nonostante l'impegno delle Associazioni, sono molte
le Amministrazioni che hanno impostato (o continuano a impostare) il centro
diurno come se fosse un "parcheggio" e non un servizio educativo;
non vi è inoltre una omogeneità negli interventi, né nel numero delle ore di
prestazioni fornite; è un servizio considerato ancora dagli Enti locali
impropriamente "a domanda", e, quindi, nei fatti un servizio
precario.
Sovente vi è la tendenza (proprio per assenza di
norme precise) di lavorare su "progetti" per singoli soggetti, con
orari molto differenziati, quasi che il servizio sia da intendersi come un
intervento educativo di appoggio, anziché un servizio di assistenza alternativo
al ricovero in istituto.
Nessuno vuole nuovi ghetti.
La richiesta di un servizio di "diritto",
con orari capaci di dare una concreta risposta alla famiglia può sposarsi
perfettamente con la richiesta degli operatori di progettualità. Anzi. Ricordo
che le testimonianze che verranno presentate oggi vanno proprio in questa
direzione.
Un altro elemento, altrettanto importante, e finora
poco sviluppato, è il rapporto famiglia/operatori del centro.
Sono rari i centri che possono vantare una cartella
per ogni handicappato presente, in cui sia segnalato il grado di autonomia al
momento dell'ingresso e i vari progressi/regressi successivi, registrati in
collaborazione con la famiglia che viene coinvolta in un progetto educativo sul
figlio.
II concetto di educabilità va ripreso e sviluppato.
Non esistono gli irrecuperabili; tutti, anche i più gravi, possono essere
stimolati, almeno per mantenere i livelli minimi di autonomia.
Riportiamo, sempre dal libro "Handicap oltre la
legge quadro" che cosa scriveva il pedagogista francese E. Séguin alla
metà del secolo scorso:
«Se è disteso, fatelo sedere, se è seduto mettetelo
in piedi, se non mangia da solo, tenetegli le dita e non il cucchiaio... se non
parla e non guarda, parlategli e guardatelo. Nutritelo come un uomo che lavora
e fatelo lavorare, lavorando voi stessi con lui... e se in quattro anni non potrete
dargli intelligenza, né parola, né movimento volontario, la somma di energia
che avrete speso con lui non sarà ancora perduta...».
Chi deve gestire il centro diurno pubblico o privato
II Comune (singolo o associato) è l'ente più vicino
al cittadino e, dunque, il più idoneo a gestire il servizio direttamente o
tramite convenzioni con privati.
AI Comune si deve chiedere di deliberare il servizio
di centro diurno perché sia davvero un servizio di diritto per tutti i soggetti
handicappati intellettivi ultraquindicenni, che, a causa della gravità delle
loro condizioni, non possono essere inseriti proficuamente in attività
lavorative (e pertanto frequentare i corsi di formazione professionale
prelavorativa).
II
servizio deve essere deliberato secondo i seguenti punti:
a)
definizione dell'utenza che ha diritto al centro diurno e cioè dei soggetti di
cui sopra; b) orario di accesso all'utenza; giorni di frequenza; la nostra
richiesta è di cinque giorni settimanali (almeno) per 40 ore settimanali; c)
introduzione di criteri per una accurata scelta del personale che opera a
contatto con l'utenza;
d)
predisposizione delle indispensabili iniziative di formazione permanente;
e)
esenzione di contributi da parte di parenti di assistiti maggiorenni;
f) previsione della possibilità di accesso da parte
delle Associazioni e/o dei gruppi di famiglie del territorio, con possibilità
di visita senza preavviso delle strutture diurne (ma anche delle altre gestite
dal Comune o dagli enti convenzionati), secondo il modello già attuato dal
Comune di Torino con delibera del 1983.
Problemi istituzionali aperti
La legge quadro sull'handicap n. 104/1992 parla solo
genericamente all'art. 8, lettera I, dei centri diurni per i soggetti in
situazione di gravità, ma non ne rende obbligatoria per i Comuni la loro
istituzione.
La legge regionale 13 aprile 1995, n. 62 poteva
essere lo strumento per passare dalle intenzioni ai fatti, ma non è stato
così. Infatti:
- i servizi socio-assistenziali che erano precedentemente
in capo alle USSL ora possono essere gestiti anche da altri organismi, peraltro
ancora da definire;
- vi è solo un richiamo agli inserimenti in centri
diurni assistenziali (lettera g, art. 22), ma i livelli minimi (e cioè quanti,
per quante ore, dove ...) sono rimandati all'approvazione del Piano
socio-sanitario (p. 4, art. 22).
Perché siano assicurati centri diurni per gli
handicappati intellettivi ultraquindicenni (non avviabili al lavoro) si deve
chiedere alla Regione di deliberare prevedendo 1 centro diurno almeno ogni
30.000 abitanti, con una capienza non superiore ai 25 posti e non inserito in
una struttura residenziale (ad esempio una RSA).
Risorse
Molto spesso di fronte alle richieste avanzate dai
familiari o dalle associazioni degli handicappati, gli Amministratori
rispondono che non possono aprire i servizi in quantità adeguata perché le
risorse per l'assistenza sono poche.
Per
accertare se quanto affermato è vero si deve però verificare:
1) come utilizzano i patrimoni IPAB: stato dei beni,
rendite, affitti richiesti..., destinati dai fondatori all'assistenza. Le IPAB
sono infatti istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza che fanno
riferimento alla legge 17 luglio 1890 n. 6972; esse gestiscono, fra l'altro,
istituti di ricovero per bambini, anziani, handicappati, oltre ad asili nido e
scuole materne. I loro patrimoni mobiliari e immobiliari sono assai rilevanti;
nella seduta della Camera dei deputati del 17 febbraio 1982, l'On. Marisa
Galli li valutò in 30-40.000 miliardi. Si tratta, quindi, di una ricchezza
imponente che dovrebbe essere utilizzata in primo luogo, anche tramite vendite
e riconversioni patrimoniali, per
migliorare le condizioni di vita degli attuati assistiti. Naturalmente non per
istituire nuovi istituti, ma per creare servizi alternativi sul territorio;
2) se spendono risorse dell'assistenza in competenze
che sono di altri (per esempio della sanità per gli anziani malati cronici non
autosufficienti: 15 miliardi all'anno solo per il Comune di Torino; del lavoro
e formazione professionale per i tirocini di handicappati intellettivi; della
cultura e dello sport per attività di tempo libero...). Un attento esame al
riguardo va fatto anche per quanto riguarda la suddivisione dei finanziamenti
in base all'art. 42 della legge 104/1992, legge quadro sull'handicap;
4) per i Comuni della Provincia di Torino se hanno
promosso causa nei confronti della Provincia di Torino per il recupero della
quota che si è trattenuta nel passare le competenze socioassistenziali in
materia di handicappati intellettivi (15 miliardi all'anno per Torino e
Provincia).
5) se sono concesse prestazioni a prezzi irrisori o
addirittura gratuite a fasce di popolazioni abbienti (mense scolastiche, asili
nido, assistenza domiciliare...) in particolare, ad esempio, a possessori di
consistenti beni immobili.
* Relazione tenuta al convegno
regionale "I diritti degli handicappati intellettivi ultraquattordicenni.
II centro diurno: un servizio aperto e inserito nel territorio", svoltosi
a Druento (Torino) il 21 ottobre 1995. La manifestazione è stata organizzata
dall'Associazione GRH, Genitori di ragazzi handicappati e dalla Scuola dei
diritti dell'ULCES, Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale.
(1) L'art. 154 del regio decreto 18
giugno 1931 n. 77, che si richiama alla legge 19 novembre 1889 n. 6535, recita:
«Le persone riconosciute dall'autorità
locale di pubblica sicurezza inabili a qualsiasi lavoro proficuo e che non abbiano
mezzi di sussistenza né parenti tenuti per legge agli alimenti e in condizioni
di poterli prestare sono proposte (...) per il ricovero in un istituto di
assistenza o beneficenza del luogo o di altro Comune (...)».
(2) L'art. 91 del Rd 3 marzo 1934 n.
383 stabilisce l'obbligo dei Comuni di provvedere al «mantenimento degli inabili al lavoro».
(3) Cfr. M.G. Breda, F. Santanera, Handicap oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte, UTET
Libreria, 1995.
www.fondazionepromozionesociale.it