Prospettive assistenziali, n. 114, aprile-giugno
1996
PER LA CORTE COSTITUZIONALE NON È
PENALMENTE PUNIBILE LA MENDICITÀ NON MOLESTA
Dopo molti,
troppi decenni, finalmente la Corte costituzionale ha stabilito (cfr. la
sentenza che riportiamo integralmente) che non è penalmente punibile la
mendicità, purché essa non rechi alcun disturbo al pubblico.
Non ci
sembrano, tuttavia, condivisibili i motivi addotti dalla Consulta secondo cui «gli squilibri e le forti tensioni che
caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema
emarginazione». Se le suddette cause
dell'esclusione sociale fossero oggettive, non ci sarebbe nulla da fare: gli
emarginati c'erano, ci sono e ci saranno. Quindi, nessuno è responsabile, nessuno
è colpevole: parlamentari, governanti, amministratori regionali, provinciali e
comunali, tutti assolti.
Ci
chiediamo, pertanto, se sia ancora valido il 2° comma dell'art. 3 della
Costituzione che sancisce quanto segue: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e I'eguaglianza dei cittadini,
impedisce il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Coloro che
operano nel settore, sanno benissimo che l'emarginazione sociale non è una
ineluttabile conseguenza dell'attuale assetto sociale, anche se - com'è ovvio
- una società fondata sull'individualismo, sulla competizione e spesso
sull'antagonismo lascia pochi spazi alle persone più deboli.
Anche in
base a concrete esperienze, è dimostrato che si può prevenire l'emarginazione,
ad esempio:
- nel settore dell'istruzione, operando
per contrastare l'evasione e l'abbandono scolastici;
- nei
confronti dell'integrità fisica e psichica, limitando in tutta la misura del
possibile l'insorgere delle malformazioni e, quando presenti, predisponendo i
necessari, tempestivi interventi riabilitativi;
- nei
riguardi della formazione professionale, non dimenticando (come attualmente
avviene in modo generalizzato) di fornire le necessarie conoscenze di base
alle fasce più deboli e quindi anche ai giovani costretti ad inserirsi precocemente
nel lavoro, sovente prima del raggiungimento della maggiore età;
-
assicurando l'occupazione (e quindi i mezzi per vivere), obiettivo che si può
raggiungere anche colpendo il doppio lavoro, oggi praticato da 4-6 milioni di
persone, iniziativa incomprensibilmente ignorata anche dai sindacati dei
lavoratori;
- garantendo una adeguata abitazione ai
nuclei familiari e alle persone in difficoltà.
È molto
grave che la Corte costituzionale non solo non abbia fatto alcun riferimento
alla prevenzione del bisogno, ma è ancor più preoccupante che continui a non
ricordare al Governo e al Parlamento l'esigenza di promulgare - finalmente -
la legge quadro sull'assistenza, legge di cui la Commissione parlamentare sulla
povertà aveva riconosciuto l'urgenza quasi mezzo secolo fa.
Inoltre non
ci sembra condivisibile il ruolo tappabuchi che la Corte costituzionale
assegna al volontariato. Nella sentenza viene affermato che «la società civile - consapevole dell'insufficienza
dell'azione dello Stato - ha attivato autonome risposte, come testimoniano le
organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d'essere, e la
loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà». A nostro avviso, e proprio in base a quanto stabilisce la Carta
costituzionale, la solidarietà non può essere il paravento dietro al quale si
tenta di nascondere le ingiustizie sociali e le manchevolezze dello Stato.
TESTO DELLA SENTENZA
La Corte costituzionale composta dai signori: Avv.
Mauro Ferri, Presidente - Prof. Luigi Mengoni - Prof. Enzo Cheli - Dott.
Renato Granata - Prof. Giuliano Vassalli - Prof. Francesco Guizzi - Prof.
Cesare Mirabelli - Prof. Fernando Santosuosso - Avv. Massimo Vari - Dott.
Cesare Ruperto - Dott. Riccardo Chieppa - Prof. Gustavo Zagrebelsky, Giudici,
ha pronunciato la seguente sentenza (n. 519/1995), nei giudizi di legittimità
costituzionale dell'art. 670, primo e secondo comma, del codice penale,
promossi con ordinanze emesse I'11 novembre 1994, dal Giudice per le indagini
preliminari presso la Pretura di Firenze, il 21 ottobre 1994, dal Pretore di
Modena - sezione distaccata di Carpi - e il 3 febbraio 1995, dal giudice per
le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, rispettivamente iscritte
ai nn. 22, 67 e 320 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta
ufficiale della Repubblica nn. 5, 7 e 23, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Udito nella lettera di consiglio del 18 ottobre 1995 il giudice relatore
Francesco Guizzi.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di
R.E. e K.D., imputate del reato di mendicità, il giudice per le indagini
preliminari presso la Pretura di Firenze ha sollevato, per contrasto con gli
artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 670, primo comma, del codice penale, riproponendola in
termini identici, con successiva ordinanza, nel procedimento a carico di B.D.,
imputato del medesimo reato.
Osserva il rimettente che la fattispecie contravvenzionale
punitiva della mendicità è posta a tutela dei beni giuridici della tranquillità
e del decoro della civile convivenza con offese che sussisterebbero sia nel caso
della mendicità aggravata da forme particolari (vessatorie, ripugnanti,
petulanti o fraudolente: art. 670, secondo comma), sia nel caso in cui si
impieghino minori nell'accattonaggio (art. 671). Non vi sarebbe, invece,
offesa della morale e della tranquillità pubblica quando l'accusato versi in
una situazione di bisogno non riconducibile a sua colpa, risolvendosi la
mendicità in una legittima richiesta di umana solidarietà, volta a far leva sul
sentimento della carità.
La previsione incriminatrice di cui all'art. 670,
primo comma, del codice penale, violerebbe - ad avviso del giudice a quo - i principi costituzionali di
solidarietà, di uguaglianza e della finalità rieducativa della pena contenuti
negli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, giacché sarebbe
riservato lo stesso trattamento punitivo anche a soggetti che si trovino in
condizioni economico-sociali del tutto diverse. Essa, infatti, prescinde dallo
stato di indigenza non ascrivibile alla condotta individuale; di qui, un
trattamento inadeguato, poiché non finalizzato a rieducare quanti,
obiettivamente incapaci di mantenersi autonomamente, siano perciò costretti a
far ricorso all'altrui solidarietà.
2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha
concluso per la infondatezza della questione per essersi questa Corte già
espressa in tal senso con la sentenza n. 51 del 1959, fornendo una interpretazione
adeguatrice del combinato disposto degli artt. 670 e 54 del codice penale e
sostenendo, altresì, che i diritti della persona umana, solennemente affermati
come primari e fondamentali, diverrebbero illusori se non venissero contemperati
con le esigenze di una tollerabile convivenza (sentenza n. 102 del 1975).
Priva di ogni
fondamento
sarebbe, poi, l'asserita violazione dell'art. 27, terzo comma, dal momento che
la consolidata giurisprudenza costituzionale ha circoscritto la finalità
rieducativa e risocializzante della pena esclusivamente alla fase dell'esecuzione.
3. - Nel corso del procedimento penale a carico di
LS., di nazionalità jugoslava, che era stato colto a mendicare nei locali di
una scuola elementare mostrando la fotografia di un bambino al quale erano
stati parzialmente amputati gli arti inferiori, il Pretore di Modena - sezione
distaccata di Carpi - ha sollevato due distinte questioni di legittimità
costituzionale sull'art. 670, primo e secondo comma, del codice penale.
II giudice a
quo avverte l'esigenza di individuare
il bene giuridico protetto dalla disposizione in esame, e lo identifica
nell'ordine pubblico inteso come moralità, decoro e pubblica quiete. Egli
dubita, però, che l'art. 670 offra una forma anche lata di tutela del dovere di
svolgere un'attività lavorativa o del diritto all'integrità del patrimonio e
alla tranquillità della persona; e ritiene, anzi, che si profilerebbe una
evidente e non giustificata sproporzione nel sacrificio del diritto
fondamentale, e inviolabile, della libertà personale. II rimettente richiama,
perciò, l'insegnamento di questa Corte, che anche da ultimo si è riservata il
compito di verificare se il legislatore rispetti il limite della ragionevolezza
nella determinazione della sanzione penale (sentenza n. 341 del 1994); limite
imposto alla sfera di discrezionalità quando le finalità di prevenzione siano
perseguite con strumenti penali che producono danni all'individuo, e alla
società, sproporzionalmente maggiori dei vantaggi ottenuti attraverso l'uso
della incriminazione (sentenza n. 409 del 1989).
Sulla scia di tali principi, sottolinea il Pretore di
Modena, la Corte ha perciò censurato diverse disposizioni della legge penale
sia per lesione del principio di uguaglianza (sentenze nn. 422 e 344 del 1993 e
409 del 1989) sia per violazione della finalità rieducativa della pena
(sentenza n. 313 del 1990).
II raffronto con talune disposizioni riguardanti
l'ordine pubblico, o la tranquillità, o l'incolumità pubblica, per le quali si
prevedono in via alternativa le sanzioni dell'arresto o dell'ammenda, palesa
un profilo di irragionevolezza quale si riscontra nel minimo edittale
dell'arresto, per un mese, comminato dall'art. 670, secondo comma, del codice
penale. II disturbo delle occupazioni o quello del riposo, la molestia o il
disturbo alle persone, e finanche gli atti contrari alla pubblica decenza,
recherebbero un'offesa al pubblico decoro inferiore a quella
dell'accattonaggio, atteso che l'art. 726 del codice penale punisce con
l'arresto sino a un mese, o con l'ammenda da lire 30.000 a 400.000, i
comportamenti da ultimo citati.
L'estrema severità della norma in esame è, certo, il
prodotto delle concezioni autoritarie che connotavano la cultura del
legislatore del 1930, inducendolo a una radicale inversione di tendenza
rispetto alla impostazione del codice Zanardelli, che - ispirandosi alla
tradizione del pensiero liberale - puniva la mendicità con l'arresto fino a
cinque giorni, nella forma meno grave (art. 453), e con quello fino a un mese
per l'accattonaggio vessatorio (art. 454). Attribuendo peraltro al giudice la
possibilità di far scontare la pena mediante prestazione d'opera in lavori di
pubblica utilità (art. 455).
Altra doglianza prospettata dallo stesso Pretore
riguarda infine, per violazione degli artt. 13 e 97 della Costituzione, il
principio di sussidiarietà della tutela penate, che potrebbe dispiegare un
effetto perverso, nell'attuale stato di crisi dell'amministrazione giudiziaria,
contribuendo a incrementare il sovraffollamento delle carceri. Più idonea
sembra dunque la scelta della depenalizzazione, anche perché la fattispecie
incriminatrice tutela, ad avviso del giudice a quo, un interesse anacronistico
che, certo, non può considerarsi rivitalizzato dall'intensificarsi dei
movimenti migratori dai paesi in condizioni precarie di sviluppo.
4. - È intervenuto, anche nel giudizio sulla
questione sollevata dal Pretore di Modena, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per la infondatezza della questione.
In ordine al primo profilo di asserita illegittimità
costituzionale, che si concreta nella richiesta di una pronuncia sostitutiva
volta a ridimensionare le pene previste dal citato art. 670 per ricondurle
entro limiti ragionevoli, l'Avvocatura ha ribadito la discrezionalità del
legislatore per la rispondenza della fattispecie alla tutela dei beni giuridici
della «tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico»
(sentenza n. 51 del 1959).
Con riferimento, poi, al secondo profilo - quello in
base al quale sarebbe irrazionale la «criminalizzazione» della mendicità -
verrebbe in rilievo la pericolosità del comportamento di coloro i quali possono
porre in pericolo i beni giuridici della pubblica tranquillità e dell'ordine
pubblico. Sebbene la Costituzione non reprima in sé il comportamento di quanti
- astenendosi dal lavoro - conducono un'esistenza diversa da quella della
generalità dei cittadini, essa deman
da
tuttavia al legislatore il compito di predisporre i mezzi idonei a evitare che
il diritto del singolo contrasti con la tutela dei beni predetti (sentenza n.
12 del 1972). Di conseguenza, la repressione penale dell'accattonaggio,
conclude l'Avvocatura, non comprimerebbe i diritti fondamentali della
personalità e, quindi, non sconfinerebbe nell'arbitrarietà e
nell'irragionevolezza, né lederebbe il canone del buon andamento di cui
all'art. 97 della Costituzione.
Considerato in diritto
1. - Viene riproposta, a distanza di circa vent'anni,
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 670 del codice penale con
due ordinanze di identico tenore sollevate dal Pretore di Firenze, in ordine
al primo comma, e con una ordinanza del Pretore di Modena - sezione distaccata
di Carpi - in ordine al primo e secondo comma.
Ad avviso del Pretore di Firenze, vi sarebbe lesione
dei principi di solidarietà, di uguaglianza e della finalità rieducativa della
pena contenuti, rispettivamente, negli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, assoggettandosi a sanzione penale coloro che versano in
condizioni di indigenza non ascrivibili alla propria condotta, dolosa o
colposa che sia. Oggetto di doglianza del Pretore di Modena - sezione di Carpi
- è il secondo comma del medesimo art. 670 del codice penale, nella parte in
cui prevede come minimo edittale la pena di un mese di arresto: sanzione penale
che sarebbe statuita in spregio dei principi di ragionevolezza e della
finalità rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione), fra l'altro più severa di quella comminata dal codice Zanardelli
agli artt. 453 e 454.
Con tale ultima ordinanza viene prospettata, altresì,
la questione di costituzionalità dell'intero articolo 670 per contrasto, oltre
che con i valori costituzionali indicati, anche con il principio della libertà
personale e con il canone del buon andamento dell'amministrazione (artt. 13 e
97, primo comma, della Costituzione), apparendo violato il principio di
sussidiarietà della tutela penale perché si utilizza una sanzione non congrua,
correlata a un interesse che si palesa anacronistico, mentre sarebbe più
efficace la repressione amministrativa che eviterebbe, peraltro, l'effetto
indotto d'un sovraffollamento delle carceri.
Riguardando le questioni, oggetto delle tre ordinanze
di rimessione, la stessa disposizione di legge, si deve necessariamente
procedere alla loro riunione, esaminando per prima l'ordinanza del Pretore di
Modena - sezione di Carpi - che
è
logicamente da anteporre alle altre, dato il suo carattere di globalità. E
invero, ove accolta, essa renderebbe superfluo l'esame delle altre due
questioni.
2. - La Corte costituzionale si è già pronunciata
sull'art. 670 del codice penale, nel senso della infondatezza, con le sentenze
n. 51 del 1959 e n. 102 del 1975 in precedenza citate.
Con la prima decisione, limitata al controllo di
conformità in riferimento all'art. 38 della Costituzione, questa Corte escluse
la illegittimità costituzionale della disposizione, rilevando che «la libertà
di prestare assistenza in forme private e ad iniziativa privata non comprende
in alcun modo la libertà di accattonaggio». Con la seconda, diede, sì, valore
recessivo alla mendicità come «scelta di libertà», ma nel contempo sostenne
che - per coloro i quali vi fossero indotti non essendo stati messi «in
condizione di poter tempestivamente usufruire di quell'assistenza pubblica»
cui avrebbero avuto diritto - ben potesse rientrare nella sfera di applicazione
dell'art. 54 del codice penale l'accattonaggio della persona «fisicamente
debilitata e priva di chi debba per legge provvedere ai suoi bisogni
essenziali».
3. - L'art. 670 del codice penale consta di due
ipotesi criminose che si devono mantenere fra loro nettamente distinte. La
prima punisce, con la pena dell'arresto fino a tre mesi, «chiunque mendica in
luogo pubblico o aperto al pubblico» (primo comma); la seconda sanziona più
gravemente, con l'arresto da uno a sei mesi, il fatto «commesso in modo
ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando
altri mezzi fraudolenti per destare I'altrui pietà» (secondo comma). È
opportuno, sul piano metodologico, distinguere le due ipotesi nel caso in cui
questa Corte dovesse accedere a una declaratoria di illegittimità, anche
parziale, delle questioni sollevate. E ciò al fine di consentire una
valutazione disgiunta dei due valori penalistici coinvolti, senza
pregiudicare, con l'esame di una figura, anche la valutazione dell'altra (che è
quanto accadrebbe qualora si configurasse il reato di cui al secondo comma
dell'art. 670 quale ipotesi aggravata).
La denuncia del Pretore di Modena - sezione
distaccata di Carpi - investe l'intera disposizione e, dunque, entrambe le
figure di reato.
L'ipotesi della mendicità non invasiva integra una figura di reato ormai scarsamente perseguita
in concreto, mentre nella vita quotidiana, specie nelle città più ricche, non
è raro il caso di coloro che - senza arrecare alcun disturbo - domandino
compostamente, se non con evidente imbarazzo, un aiuto ai passanti. Di qui, il
disagio degli organi statali preposti alla repressione
di
questo e altri reati consimili - chiaramente avvertito e, talora, apertamente
manifestato - che è sintomo, univoco, di un'abnorme utilizzazione dello
strumento penale.
Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano
le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che -
senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo - non si può non cogliere
con preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni,
volte a "nascondere" la miseria e a considerare le persone in
condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi in una sorta di
recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che il movimento
codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale,
preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la
istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti. Ma la
coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un
tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società
civile - consapevole dell'insufficienza dell'azione dello Stato - ha attivato
autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che
hanno tratto la loro ragion d'essere, e la loro regola, dal valore
costituzionale della solidarietà. D'altra parte, i paventati effetti di
ulteriore affollamento delle carceri e d'un accrescimento del carico penale
sono irrealistici e comunque potranno essere scongiurati se e in quanto si
consoliderà l'indirizzo del legislatore verso la «depenalizzazione».
In questo quadro, la figura criminosa della mendicità
non invasiva appare costituzionalmente
illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere
in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni
giuridici della tranquillità pubblica, «con qualche riflesso sull'ordine pubblico»
(sentenza n. 51 del 1959), può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla
mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto.
4. - Altro discorso attiene invece al secondo comma
dell'art. 670, che riguarda una serie di figure di mendicità invasiva. Per le forme in cui prende
corpo, questa disposizione rimane fattispecie idonea a tutelare rilevanti beni
giuridici, fra i quali anche lo spontaneo adempimento del dovere di
solidarietà, che appare inquinata in tutte quelle ipotesi nelle quali il
mendicante faccia impiego di mezzi fraudolenti al fine di «destare I'altrui
pietà».
La
questione sollevata in ordine a questa parte non può, dunque, essere accolta.
5. - Nella declaratoria di illegittimità costituzionale
nei termini esposti, resta assorbita la questione, particolare, sollevata dal
Pretore di Firenze con riguardo al primo comma in parte qua. Non può essere invece assorbita la seconda questione
sollevata dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi - circa la
sproporzione della sanzione penale minima per l'ipotesi di reato più grave.
Essa, tuttavia, deve essere dichiarata infondata, perché questa Corte non ritiene
di poter ripercorrere, nella specie, I'iter argomentativo della sentenza n.
341 del 1994, tenuta a modello nell'ordinanza di rimessione, per l'evidente
diversità delle condotte indicate quali tertia comparationis.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1)
dichiara l'illegittimità
costituzionale dell'art. 670, primo comma, del codice penale;
2) dichiara non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 670, secondo comma, del codice penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, 27, terzo comma, 97, primo
comma, della Costituzione, dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi
- con l'ordinanza in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 670, secondo
comma, del codice penale nella parte in cui prevede come pena minima un mese
di arresto, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo
comma, della Costituzione, dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi
- con l'ordinanza in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 15 dicembre 1995.
F.to: Mauro Ferri, Presidente -
Francesco Guizzi, Redattore - Giuseppe Di Paola, Cancelliere.
Depositata in cancelleria il
28 dicembre 1995.
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