Prospettive assistenziali, n. 114, aprile-giugno
1996
UNA
ESPERIENZA DI AFFIDAMENTO FAMILIARE DI UNA MINORE EXTRACOMUNITARIA
CORRADO E FIORELLA FINESCHI
Nel 1987, all'inizio del mese di novembre, venimmo a
sapere da uno studente di medicina africano, compagno di corso di una delle
nostre figlie, che sua sorella di appena 12 anni, arrivata a Torino da poco più
di un mese, si trovava in gravi difficoltà. Era stata portata in Italia da una
suora che anni prima era stata missionaria in Africa e aveva lavorato nel
villaggio dove viveva la famiglia dei due ragazzi. Nel 1982 aveva portato a
Torino il fratello, che già studiava medicina nel suo Paese, offrendosi di
mantenerlo agli studi. Aveva un progetto che gli anziani del villaggio avevano
approvato con entusiasmo: trovare in Italia i finanziamenti per costruire un
ospedale nel villaggio e intanto preparare un bravo medico, con una laurea
presa in Italia. Così, quando nell'estate del 1987 era tornata in Africa per
visitare il villaggio e scegliere il terreno dove sarebbe stato costruito
l'ospedale, era stata bene accolta la sua proposta di portare in Italia la
sorella del futuro medico per far studiare anche lei e farla diventare
infermiera.
Poco dopo l'arrivo della sorella a Torino il ragazzo
cominciò a notare delle stranezze nel comportamento della suora e ne parlò con
nostra figlia.
In famiglia ci sentimmo subito tutti responsabili
della sorte di quella bambina e cercammo il modo per aiutarla. Andammo a
parlare con le responsabili della congregazione alla quale la suora diceva di
appartenere e venimmo a sapere che ne era uscita cinque anni prima e portava
abusivamente un abito da suora.
Cominciò un periodo di angoscia per tutti, perché ci
rendemmo conto di avere a che fare con una squilibrata. Segnalammo il caso alla
Questura e con l'aiuto dell'avvocato Bianca Guidetti Serra, consulente
dell'ANFAA, riuscimmo a presentare in pochi giorni un esposto al Tribunale per
i minorenni di Torino.
Ai primi di dicembre ci fu l'udienza che si concluse
con un provvedimento del Presidente del Tribunale: la bambina doveva essere
allontanata immediatamente dalla persona che la ospitava e veniva affidata
temporaneamente a noi.
Furono
convocati i servizi sociali della Circoscrizione e l'Ufficio Stranieri della
Questura. Tutti furono molto disponibili e ci aiutarono a superare le formalità
indispensabili più urgenti: l'interrogatorio della bambina con l'aiuto di un
interprete, il rinnovo del permesso di soggiorno. Ci rendemmo presto conto,
però, che l'affidamento temporaneo stabilito dal Tribunale per i minorenni non
garantiva certe tutele ad A.: il permesso di soggiorno era stato rinnovato solo
per tre mesi, in attesa che si chiarisse la situazione e non potevamo ottenere
per A. la residenza e l'assistenza sanitaria.
Sempre con la consulenza dell'ANFAA, in data 4 marzo
1988 facemmo richiesta scritta all'Ufficio affidamenti del Comune per il
riconoscimento dell'affidamento. II 6 aprile ci fu risposto che i Servizi
sociali zonali e l'Ufficio affidamenti erano in attesa di una definizione sul
piano giuridico da parte del Presidente del Tribunale per i minorenni. A
questo punto ci venne suggerito da un avvocato il modo per arrivare da un
affidamento provvisorio ed urgente, come era quello stabilito dal Tribunale, ad
un affidamento riconosciuto dal Comune.
Era di passaggio a Torino un missionario che arrivava
dalla regione di A. e che conosceva la sua famiglia. Tornato in Africa, fece
firmare al padre di A. una procura con la quale veniva affidata al fratello la
delega ad esercitare la potestà parentale sulla sorella e gli veniva data la
facoltà di richiedere al Tribunale per i minorenni che la sorella potesse
essere affidata a noi per tutta la durata degli studi. Questo documento ci fu
portato da un altro missionario. II fratello di A. lo portò subito al
Tribunale e, in giugno, il Comune ci fece firmare l'impegno per l'affidamento.
Da allora sono passati quasi otto anni e l'affidamento
era stato rinnovato, anno dopo anno, fino all'ottobre 1993, quando A. aveva
compiuto 18 anni. Nel dicembre 1992 l'assistente sociale che seguiva A. aveva
richiesto il prolungamento dell'affidamento per poter portare a termine il
progetto fatto insieme alla ragazza.
Inspiegabilmente il prolungamento non era stato
concesso e al compimento del diciottesimo anno A. si era trovata senza
famiglia in un paese straniero, con l'obbligo, da parte nostra, di segnalarla
alla polizia come ospite.
I colloqui con l'assistente sociale, le telefonate
all'Ufficio affidamenti non erano serviti a niente fino a che, su consiglio
dell'ANFAA, mandammo a tutti gli uffici interessati una lettera dove chiedevamo
ufficialmente il proseguimento dell'affidamento, richiamandoci a una delibera
approvata nel 1990 dal Comune di Torino.
Nel gennaio 1994 ci arrivò la risposta dell'Ufficio
coordinamento servizi per i minori con la quale ci venne comunicata
l'approvazione della
delibera
per la prosecuzione dell'intervento di affidamento. familiare fino al 31 agosto
1994, cioè fino alla fine dell'anno scolastico.
L'inserimento in famiglia
Quando vidi A. per la prima volta pensai che
difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto ad accoglierla, così bruttina e
magra com'era, con i capelli unti di grasso di bue raccolti in dodici ridicole
treccine. Poi vidi i suoi occhi che mi guardavano con una fiducia immensa e
nacque fra noi un legame immediato, senza condizioni. Nei tre mesi che era
stata con la suora si era chiusa in se stessa per difendersi da tutto quello
che le succedeva intorno e che lei non capiva.
Quando arrivò a casa nostra rimontammo in fretta il
letto a castello che avevamo smontato appena sei mesi prima, quando si era
sposata la nostra seconda figlia.
A. dormiva insieme a Silvia, la terza figlia, e si
vollero subito un gran bene. Silvia era la sorella grande che si diverte a
strapazzare la più piccola, le faceva il solletico, le tirava le trecce, la
prendeva per i piedi mettendola a testa in giù, giocavano sedute sul pavimento.
Quest'ultima cosa colpì particolarmente il fratello,
perché la suora aveva proibito ad A. di sedersi per terra. Nel loro villaggio
esisteva una sola sedia, che serviva per appoggiarci le bottiglie del chinino
quando, una volta al mese, veniva dato ai bambini per prevenire la malaria.
Nei primi tempi che era con noi, quando era stanca,
in qualunque posto si trovasse, A. si accoccolava per terra. Un'altra cosa che
commuoveva il fratello erano le sue risate, perché per tre mesi non l'aveva
sentita ridere.
Fu un periodo molto bello, anche se avevamo sempre
paura che la suora si vendicasse in qualche modo. Mio marito e mio figlio erano
rimasti un po' spettatori di tutta la vicenda, ma come A. arrivò a casa
nostra scattò in loro un sentimento di protezione nei suoi confronti che certamente
A. avvertì e che la rassicurò. L'atteggiamento protettivo che avevamo verso di
lei ha sempre condizionato il comportamento degli altri, per cui è sempre
stata accettata come un membro della nostra famiglia. Tutti gli elementi di
diversità venivano commentati in modo positivo fra i vicini, a scuola, al
supermercato: erano belli i capelli, glì occhi, il sorriso, i! colore della
pelle.
Fra lei e noi non ci sono mai state parole per
esprimere i sentimenti, ma non erano necessarie. Per i primi mesi lei era
sempre attaccata alla mia mano, appena uscivamo di casa, e non potevo
liberarmi. Penso che quel legame sia stato il nostro cordone ombelicale, come
se lei avesse dovuto ripercorrere tutte le tappe per rinascere alla vita, se
pure con un'altra mamma. Un giorno l'accompagnai all'Ufficio d'igiene per una
vaccinazione e quando le scoprirono il braccio per infilarle la siringa
cominciarono a scendere i lacrimoni. L'infermiera le chiese se aveva paura. Lei
ci pensò un attimo poi disse: «Così no» e, porgendo il braccio, nascose il viso
sulla mia spalla. Era il gesto di un bambino piccolo che, quando ha paura, si
rassicura nel contatto con la madre.
Per i primi due o tre anni A. non uscì da sola,
perché capivamo che non riusciva a cavarsela nel traffico: non sapeva quando
poteva attraversare e anche il semaforo era un problema. Dalla terza media
cominciò a prendere il tram da sola e nei due anni delle superiori, oltre al
tram, doveva fare a piedi un bel tratto di strada nel traffico del centro,
cosa che le piaceva moltissimo.
Intanto la nostra famiglia aumentava per l'arrivo di
quattro nipotini. A. ha vissuto con noi tutte le emozioni di questi anni e i
bambini l'adoravano. Tutti, verso i quattro anni, hanno scoperto che A. ha la
pelle più scura ed hanno chiesto il perché. II gran sole dell'Africa spiega
tutto, così quando vanno al mare sperano sempre di diventare scuri come A.
Nei primi anni A. chiamava me e mio marito per nome,
poi abbiamo notato che cercava di evitare le occasioni in cui era costretta a
farlo. Quando parlava di noi in terza persona eravamo sempre il papà e la
mamma, ma non riusciva mai a rivolgersi a noi chiamandosi così. Non abbiamo
mai parlato della cosa e neanche suggerito soluzioni. Poi l'arrivo dei
nipotini ha risolto il problema: ora per A. siamo il nonno e la nonna.
A. è molto legata ai suoi genitori e in questi otto
anni è andata due volte a trovarli, durante le vacanze, insieme a suo
fratello. Ogni volta sono emozioni indimenticabili per noi e per loro.
Non possiamo sapere quanto è stata grande la
sofferenza di A. per il distacco dai genitori. Ora che è grande, probabilmente
non sente più tanto la loro mancanza, come sente di aver sempre meno bisogno
di noi negli spazi di autonomia che si conquista giorno per giorno.
La scuola
II
paese di A. è indipendente dal 1960 ed è ancora vivo il ricordo dei padroni
bianchi. II villaggio da cui proviene si trova in mezzo alla savana, molto
distante dalla prima strada, dal primo paese, dal primo distributore di
benzina: sono circa 60 km da percorrere a piedi su piste tracciate dai
missionari che arrivano fino a lì quattro o cinque volte all'anno, quando non è
la stagione delle piogge e possono guadare il fiume con il fuoristrada.
AI villaggio vivono ancora due o tre vecchi che erano
stati reclutati dall'esercito francese nell'ultima guerra e hanno visto il
mondo dei bianchi e la civiltà occidentale. Alcuni di loro decisero di portare
i figli a studiare in città, pagando gli studi con i buoi che vendevano al
mercato, dopo un viaggio di 200 km a piedi. Ma quando era nata A., che ha
diciotto anni meno del fratello, il suo paese si trovava nel periodo di
passaggio dalla colonizzazione all'autonomia. Ai coloni francesi si era
sostituita una classe dirigente impreparata e corrotta. L'autorità dello Stato
non arrivava nei villaggi e i bambini non avevano più la scuola. A., a dodici
anni, non aveva mai preso in mano una penna. Così, quando la suora offrì la
possibilità di farla studiare, sembrò a tutti una grande fortuna per quella
bambina, una fortuna che ripagava il dolore del distacco.
Quando in Italia si chiarì la storia ed A. venne allontanata
dalla suora, suo fratello escluse la possibilità di rimandarla a casa, perché
ne avrebbe pagato le conseguenze per la vita: di tutta la vicenda, la gente del
villaggio avrebbe capito solo che A. non era stata capace di approfittare
dell'occasione che le era stata offerta e sarebbe stata disprezzata ed
emarginata.
Quando arrivò a casa nostra, pensammo che sarebbe
stato impossibile farle seguire un regolare corso di studi. Non conosceva la
nostra lingua, non sapeva né leggere né scrivere, ma non sapeva neanche
chiudere le porte, perché nelle capanne del suo villaggio non c'erano chiavi o
maniglie, non sapeva legarsi le scarpe perché non le aveva mai avute, non
conosceva la settimana, il mese, l'anno, le stagioni, non sapeva a cosa
servisse l'orologio.
È difficile immaginare quanto sia costato ad A.
questo salto fra due civiltà distanti fra loro centinaia di anni.
Per suo fratello il passaggio era stato più graduale,
perché a tredici anni era stato accompagnato in una piccola città dove aveva frequentato
le scuole fino al liceo e da lì era passato alla capitale dove aveva potuto
cominciare l'università con una borsa di studio. Poi era arrivata, nel 1982,
la proposta della suora di venire a studiare in Italia dove, nel 1987, lo
aveva raggiunto A.
Mentre cercavamo faticosamente di insegnare la
nostra lingua ad A. per darle la possibilità di comunicare con noi, al di là
degli sguardi e dei gesti, qualcuno ci avvertì che non potevamo tenere in casa
una bambina di quell'età senza mandarla a scuola. Ci mettemmo in contatto con
la direttrice della scuola elementare più vicina e da lì cominciò l'esperienza
più bella ed importante che lei abbia avuto nel suo percorso scolastico.
Dopo averci pensato bene la direttrice propose
l'inserimento in una quinta, dove A. si sarebbe trovata insieme a bambini
abbastanza vicini alla sua età e ci organizzammo così: la "nonna"
l'avrebbe accompagnata a scuola e si fermava con lei per le prime due ore in
un'aula vuota. Insieme facevamo i compiti che assegnavano Rosy e Paola, le
due maestre, poi, dopo l'intervallo, A. entrava in classe e stava con i suoi
compagni. non poteva seguire le lezioni ma partecipava volentieri alle
attività di laboratorio. A casa cercavamo di farla progredire nella scrittura
e nella lettura con l'aiuto di timbri, libri con figure mobili, giornalini per
bambini. La fatica era tanta, per noi e per lei, ma ci furono anche momenti di
grande emozione.
II primo pensiero che riuscì ad esprimere per
iscritto fu un saluto a suo padre e sua madre nella sua lingua. Tre parole,
scritte su una strisciolina di carta che trovammo per terra: "Nene baba
veloma" ("Mamma, papà, ciao").
Quei tre mesi di scuola furono molto importanti
perché per la prima volta A. si staccava dalla famiglia e stava in mezzo ad
altri bambini. Tutti le volevano bene, ma non nacquero grandi amicizie perché i
compagni di scuola avevano due anni meno di lei ed A., maturata anche per
quello che aveva passato, li sentiva molto lontani.
Verso aprile si presentò il problema di come proseguire
gli studi. Le maestre e la direttrice erano d'accordo di darle a giugno la
licenza elementare perché stava facendo grandi progressi e inoltre diceva
sempre che non voleva rimanere in una scuola con bambini piccoli. La soluzione
che ci sembrava la migliore era quella di iscriverla in una scuola privata,
retta da suore, dove, se non avesse potuto seguire il programma normale,
avrebbe avuto la possibilità di dedicarsi ad altre attività: avevamo in mente
il quadro idilliaco di una vecchia suora che avrebbe insegnato ad A. a cucire
e ricamare.
Ci rivolgemmo a due istituti religiosi. La direttrice
del primo ci fece sapere, senza neanche riceverci, che le classi erano già
formate e che non era possibile nessun inserimento.
La direttrice dell'altra scuola, molto più onestamente,
ci disse che, essendo poche le religiose, dovevano contare quasi
esclusivamente su insegnanti esterne alle quali non potevano chiedere nessun
impegno ulteriore.
Rimaneva la scuola pubblica e a questo punto pensammo
che era indispensabile l'insegnante di appoggio. L'assistente sociale ci disse
che questa richiesta doveva essere passata al servizio di neuropsichiatria
infantile e che A. avrebbe dovuto sottoporsi al colloquio con la psicologa che
avrebbe dovuto certificare l'handicap. Non accettammo.
Alta fine trovammo, in una scuola media pubblica,
una preside che accolse A. con i suoi problemi, impegnandosi a sostenere le
insegnanti che l'avrebbero avuta nella classe.
Nei tre anni della scuola media A. raggiunse
facilmente gli obiettivi che erano stati fissati per lei e ci accorgemmo troppo
tardi che quegli obiettivi erano molto distanti dal livello di preparazione
necessario per affrontare una scuola superiore. Ma A. voleva a tutti i costi
arrivare alla scuola per infermieri, quindi la iscrivemmo ad una scuola
magistrale.
Da allora la vita nella nostra famiglia è cambiata
completamente. A. doveva essere seguita giorno per giorno, per superare
difficoltà che erano troppo pesanti per poterle affrontare da sola. La
"nonna" doveva starle sempre vicina per organizzare i pomeriggi di
studio e soprattutto per far da tramite fra A. e i libri di testo: da allora
A. ha riempito quaderni su quaderni di schemi, appunti, riassunti, facendo ogni
sforzo possibile per seguire i programmi nonostante le lacune della sua
preparazione.
Dopo aver superato i primi due anni di scuola
magistrale, A. decise di iscriversi alla scuola per infermieri professionali:
non aveva più voglia di seguire una scuola che le richiedeva tanto sforzo e che
lei sentiva tanto lontana dalla realtà.
Voleva impegnarsi in qualcosa di concreto, che le
permettesse di esprimere le sue vere capacità e che soddisfacesse il suo
desiderio di rendersi utile agli altri.
Nel settembre del 1993 A. sostenne la prova per
essere ammessa alla scuola per infermieri professionali e convinse la
commissione più con il colloquio, nel corso del quale riuscì ad esprimere la
maturità della sua scelta e la profondità delle sue motivazioni, che con il
test, niente affatto brillante.
Non avremmo mai pensato che quel primo anno si
sarebbe concluso una settimana prima del previsto, quando A. fu chiamata dalla
direttrice che, molto gentilmente, le disse che forse era meglio ripetere, che
così avrebbe approfondito le materie, che era meglio per lei, che insomma non
era ammessa agli esami e avrebbe dovuto ripetere l'anno.
Non dimenticheremo mai il pianto disperato che durò
tutto il pomeriggio. II giorno dopo andammo a comprare una divisa da infermiere
e un mese dopo A. partiva per il suo villaggio con la divisa nello zaino. Per
tutte le vacanze aiutò suo fratello a curare gli ammalati, che fin dal mattino
si mettevano in coda davanti alla loro capanna. Non ebbero il coraggio di
raccontare ai genitori che la scuola era andata male.
A settembre A. affrontò di nuovo il primo anno di
corso in un'altra scuola e questa volta la stroncatura arrivò prima di Natale.
Non è possibile raccontare la delusione di A.
Non sappiamo come abbia trovato il coraggio per
guardare ancora avanti. Facevamo il possibile per tenerla su, nascondendo la
nostra frustrazione: sapevamo che era una ragazza intelligente, sensibile,
con motivazioni vere e profonde e non trovavamo il modo di farla accettare
dalle regole del nostro sistema scolastico.
Viene da una cultura diversa, nella quale tutto viene
riportato all'esperienza concreta, tant'è vero che nella loro lingua non
esistono neanche parole per indicare concetti astratti.
Una volta il fratello, senza volerlo, ci aveva dato
un chiarissimo esempio di questo fatto. Parlando del periodo che avevano
passato a casa, durante le vacanze, aveva detto: «Mia madre rideva perché
siamo grassi». Traducendo alla lettera, in un momento di distrazione, un
pensiero che aveva formulato nella sua lingua, ci aveva fatto capire come,
nella loro cultura, tutto ciò che è concetto o situazione astratta viene
espresso con immagini concrete. Questo spiega perché tutto è andato bene, per
A., fino a quando gli insegnanti hanno trovato il tempo di guidarla, partendo
da situazioni concrete, per arrivare a formulare concetti astratti. Dopo,
quando lo studio è diventato solo uno sforzo per immagazzinare nozioni e
rispondere ai quiz, è arrivata la decisione, da parte della scuola, che non può
farcela e che quindi deve rinunciare.
Ma A., insieme a noi, ha deciso di non rinunciare.
Si accontenterà di un titolo meno qualificante, ma vuole prepararsi per un
lavoro che sia utile agli altri, a qualunque livello. Non sa se rimarrà in
Italia o se tornerà nel suo paese, ma in ogni caso serve il titolo, il pezzo di
carta.
Quest'anno si è iscritta ad una scuola per maestre
d'asilo, questa volta in una scuola privata per accelerare i tempi: ha già 20
anni e vuole affrontare la vita. Studiamo di nuovo insieme tutti i giorni,
lottando con i libri di testo, così difficili e dispersivi. Un'amica che faceva
l'insegnante ci aiuta e ci guida in quest'impresa.
II tempo che dedichiamo ad A. ci impedisce di fare i
nonni a tempo pieno. Però pensiamo che in questo momento il dovere primario sia
quello di sostenere A.: la legge non ci permette di considerarla nostra
figlia, per cui non possiamo garantirle nessuna sicurezza.
II nostro impegno è quello di darle tutto l'appoggio
e l'affetto che possiamo per aiutarla a realizzare il suo progetto, e il fatto
che è diventata maggiorenne non ci libera da questo impegno.
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