Prospettive assistenziali, n. 115, luglio-settembre
1996
Notiziario
dell'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale
SITUAZIONI DIFFICILI E INTERVENTI COMPLESSI IN
PSICHIATRIA
La situazione nel mondo della salute mentale è stazionaria, nonostante l'urgenza del 31 dicembre
1996, data fissata per legge come scadenza per la chiusura definitiva dei manicomi pubblici.
L'On. Bindi, Ministro della sanità, non ha più
convocato l'Osservatorio sul superamento dei manicomi; i documenti pronti da
spedire alla Conferenza Stato/Regioni
languono; le Regioni con la consueta flemma si attivano
solo parzialmente sul problema; arrivano segnali pericolosi di tentativi di
passare dalla sanità alla assistenza i malati anziani e cronici, con relativa perdita di diritti poi non recuperabili.
Si è tenuto a Roma il 25 giugno 1996, unico segnale forte, un importante
convegno a cura della Consulta nazionale per la salute mentale sul tema
"Situazioni difficili e interventi complessi in psichiatria". di cui si riporta il documento conclusivo.
Documento
conclusivo
Per "situazioni
difficili" intendiamo quelle situazioni in cui, a fronte di condizioni di
esistenza individuale, familiare e/o sociale, contrassegnate da livelli alti di
sofferenza psicoemotiva e relazionale e, a volte, da persistenti aspre
conflittualità - in alcuni casi anche agite - il Servizio psichiatrico non
riesce a porre in essere interventi efficaci (al di là del tamponamento e del
breve silenziamento sintomatologico), capaci cioè di produrre in tempi
ragionevoli riduzione della sofferenza individuale e collettiva, e
significative modificazioni nelle modalità complessive di esistenza della
persona sofferente e delle modalità relazionali intercorrenti tra essa e il
contesto familiare e sociale di riferimento.
La mancata risposta a queste
situazioni significa la colpevole rassegnazione senza iniziative, l'inerzia
del burocrate più preoccupato di rispettare le regole e le forme che di
intervenire in modo efficace sul bisogno grave, un peggioramento dello stato
psicopatologico, una serie di trattamenti sanitari obbligatori ripetuti che
possono produrre solo esasperazione e violenza se manca la presa in carico
successiva, una famiglia chiusa in una spirale senza uscita, un ingresso in
ospedale psichiatrico giudiziario annunciato, maggiori pregiudizi dell'opinione
pubblica.
Lo scenario proposto richiede,
dunque, per essere affrontato, analisi approfondite che riguardino, oltre alla
condizione del soggetto sofferente vista nella sua complessità, il contesto
familiare e sociale e le condizioni di esercizio del sistema socio-sanitario
locale, in primis nel settore della salute mentale. Esso va indagato in
termini di qualità e quantità delle risorse disponibili, di qualità
dell'approccio agito, di intenzionalità esplicita ed implicita, stile di
lavoro prevalente, ecc.
Solo a partire da un siffatto
livello di analisi, che tenda a ricostruire e valutare lo scenario complessivo
di riferimento, può nascere una riflessione ed una successiva elaborazione
all'altezza del livello dei problemi sul tappeto.
Da questo punto di vista la
questione "situazione difficile" si configura - di fatto - come un
punto di vista e una angolazione centrali per un'analisi globale del sistema
socio-sanitario per la salute mentale.
In vista del perseguimento di
questo obiettivo, emerge la necessità di situare la questione dentro lo
scenario attuale, che vede ormai imminente la scadenza del 31 dicembre 1996,
data in cui è prevista la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici.
Essi, nel loro complesso, costituiscono la "situazione difficile"
per antonomasia, la cui evoluzione, è ben noto, inciderà significativamente
sull'insieme delle pratiche per la salute mentale: si tratterà non solo di
ricadute di tipo economico, in quanto il superamento degli ospedali
psichiatrici potrebbe rendere disponibili ingenti risorse da destinare alla
implementazione dei servizi territoriali per la salute mentale, ma anche, e
forse prevalentemente, di tipo culturale, in quanto la eliminazione fisica di
quei luoghi renderà in modo definitivo "praticamente veri" - e dunque
in grado di influenzare significativamente anche i vissuti personali più
profondi - i principi alla base della attuale normativa.
La risposta alla crisi
II primo problema nasce dalla
individuazione di chi interviene: è ben noto, infatti, che in molte situazioni
si determina un vero e proprio palleggiamento di responsabilità tra le agenzie
istituzionalmente coinvolte nella gestione della situazione di crisi, quando
essa si manifesti come emergenza. Sono spesso situazioni che potrebbero essere
sdrammatizzate, e che, viceversa, in conseguenza della mancata assunzione di responsabilità
da parte dei vari attori sociali in gioco, in primis
degli operatori sanitari, risultano sovente occasione di indebite
drammatizzazioni, a loro volta in grado di determinare percorsi più complessi e
più difficili da organizzare.
L'intreccio di competenze tra
servizio sanitario, polizia municipale e polizia di Stato o Arma dei
carabinieri, a volte anche Vigili del fuoco, in assenza di una consensuale
definizione di modalità integrate e precisate di intervento, dà spesso origine
a rinvii, scarichi, interventi sovrapposti e a volte ridondanti, che impediscono
di cogliere le potenzialità positive che esistono in ogni momento di crisi,
indirizzandone la gestione, anche quando non è strettamente necessario, verso
interventi di ordine pubblico o verso approcci meramente burocratici.
Dentro questa fase sta la
questione dei trattamenti sanitari obbligatori: si tratta di provvedimenti
previsti come eccezionali, da utilizzare solo quando siano state esplorate
senza successo tutte le altre possibili forme di intervento, che non raramente
diventano, al contrario, provvedimenti assunti in prima istanza, formalità
burocratiche poco differenziabili da antiche modalità di ricovero coatto. Per
altro la tempestiva emanazione del provvedimento è spesso ostacolata da
carenze nella organizzazione dei Comuni, inducendo di conseguenza - per il
timore di conseguenze medico-legali - comportamenti dilatori e
deresponsabilizzati.
L'avvio del rapporto con il
servizio pubblico può essere, in assenza di una adeguata ed articolata rete di
risorse disponibili, seguito da tappe sconnesse, inadeguate alle esigenze
delle persone sofferenti e delle loro famiglie, non in grado di promuovere, fin
dall'inizio della relazione, quella indispensabile alleanza terapeutica che è
la condizione preliminare per l'avvio di percorsi terapeutico-riabilitativi
verosimili.
I servizi psichiatrici di
diagnosi e cura, non raramente, si rivelano spazi angusti, affollati, miserevoli,
del tutto inadeguati a rispondere alle complesse esigenze di chi vive una acuta
condizione di intensa sofferenza, inadatti a offrire positiva accoglienza e
contenimento delle profonde angosce in gioco, a consentire la prima elaborazione
della rottura verificatasi nell'equilibrio personale e situazionale, ad
accompagnare le prime fasi della ristrutturazione profonda al centro del
percorso terapeutico. E, spesso, questi infelici ambiti di ricovero ospedaliero
costituiscono l'unica risposta che il servizio è in grado di mettere in campo,
laddove consolidate esperienze non solo nazionali mettono in evidenza che la risposta
ospedaliera non sempre è la più opportuna per affrontare questa fase. Esistono
infatti cospicue documentazioni che dimostrano l'utilità, e la superiorità in
molti casi, rispetto al ricovero, di modalità alternative di risposte intensive:
dai Centri per la salute mentale aperti sulle 24 ore, ai Centri-crisi, a forme
di ospedalizzazione domiciliare, all'uso di strutture residenziali protette.
Nessuna di queste forme di intervento è in grado da sola di rispondere
efficacemente ad ogni tipo di esigenza, per cui un servizio deve essere
dotato di più alternative, per evitare il rischio di risposte univoche e
preformate, e deve essere in grado di incontrare in modo flessibile le esigenze
peculiari che ogni situazione propone.
Sviluppo del Progetto terapeutico
Riflessioni analoghe emergono
nel momento in cui si analizzano le fasi successive del processo. Un problema
nasce nel momento in cui si tratta di definire con chiarezza chi e come garantisce
il "prendersi cura", "il tenere in mente", "la presa
in carico". Le esperienze di molti segnalano - nei servizi - difficoltà
di integrazione tra i vari momenti dell'intervento, soluzioni di continuo nei
processi terapeutici, attitudini di attesa, nei confronti delle situazioni di
sofferenza, che spesso vengono abbandonate a se stesse o gestite in modo
burocratico. Viene riferito che, in taluni casi, la mancata disponibilità del
paziente rispetto alla prosecuzione del trattamento diventa motivo di
risoluzione del rapporto, senza che vengano assunte iniziative tendenti a
rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla prosecuzione della relazione
terapeutica; è come se, in questi casi, venisse assunta a guida della operatività
nel servizio pubblico la logica tipica della pratica privata, fondata
esclusivamente sulla libera scelta del "cliente".
Questa impostazione, di fatto,
corrisponde alla mancata assunzione di responsabilità nei confronti della
situazione singola, e insieme della intera comunità di riferimento. A nostro
avviso un servizio pubblico deve al contrario fondare la sua attività a partire
dalla esplicita assunzione di responsabilità, rivolta complessivamente alla
popolazione del territorio di competenza. II servizio dovrebbe esprimere
costantemente una intenzionalità attiva nei confronti della evoluzione delle
situazioni incontrate, mirante a garantire, in ogni fase o tappa del percorso,
la indispensabile continuità terapeutica e dovrebbe essere capace di mettere
in campo la articolata rete di risposte necessarie alla attivazione di un progetto
terapeutico individualizzato ed efficace, in quanto mirante alla globalità
delle questioni che stanno dentro e intorno alla esperienza di sofferenza.
Residenzialità
La persistente carenza di
risorse in questo campo costituisce uno dei problemi di maggio-
re rilievo con cui oggi si è costretti a confrontarsi.
È ormai accertata - e unanimemente condivisa - la utilità per i servizi di
disporre di risposte residenziali, allo scopo di consentire la talvolta
necessaria separazione della persona sofferente dal nucleo familiare (anche
per rendere possibili i percorsi di parallela maturazione ed evoluzione) o
per offrire - a chi ne è privo - la possibilità di fruire di condizioni di
residenza protette e progressive. Nella realtà la dotazione di strutture
residenziali, nella maggior parte dei servizi territoriali, appare inadeguata
rispetto alle esigenze, in alcuni casi risibile o del tutto assente.
Ciò rende spesso le famiglie a vivere inaccettabili
situazioni di gravosità, rende spesso impossibile qualsiasi processo
evolutivo, ingessa le esistenze in condizioni di - talvolta - drammatica
permanente conflittualità; o, in alternativa, propone l'abbandono.
Proposte finali
Le risposte possibili sono tante, le vie da percorrere
sono anche diverse tra loro, ma non è più tempo di "auspici", occorre
trovare i modi per rendere più forte, più sicura, più veloce la presa in
carico, senza più scappatoie. Non si tratta di introdurre modifiche
legislative, ma di rendere cogenti le norme esistenti, in primo luogo
attraverso l'introduzione dei requisiti minimi di natura organizzativa e
strutturale riguardanti l'assistenza psichiatrica, con il finanziamento del
prossimo progetto obiettivo nazionale sulla tutela per la salute mentale
1997-1999 ed anche con l'emanazione di un regolamento nazionale riguardante le
procedure del trattamento sanitario obbligatorio. Va inoltre affrontato il
nodo dell'ospedale psichiatrico giudiziario attraverso il coinvolgimento di
tutti i diversi soggetti interessati.
Se si può, si deve.
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