Prospettive assistenziali, n. 116, ottobre-dicembre
1996
LA
VIOLENZA IN ISTITUTO: LICENZA D1 SEVIZIARE?
PIER GIORGIO GOSSO
1. Con una sua recente pronuncia (sentenza n. 3526
dell'11 aprile 1996, pubblicata su "Guida del diritto - Il Sole 24
Ore", n. 23, 8 giugno 1996, pag. 87), la Corte di Cassazione ha avallato,
confermandola, la decisione assunta dal Pretore di Isernia, che, al termine di
un processo relativo a protratti comportamenti violenti e degradanti inflitti
a minori degli anni quattordici ricoverati in una comunità (percosse inferte
con frustini per cavalli e con battipanni, sottoposizione a lavori umilianti e
disgustosi ed a pratiche di ipnosi, ecc.), non aveva ravvisato nella condotta
degli imputati gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia (articolo
572 del codice penale), ritenendo costoro responsabili del più lieve reato di
abuso di mezzi di correzione (articolo 571 del codice penale) ed applicando
loro una semplice sanzione pecuniaria.
La sentenza merita la più attenta riflessione
critica, poiché la stessa riprende un discutibilissimo concetto purtroppo più
volte enunciato in altre numerose e risalenti decisioni della Cassazione
(secondo il quale per valutare penalmente i comportamenti lesivi delle persone
sottoposte a rapporti familiari o comunque educativi o disciplinari sarebbe
decisivo il movente che ha indotto il soggetto ad agire) e lo porta a conseguenze
decisamente inaccettabili, arrivando a concludere che non può essere ritenuto
colpevole del reato di maltrattamenti chiunque ponga abitualmente in essere
comportamenti violenti nei confronti delle persone sottoposte alla sua
vigilanza, qualora agisca nella convinzione di ricorrere a finalità
disciplinari o correttive.
Si trova infatti affermato nel caso di specie che,
pur essendo palese la illiceità dei sistemi adottati nei riguardi dei minori ad
essi affidati dai responsabili dell'istituto, la asserita intenzione di far «uso di un metodo educativo dagli stessi
ritenuto innovativo ed anche pubblicizzato» (sic!) starebbe ad indicare
l'assenza di una cosciente volontà vessatoria. Detto in altre parole: il fine
(asseritamente lecito) giustifica i mezzi (sicuramente illeciti). E la
conclusione appare particolarmente odiosa ed aberrante se rapportata al caso
specifico (violenze in istituto minorile), poiché si presta inevitabilmente a
legittimare l'opinione che l'istituzionalizzazione di un minore permetta di per
sé un rigore disciplinare e punitivo non altrimenti consentito (ad esempio in
sede strettamente familiare).
L'affermazione, a modesto giudizio di chi scrive,
dev'essere fermamente respinta. Si è, infatti, completamente trascurato di
tener presente un principio fondamentale ed assolutamente elementare, ed in
quanto tale da tempo consolidato in materia ed unanimemente accolto da tutti
gli studiosi (giuristi e non), e che cioè l'articolo 571 del codice penale,
punisce esclusivamente l'abuso di quei mezzi di correzione e di disciplina che
sono di per sé leciti, in quanto o
per la loro natura o per norma interna delle singole istituzioni sono
indiscutibilmente destinati ai fini suddetti. Così, per scendere a qualche caso
concreto, si è certamente fuori dell'abuso punito dall'articolo 571 del codice
penale ogni qual volta un insegnante castighi un suo allievo infliggendogli
una punizione disciplinare non contemplata dal regolamento scolastico e quindi
non consentita (ad esempio, picchiandolo con qualsiasi oggetto o
schiaffeggiandolo o sottoponendolo alla gogna). In simili casi - se tale comportamento
risulta essere stato isolato o sporadico - egli potrà essere chiamato a
rispondere del reato di percosse od eventualmente di lesioni o di violenza
privata, ma se venisse viceversa dimostrata l'abitualità di tali condotte vi
sarebbe propriamente ed inevitabilmente materia per procedere contro di lui in
ordine al reato di maltrattamenti, severamente punito dall'articolo 572 del
codice penale.
E così, se un insegnante o un educatore sottopone lo
studente od il minore a lui affidato ad una sanzione disciplinare consentita
dall'ordinamento (ad esempio lo espelle dall'aula), ma in maniera tale da
esorbitare dai limiti della sanzione (ad esempio obbligandolo a stare all'aria
aperta in un clima rigido e procurandogli uno stato di malattia), se tale sua
iniziativa risulta essere stata non abituale, potrà essere chiamato a
rispondere del reato di abuso, mentre ritornerà in vita il reato di
maltrattamenti se si accertasse che si è trattato di un comportamento abitualmente
ed ingiustificatamente tenuto nei confronti della stessa persona.
Non si può mai dimenticare, poi, che l'articolo 572
del codice penale, a differenza dell'articolo 571 del codice penale, prevede
espressamente la punibilità delle condotte assunte ai danni dei minori,
accordando perciò a tale categoria di persone una sfera di protezione
particolarmente intensa ed imponendo a chi è chiamato a valutare penalmente
tali condotte un metro di giudizio di pari severità.
2. Va peraltro ricordato che, a brevissima distanza dalla
pronuncia di cui sopra, la stessa Corte di cassazione (sentenza n. 4904 del 16
maggio 1996, pubblicata sulla stessa rivista, pag. 84) ha fatto per così dire
piena giustizia in materia, adottando un orientamento di segno diametralmente
opposto. Nel confermare, infatti, una sentenza di condanna per maltrattamenti
emessa dalla Corte d'appello di Milano nei confronti di un genitore accusato
di aver tenuto una abituale condotta vessatoria nei confronti della figlia
minorenne (percosse ed altre dolorose sofferenze fisiche e morali), il Supremo
Collegio ha esattamente e diffusamente statuito che non può mai ritenersi
lecito l'uso della violenza finalizzato a scopi asseritamente educativi, escludendo
conseguentemente che l'eventuale intenzione pedagogica del soggetto agente
possa di per sé sola far rientrare ogni aggressione alla sfera psico-fisica
della persona nell'ambito della fattispecie meno grave dell'abuso dei mezzi di
correzione.
Molto opportunamente, poi, la Corte di cassazione ha
posto in risalto come l'evoluzione dei costumi, della coscienza civile e del
patrimonio culturale del paese abbia ormai da lunga data espunto dal nostro
ordinamento quei concetti autoritari che ai tempi dell'emanazione del codice
penale (1930) ancora permeavano e condizionavano in maniera potente la
struttura e la funzione della famiglia, facendo lucidamente presente che il
rispetto della persona umana - e del minore in particolare - sancito dalla
Costituzione (articoli 2, 3, 29, 30 e 31) ed ulteriormente ribadito dalla
riforma del diritto di famiglia intervenuta nel 1975, e da ultimo potenziato
dall'adesione dell'Italia alla Convenzione di New York del 20 novembre 1989
sui diritti del fanciullo devono far considerare del tutto incompatibile il ricorso,
nell'ambito dell'educazione e dei rapporti familiari, a forme anche minime di
prevaricazione e di aggressione, considerato il pieno riconoscimento
giuridico che la legislazione interna dello Stato attualmente garantisce al
diritto di ogni minore ad un sano ed armonico sviluppo della propria
personalità.
Sotto questo profilo non si possono assolutamente
condividere le critiche che a quest'ultima sentenza sono state mosse dal
commentatore della rivista sopra citata (M. Finocchiaro, In attesa che il legislatore riordini la materia non si può ignorare
il dettato del codice penale, ivi, pagg. 89-90), a parere del quale la
decisione si sarebbe arrogata il potere di legiferare, modificando la
struttura del reato di maltrattamenti ed abolendo praticamente il residuo
reato di abuso di mezzi di correzione.
AI contrario, gli enunciati del giudice di legittimità
hanno il pregio di avere una volta per tutte chiaramente e decisivamente
eliminato in chiave interpretativa ed applicativa i confini tra i due predetti
reati, alla luce della evoluzione storico-giuridica maturata negli ultimi
decenni.
Non bisogna, infatti, trascurare che le norme penali
sopra considerate - ed in modo del tutto particolare il più volte citato
articolo 572 del codice penale - presentano l'indubbia caratteristica di
essere delle "norme aperte", il cui esatto contenuto precettivo e
sanzionatorio dev'essere rigorosamente rapportato al contesto etico-sociale in
cui si collocano le relazioni pedagogiche e familiari.
Va da sé, poi, che si tratta di principi e di considerazioni
che, se pur espressi dalla Corte regolatrice con specifico riferimento alle
relazioni strettamente familiari, sono da intendersi a pieno titolo riferibili
anche ad ogni altra più ampia esperienza educativa, dovendo trovare identica
attuazione anche per quanto riguarda il delicatissimo panorama della
istituzionalizzazione dei minori.
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