IL MALATO PSICHICO NON È UN
CITTADINO?
Sul n. 3/1996 di Politiche sociali, la nuova rivista
della Fondazione Zancan e della Caritas italiana, è uscito un articolo
sconcertante.
Angelo Lippi e Patrizia Novelli, Assistenti sociali
coordinatori dell'Azienda USL 5 di Pisa, Zona socio-sanitaria di Volterra,
sostengono che «da malati psichici ad
assistiti non autosufficienti è il passaggio che viene imposto per il superamento
dei manicomi».
Ma, da chi è stato imposto? Certamente non dal progetto-obiettivo
"Tutela della salute mentale". Da quando un intervento può essere
prescritto se non è previsto da una legge? Persone che sono state ricoverate
per anni (e alcune per decenni) come malati psichiatrici, in base a quali
criteri oggettivi e soggettivi sono stati considerati guariti e, quindi,
trasferiti alla competenza assistenziale? Perché sono diventati vecchi? Ma gli
anziani non hanno gli stessi diritti degli altri cittadini?
Gli Autori sostengono che «gli attuali ricoverati dei residui psichiatrici in prevalenza sono
persone anziane con problemi di non autosufficienza con prevalenti patologie
organiche e condizioni di cronicità e persone con handicap in condizioni di non
autosufficienza e bisognose di assistenza continua».
Siccome i soggetti appartenenti al primo gruppo hanno
«prevalenti patologie organiche», perché
non devono più afferire al comparto sanitario? Se essi non sono più
autosufficienti a causa della gravità delle loro condizioni di salute, non è
un motivo in più per confermare la competenza del Servizio sanitario nazionale?
Per il secondo gruppo di ricoverati, com'è possibile
che ci si accorga solo dopo anni, o peggio ancora dopo decenni, che si tratta
di handicappati e non di malati di mente? L'internamento in strutture psichiatriche
di persone esenti da patologie psichiatriche non è un reato? Che cosa ne pensa
l'Ordine dei medici delle odierne diagnosi di handicap e delle precedenti
valutazioni di malattia mentale?
Molto allarmanti le conclusioni di Angelo Lippi e
Patrizia Novelli: «La condizione
giuridica degli ammessi in RSA non sarà più di malato psichico ma di cittadino,
anziano o handicappato in condizioni di non autosufficienza, ricoverato in una
struttura protetta. Essi pertanto riacquisiranno il "diritto di cittadinanza"
e dovranno contribuire secondo le proprie disponibilità economiche alla quota
alberghiera prevista dal piano finanziario della struttura ospitante, come
avviene normalmente nelle RSA».
Agli
Autori dell'articolo rivolgiamo alcuni interrogativi:
-
perché e da quando i malati di mente non sono cittadini?;
- per quali motivi questi pazienti, per acquisire il
diritto di cittadinanza, devono diventare degli assistiti?;
- in base a quale norma di legge le RSA sono
strutture assistenziali sia pur con un (generalmente insufficiente) supporto
sanitario?;
- non è una beffa che i malati di mente camuffati da
assistiti debbano pagare la quota alberghiera, non prevista per gli adulti
aventi le stesse condizioni patologiche?;
- ha ancora valore l'art. 23 della Costituzione:
«Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge»?
È POVERO ANCHE CHI NON HA
REDDITI MA POSSIEDE PATRIMONI?
II metodo usato dalla Commissione nazionale di
indagine sulla povertà e l'emarginazione consiste nel calcolare un limite che
suddivida le famiglie italiane in due gruppi: quelle definite povere e quelle
indicate come non povere.
Per individuare tale limite, si prendono in esame i
consumi: viene quindi considerata povera la persona i cui consumi sono
inferiori al 50% del consumo medio pro-capite della popolazione.
Ma non è sorprendente che non si tenga in alcun
conto il possesso di patrimoni immobiliari (terreni, alloggi, negozi, ecc.) e
di beni mobili (titoli di Stato, ecc.)?
Come si fa a definire povera una famiglia che vive
nella villa (magari principesca) di sua proprietà, anche se non ha altri
redditi o dispone di entrate che, in base alle leggi vigenti, non è tenuta a
denunciare al fisco trattandosi di BOT, CCT o BTP?
Non sentono il dovere il Presidente ed i Componenti
della Commissione nazionale di indagine sulla povertà e l'emarginazione di
segnalare questa "anomalia" ai politici, agli amministratori, ai
mezzi di informazione e alla popolazione?
I tecnici sono in grado di stimare il numero dei
falsi poveri (e cioè delle persone prive di redditi ma in possesso di beni
mobili e/o immobili) che ricevono dallo Stato e/o dagli Enti locali sussidi a
carattere continuativo o saltuario?
NON VANNO RICONVERTITI O
CHIUSI GLI ISTITUTI DI RICOVERO PER MINORI?
Il settore "Famiglie e politiche sociali"
della Regione Lombardia ha pubblicato nel dicembre 1996 una ricerca su "I
minori negli istituti educativo assistenziali e nelle comunità alloggio della
Lombardia".
Mentre è molto positivo la diminuzione dei ricoverati
nelle due suddette strutture (erano 2.646 nel 1990, sono 2.093 nel 1995), non è
allarmante la presenza di istituti con decine e decine di ricoverati?
È ammissibile che funzionino ancora strutture che non
hanno nessuna dimensione familiare (qualche anno fa erano giustamente definiti
"ghetti") anche se organizzati in piccoli gruppi?
Gli amministratori della Regione Lombardia e dei
Comuni non ritengono necessaria la riconversione degli istituti in comunità
alloggio, sempre che non sia possibile il rientro dei minori presso i loro
genitori o l'adozione o l'affidamento familiare a scopo educativo?
Che cosa ne pensano la Piccola (sic!) Opera salvezza
del fanciullo "Mamma Rita" di Monza che ha ben 140 minori ricoverati,
il Centro salesiano S. Domenico Savio di Arese con 52, la Casa Nazareth di
Milano e la Casa di accoglienza alla vita di Belgioioso (entrambe con 45 ricoverati),
l'istituto antoniano padri rogazionisti di Desenzano che accoglie 41 giovani,
l'istituto Villa Santa Maria di Tavernerio (38 posti occupati), la Comunità
Buon Pastore Gruppo 2 di Mllano (37 utenti) e, infine, il Centro Rita Tognoli
di Traorna con 36 ospiti?
Quali sono le difficoltà reali per la creazione di
comunità alloggio di 6-8 posti? Sono di natura economica o di altro genere?
PERCHÉ I MALATI DI ALZHEIMER
DOVREBBERO RINUNCIARE AI LORO DIRITTI?
Molto
inquietanti sono alcune affermazioni contenute nel volume "Vademecum
Alzheimer"
di
Carla Pettinati, Patrizia Spadin e Daniele Villani, pubblicato nel 1996
dall'AIMA, Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.
Dopo aver precisato che «la malattia di Alzheimer è inguaribile ma non incurabile», viene
sostenuto che essa «richiede interventi
molto qualificati e competenti per la diagnosi, la terapia, /a riabilitazione,
interventi senza limiti di durata che perseguano lo scopo di contrastare la
malattia rallentandone il decorso e gli effetti devastanti» (pag. 57).
Da queste giuste constatazioni non vengono, però,
desunte le ovvie conseguenze operative. Infatti, gli Autori sostengono che la
residenza sanitaria assistenziale «rientra
nell'area dei servizi socio-assistenziali di rilievo sanitario di cui agli
art. 5 e 6 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'8 agosto
1985».
Ma, si rendono conto che l'area dei servizi socio-assistenziali
è l'imbroglio messo in atto dalle Regioni e dalle USL, con il beneplacito del
Ministero della sanità, per spostare gli interventi riguardanti i malati di
Alzheimer dal diritto esigibile alle cure sanitarie alla aleatoria
discrezionalità dell'assistenza?
Anche a proposito dei centri diurni per i malati di
Alzheimer, nel volume si sostiene la loro natura "di tipo assistenziale".
Quali vantaggi per i malati hanno individuato gli
Autori rifiutando la competenza del Servizio sanitario nazionale?
Infine, a proposito dell'interdizione e dell'inabilitazione
è scritto che «per il procedimento è
necessaria l'assistenza di un procuratore legale o di un avvocato».
Perché non viene detto che la procedura é completamente
gratuita se la richiesta viene avanzata dai servizi socio-sanitari o è proposta
direttamente dai congiunti al procuratore della Repubblica?
Per quali motivi i congiunti, spesso già duramente
provati anche sotto il profilo economico per curare i loro parenti malati,
devono spendere 4-5 milioni per pagare una inutile parcella?
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