Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997

 

 

Interrogativi

 

 

IL MALATO PSICHICO NON È UN CITTADINO?

 

Sul n. 3/1996 di Politiche sociali, la nuova rivi­sta della Fondazione Zancan e della Caritas ita­liana, è uscito un articolo sconcertante.

Angelo Lippi e Patrizia Novelli, Assistenti so­ciali coordinatori dell'Azienda USL 5 di Pisa, Zo­na socio-sanitaria di Volterra, sostengono che «da malati psichici ad assistiti non autosufficienti è il passaggio che viene imposto per il supera­mento dei manicomi».

Ma, da chi è stato imposto? Certamente non dal progetto-obiettivo "Tutela della salute men­tale". Da quando un intervento può essere pre­scritto se non è previsto da una legge? Persone che sono state ricoverate per anni (e alcune per decenni) come malati psichiatrici, in base a qua­li criteri oggettivi e soggettivi sono stati conside­rati guariti e, quindi, trasferiti alla competenza assistenziale? Perché sono diventati vecchi? Ma gli anziani non hanno gli stessi diritti degli altri cittadini?

Gli Autori sostengono che «gli attuali ricoverati dei residui psichiatrici in prevalenza sono perso­ne anziane con problemi di non autosufficienza con prevalenti patologie organiche e condizioni di cronicità e persone con handicap in condizioni di non autosufficienza e bisognose di assistenza continua».

Siccome i soggetti appartenenti al primo gruppo hanno «prevalenti patologie organiche», perché non devono più afferire al comparto sa­nitario? Se essi non sono più autosufficienti a causa della gravità delle loro condizioni di salu­te, non è un motivo in più per confermare la competenza del Servizio sanitario nazionale?

Per il secondo gruppo di ricoverati, com'è possibile che ci si accorga solo dopo anni, o peggio ancora dopo decenni, che si tratta di handicappati e non di malati di mente? L'inter­namento in strutture psichiatriche di persone esenti da patologie psichiatriche non è un rea­to? Che cosa ne pensa l'Ordine dei medici delle odierne diagnosi di handicap e delle precedenti valutazioni di malattia mentale?

Molto allarmanti le conclusioni di Angelo Lippi e Patrizia Novelli: «La condizione giuridica degli ammessi in RSA non sarà più di malato psichico ma di cittadino, anziano o handicappato in condi­zioni di non autosufficienza, ricoverato in una struttura protetta. Essi pertanto riacquisiranno il "diritto di cittadinanza" e dovranno contribuire secondo le proprie disponibilità economiche alla quota alberghiera prevista dal piano finanziario della struttura ospitante, come avviene normal­mente nelle RSA».

Agli Autori dell'articolo rivolgiamo alcuni inter­rogativi:

- perché e da quando i malati di mente non sono cittadini?;

- per quali motivi questi pazienti, per acquisi­re il diritto di cittadinanza, devono diventare de­gli assistiti?;

- in base a quale norma di legge le RSA sono strutture assistenziali sia pur con un (general­mente insufficiente) supporto sanitario?;

- non è una beffa che i malati di mente ca­muffati da assistiti debbano pagare la quota al­berghiera, non prevista per gli adulti aventi le stesse condizioni patologiche?;

- ha ancora valore l'art. 23 della Costituzione: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge»?

 

 

È POVERO ANCHE CHI NON HA REDDITI MA POSSIEDE PATRIMONI?

 

II metodo usato dalla Commissione nazionale di indagine sulla povertà e l'emarginazione con­siste nel calcolare un limite che suddivida le fa­miglie italiane in due gruppi: quelle definite po­vere e quelle indicate come non povere.

Per individuare tale limite, si prendono in esa­me i consumi: viene quindi considerata povera la persona i cui consumi sono inferiori al 50% del consumo medio pro-capite della popolazio­ne.

Ma non è sorprendente che non si tenga in al­cun conto il possesso di patrimoni immobiliari (terreni, alloggi, negozi, ecc.) e di beni mobili (ti­toli di Stato, ecc.)?

Come si fa a definire povera una famiglia che vive nella villa (magari principesca) di sua pro­prietà, anche se non ha altri redditi o dispone di entrate che, in base alle leggi vigenti, non è te­nuta a denunciare al fisco trattandosi di BOT, CCT o BTP?

Non sentono il dovere il Presidente ed i Com­ponenti della Commissione nazionale di indagi­ne sulla povertà e l'emarginazione di segnalare questa "anomalia" ai politici, agli amministratori, ai mezzi di informazione e alla popolazione?

I tecnici sono in grado di stimare il numero dei falsi poveri (e cioè delle persone prive di redditi ma in possesso di beni mobili e/o immobili) che ricevono dallo Stato e/o dagli Enti locali sussidi a carattere continuativo o saltuario?

 

 

NON VANNO RICONVERTITI O CHIUSI GLI ISTITUTI DI RICOVERO PER MINORI?

 

Il settore "Famiglie e politiche sociali" della Regione Lombardia ha pubblicato nel dicembre 1996 una ricerca su "I minori negli istituti educa­tivo assistenziali e nelle comunità alloggio della Lombardia".

Mentre è molto positivo la diminuzione dei ri­coverati nelle due suddette strutture (erano 2.646 nel 1990, sono 2.093 nel 1995), non è al­larmante la presenza di istituti con decine e de­cine di ricoverati?

È ammissibile che funzionino ancora strutture che non hanno nessuna dimensione familiare (qualche anno fa erano giustamente definiti "ghetti") anche se organizzati in piccoli gruppi?

Gli amministratori della Regione Lombardia e dei Comuni non ritengono necessaria la ricon­versione degli istituti in comunità alloggio, sem­pre che non sia possibile il rientro dei minori presso i loro genitori o l'adozione o l'affidamen­to familiare a scopo educativo?

Che cosa ne pensano la Piccola (sic!) Opera salvezza del fanciullo "Mamma Rita" di Monza che ha ben 140 minori ricoverati, il Centro sale­siano S. Domenico Savio di Arese con 52, la Ca­sa Nazareth di Milano e la Casa di accoglienza alla vita di Belgioioso (entrambe con 45 ricove­rati), l'istituto antoniano padri rogazionisti di De­senzano che accoglie 41 giovani, l'istituto Villa Santa Maria di Tavernerio (38 posti occupati), la Comunità Buon Pastore Gruppo 2 di Mllano (37 utenti) e, infine, il Centro Rita Tognoli di Traorna con 36 ospiti?

Quali sono le difficoltà reali per la creazione di comunità alloggio di 6-8 posti? Sono di natura economica o di altro genere?

 

 

PERCHÉ I MALATI DI ALZHEIMER DOVREBBERO RINUNCIARE AI LORO DIRITTI?

 

Molto inquietanti sono alcune affermazioni contenute nel volume "Vademecum Alzheimer"

di Carla Pettinati, Patrizia Spadin e Daniele Villa­ni, pubblicato nel 1996 dall'AIMA, Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.

Dopo aver precisato che «la malattia di Alzhei­mer è inguaribile ma non incurabile», viene so­stenuto che essa «richiede interventi molto qua­lificati e competenti per la diagnosi, la terapia, /a riabilitazione, interventi senza limiti di durata che perseguano lo scopo di contrastare la malattia rallentandone il decorso e gli effetti devastanti» (pag. 57).

Da queste giuste constatazioni non vengono, però, desunte le ovvie conseguenze operative. Infatti, gli Autori sostengono che la residenza sanitaria assistenziale «rientra nell'area dei ser­vizi socio-assistenziali di rilievo sanitario di cui agli art. 5 e 6 del decreto del Presidente del Con­siglio dei Ministri dell'8 agosto 1985».

Ma, si rendono conto che l'area dei servizi so­cio-assistenziali è l'imbroglio messo in atto dalle Regioni e dalle USL, con il beneplacito del Mini­stero della sanità, per spostare gli interventi ri­guardanti i malati di Alzheimer dal diritto esigibi­le alle cure sanitarie alla aleatoria discrezionali­tà dell'assistenza?

Anche a proposito dei centri diurni per i malati di Alzheimer, nel volume si sostiene la loro natu­ra "di tipo assistenziale".

Quali vantaggi per i malati hanno individuato gli Autori rifiutando la competenza del Servizio sanitario nazionale?

Infine, a proposito dell'interdizione e dell'ina­bilitazione è scritto che «per il procedimento è necessaria l'assistenza di un procuratore legale o di un avvocato».

Perché non viene detto che la procedura é completamente gratuita se la richiesta viene avanzata dai servizi socio-sanitari o è proposta direttamente dai congiunti al procuratore della Repubblica?

Per quali motivi i congiunti, spesso già dura­mente provati anche sotto il profilo economico per curare i loro parenti malati, devono spende­re 4-5 milioni per pagare una inutile parcella?

 

 

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