Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997

 

 

PER CURARE L'ANZIANA MADRE MALATA CRONICA NON BASTANO L'AFFETTO E IL DENARO DELLE FIGLIE

 

 

Mia madre fino all'età di 90 anni è rimasta in buona salute; da circa cinquant'anni aveva il diabete, ma riusciva a tenerlo sotto controllo in modo soddisfacente. Viveva stabilmente con me e alle volte, specie in inverno, si trasferiva da mia sorella che abita a pochi chilometri. Entram­be noi due figlie, alternandoci, ci siamo sempre prese cura di lei. Nell'ultimo periodo, quello che ha preceduto la sua morte, le sono stata vicino quasi esclusivamente io perché mia sorella do­veva seguire suo marito gravemente malato. Mia madre e mio cognato sono morti a pochi giorni l'uno dall'altra.

Nel gennaio 1992 mia madre è stata colpita da un ictus in forma grave, la parte destra del corpo è rimasta paralizzata e ha perso comple­tamente l'uso della parola. Ricoverata all'ospe­dale A, dopo 15 giorni, i medici volevano dimet­terla nonostante le sue condizioni fossero anco­ra gravi: non stava in piedi, non parlava, non mangiava. lo e mia sorella ci siamo rivolte al Co­mitato per la difesa dei diritti degli assistiti del CSA e ci siamo opposte. Grazie a questa nostra iniziativa il ricovero è durato circa 400 giorni e successivamente gli stessi medici dell'ospedale hanno provveduto al suo trasferimento alla casa di cura B, a spese della sanità, per le cure riabi­litative.

In quella prima occasione a B la mamma è stata curata bene: aveva ripreso completamente l'uso degli arti e recuperato, seppure parzial­mente, l'uso della parola; si esprimeva ancora con molta fatica e solamente noi figlie riusciva­mo a comprenderla, ma speravamo potesse an­cora migliorare.

Tornata a casa, dopo un periodo di relativo benessere, nel mese di novembre mia madre ha ripreso a stare male e, nonostante il nostro pro­digarci, ha continuato a peggiorare. Non era più lucida, era in perenne agitazione e non si poteva perderla di vista. A dicembre l'abbiamo portata alla casa di cura B perché nel precedente rico­vero si era trovata bene e acconsentiva a tor­narvi. Non ci sono stati i miglioramenti sperati e, terminata la terapia, non è stato più possibile il suo ritorno a casa. Noi figlie non avremmo potu­to provvedere a lei secondo i suoi bisogni. Que­sto perché siamo anziane (ho 70 anni e mia so­rella ne ha 68), abbiamo altre incombenze fami­liari e da sole non potevamo farcela a garantirle le cure e l'assistenza a lei necessarie.

La casa di cura B ha consigliato di rivolgerci alla residenza per anziani C, struttura a paga­mento collegata con B. Accettando questa solu­zione molto costosa, e successivamente rinun­ciando al posto nel frattempo resosi libero in una struttura pubblica, speravamo di garantire a nostra madre un trattamento migliore. Non pote­vamo riportarla a casa, ma abbiamo fatto del no­stro meglio per starle comunque vicino. Ad esempio, nei periodi in cui era costretta a letto, accorrevamo io e mia sorella per darle da man­giare. Per non farle mancare nulla abbiamo ac­cettato di integrare la retta, già salata, versando quanto ci veniva richiesto per tutte le prestazioni considerate extra dalla direzione.

Nel marzo 1996 mia madre ha avuto un col­lasso, è stata ricoverata all'ospedale D situato a circa 35 chilometri da Torino ed io mi recavo tut­ti i giorni a trovarla. Due giorni dopo anche mio cognato veniva ricoverato in un altro ospedale. L'ospedale D ha trattenuto mia madre per pochi giorni, trasferendola poi a B per proseguire le cure. Ma a B il trattamento riservato a mia madre non è stato più quello dei precedenti ricoveri. Veniva trascurata. A volte la trovavo spettinata, da lavare, senza la canottiera e con la sola ca­micia da notte direttamente sulla pelle, benché nell'armadietto ci fosse sempre disponibile la biancheria pulita, non veniva cambiata. Non sti­molata a lasciare il letto, vi rimaneva a lungo nel­la medesima posizione.

Eppure anche a questa struttura, sebbene convenzionata con il SSN, abbiamo sempre ver­sato somme considerevoli per avere in cambio servizi più accurati. Le condizioni di mia madre si sono via via aggravate. Le è stata scoperta una neoplasia al seno, si sono presentate le pia­ghe da decubito. Lamentava un forte dolore ai piedi, aveva le dita blu. Ne avevo chiesto il moti­vo al medico e mi aveva risposto: «Con l'età che ha... la circolazione». Trattavano male mia madre e a me chiedevano: «Quando la portate via?».

II 16 di luglio 1996, poiché si era aggravata, mia madre è stata trasferita nell'ospedale D. AI Pronto Soccorso il chirurgo X l'ha accolta bru­talmente rivolgendosi a lei direttamente con queste parole: «Sa, signora, qui bisogna tagliare tutte e due le gambe». Ho tentato di rassicurare la mamma, ma era impossibile. Ho manifestato al medico le mie perplessità ricordandogli l'età della persona che intendeva operare. Non ha desistito: «Cosa vuole, sarà sotto anestesia, le amputiamo le gambe, le puliamo quel seno, que­sta neoplasia che purga e la sistemiamo».

Ero disperata. Ho chiesto che mi lasciasse il tempo per trovare un'altra soluzione. Sono cor­sa a cercare qualcuno che mi aiutasse. Volevo trovare un ospedale, preferibilmente vicino ca­sa, disposto ad accettarla, ricoverarla e avere così più tempo per decidere. Dal Pronto soccor­so dell'ospedale presso cui l'avevo ricoverata è stata mandata subito nel reparto di chirurgia. II medico Y, nel visitarla, ha subito detto: «Vedia­mo... si tratta di amputare la gamba destra fin sotto il ginocchio e la sinistra alla caviglia... e non è da escludere che in seguito, sempre che superi l'operazione, a distanza di 15-20 giorni sia da amputare fin sotto il ginocchio anche la sinistra». Ho insistito affinché venisse tentata una terapia medica e rinviato l'intervento. In quei giorni chiunque incontrassi nella corsia del­l'ospedale F: medici, caposala, infermieri... mi si rivolgeva chiedendo: «Signora, quando porta via sua madre, quando la sposta?». Sono arrivata al punto di nascondermi per non farmi vedere dal personale.

II 1° agosto incontro il chirurgo Y rientrato in ospedale dopo 10 giorni di assenza. Mi ha riser­vato un trattamento come mai prima mi era capi­tato nella mia vita! Se non volevo che mia madre fosse operata, la dimetteva. «Cosa vuol fare di sua madre? Le gambe vanno meglio, per me sta bene: se la porti a casa». Come avrei potuto? non si muoveva, non mangiava, aveva le piaghe da decubito e la cancrena alle gambe, la neo­plasia al seno purgava. Ho cercato di spiegare, ma non mi ha lasciata parlare. Ha interrotto la conversazione dicendomi: «Ho capito, lei vuole parcheggiare sua madre per essere libera». Si è girato e si è allontanato.

Sono tornata a casa e ho scritto due lettere: una indirizzata al Direttore sanitario dell'ospeda­le F e l'altra al Direttore generale dell'USL; in es­se dichiaravo di oppormi alle dimissioni di mia madre dall'ospedale e ne spiegavo i motivi. In quegli stessi giorni mio cognato si aggravava e per poter andare a trovarlo un'amica mi ha so­stituito presso la mamma. Due giorni dopo quel­la mia visita mio cognato è mancato.

II dottore Y, ricevuta la lettera, non ha esitato a telefonarmi a casa per sfogare il suo disappun­to. Infine, dopo accese discussioni, mi ha fatto sapere che non avrebbe attuato il proposito di dimettere mia madre, ma ne avrebbe disposto il trasferimento in un altro ospedale. Ho informato mia sorella, il giorno stabilito ha voluto essere presente anche lei.

II 9 agosto mia madre è arrivata nell'ospedale G alle 10,30. È rimasta lucida fino alla fine. «Ba­sta - diceva - non ne posso più, non spostate­mi più, non fatemi più soffrire... basta». Parlava con sempre maggiori difficoltà, non riuscivo più a sentire la sua voce. Poi - me ne ero accorta già due giorni prima - non deglutiva quasi più. Se prima riusciva a bere solamente con la can­nuccia, ora dovevamo dargliene con il cucchiai­no. Ne avevo chiesto il perché all'infermiera. «Sa... vengono così». Ma lo sapeva meglio di me, ora lo saprei anch'io, che era alla fine.

La mamma è morta alle 5 dell'11 agosto 1996, 42 ore dopo l'ultimo trasferimento. È morta sen­za noi figlie vicino perché non siamo state av­vertite. II personale di G non ci conosceva e non ha saputo utilizzare i due numeri di telefono da me lasciati.

Non so esprimere l'amarezza e l'indignazione di mia sorella e mia per quanto ha patito nostra madre. Non si è voluto neppure risparmiarle l'ul­tima sofferenza evitando il trasferimento dal­l'ospedale F quando le erano rimaste poche ore di vita.

A chi dovesse trovarsi in situazioni di questo genere consiglierei di non aspettare, di rivolger­si subito al Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti. I padroni delle corsie fanno cosa fa loro comodo se non ci si oppone con risolutezza e cognizione di causa. Le mie richieste, le pre­ghiere non hanno ricevuto risposte. Sono servi­te solamente le decise prese di posizione.

 

(Intervista raccolta da Marina Eritreo)

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it