PER CURARE L'ANZIANA MADRE MALATA CRONICA NON BASTANO L'AFFETTO E IL DENARO DELLE
FIGLIE
Mia madre fino all'età di 90 anni è rimasta in buona salute; da circa
cinquant'anni aveva il diabete, ma riusciva a tenerlo sotto controllo in modo
soddisfacente. Viveva stabilmente con me e alle volte, specie in inverno, si
trasferiva da mia sorella che abita a pochi chilometri. Entrambe noi due
figlie, alternandoci, ci siamo sempre prese cura di lei. Nell'ultimo periodo,
quello che ha preceduto la sua morte, le sono stata vicino quasi esclusivamente
io perché mia sorella doveva seguire suo marito gravemente malato. Mia madre e
mio cognato sono morti a pochi giorni l'uno dall'altra.
Nel gennaio 1992 mia madre è stata colpita da un ictus in forma grave,
la parte destra del corpo è rimasta paralizzata e ha perso completamente l'uso
della parola. Ricoverata all'ospedale A, dopo 15 giorni, i medici volevano
dimetterla nonostante le sue condizioni fossero ancora gravi: non stava in
piedi, non parlava, non mangiava. lo e mia sorella ci siamo rivolte al Comitato
per la difesa dei diritti degli assistiti del CSA e ci siamo opposte. Grazie a
questa nostra iniziativa il ricovero è durato circa 400 giorni e
successivamente gli stessi medici dell'ospedale hanno provveduto al suo
trasferimento alla casa di cura B, a spese della sanità, per le cure riabilitative.
In quella prima occasione a B la mamma è stata curata bene: aveva
ripreso completamente l'uso degli arti e recuperato, seppure parzialmente,
l'uso della parola; si esprimeva ancora con molta fatica e solamente noi figlie
riuscivamo a comprenderla, ma speravamo potesse ancora migliorare.
Tornata a casa, dopo un periodo di relativo benessere, nel mese di
novembre mia madre ha ripreso a stare male e, nonostante il nostro prodigarci,
ha continuato a peggiorare. Non era più lucida, era in perenne agitazione e non
si poteva perderla di vista. A dicembre l'abbiamo portata alla casa di cura B
perché nel precedente ricovero si era trovata bene e acconsentiva a tornarvi.
Non ci sono stati i miglioramenti sperati e, terminata la terapia, non è stato
più possibile il suo ritorno a casa. Noi figlie non avremmo potuto provvedere
a lei secondo i suoi bisogni. Questo perché siamo anziane (ho 70 anni e mia sorella
ne ha 68), abbiamo altre incombenze familiari e da sole non potevamo farcela a
garantirle le cure e l'assistenza a lei necessarie.
La casa di cura B ha consigliato di rivolgerci alla residenza per
anziani C, struttura a pagamento collegata con B. Accettando questa soluzione
molto costosa, e successivamente rinunciando al posto nel frattempo resosi
libero in una struttura pubblica, speravamo di garantire a nostra madre un
trattamento migliore. Non potevamo riportarla a casa, ma abbiamo fatto del nostro
meglio per starle comunque vicino. Ad esempio, nei periodi in cui era costretta
a letto, accorrevamo io e mia sorella per darle da mangiare. Per non farle
mancare nulla abbiamo accettato di integrare la retta, già salata, versando
quanto ci veniva richiesto per tutte le prestazioni considerate extra dalla
direzione.
Nel marzo 1996 mia madre ha avuto un collasso, è stata ricoverata
all'ospedale D situato a circa 35 chilometri da Torino ed io mi recavo tutti i
giorni a trovarla. Due giorni dopo anche mio cognato veniva ricoverato in un
altro ospedale. L'ospedale D ha trattenuto mia madre per pochi giorni,
trasferendola poi a B per proseguire le cure. Ma a B il trattamento riservato a
mia madre non è stato più quello dei precedenti ricoveri. Veniva trascurata. A
volte la trovavo spettinata, da lavare, senza la canottiera e con la sola camicia
da notte direttamente sulla pelle, benché nell'armadietto ci fosse sempre
disponibile la biancheria pulita, non veniva cambiata. Non stimolata a
lasciare il letto, vi rimaneva a lungo nella medesima posizione.
Eppure anche a questa struttura, sebbene convenzionata con il SSN,
abbiamo sempre versato somme considerevoli per avere in cambio servizi più
accurati. Le condizioni di mia madre si sono via via aggravate. Le è stata
scoperta una neoplasia al seno, si sono presentate le piaghe da decubito.
Lamentava un forte dolore ai piedi, aveva le dita blu. Ne avevo chiesto il motivo
al medico e mi aveva risposto: «Con l'età che ha... la circolazione».
Trattavano male mia madre e a me chiedevano: «Quando la portate via?».
II 16 di luglio 1996, poiché si era aggravata, mia madre è stata
trasferita nell'ospedale D. AI Pronto Soccorso il chirurgo X l'ha accolta brutalmente
rivolgendosi a lei direttamente con queste parole: «Sa, signora, qui bisogna
tagliare tutte e due le gambe». Ho tentato di rassicurare la mamma, ma era
impossibile. Ho manifestato al medico le mie perplessità ricordandogli l'età
della persona che intendeva operare. Non ha desistito: «Cosa vuole, sarà sotto
anestesia, le amputiamo le gambe, le puliamo quel seno, questa neoplasia che
purga e la sistemiamo».
Ero disperata. Ho chiesto che mi lasciasse il tempo per trovare un'altra soluzione. Sono corsa a
cercare qualcuno che mi aiutasse. Volevo trovare un ospedale, preferibilmente
vicino casa, disposto ad accettarla, ricoverarla e avere così più tempo per
decidere. Dal Pronto soccorso dell'ospedale presso cui l'avevo ricoverata è
stata mandata subito nel reparto di chirurgia. II medico Y, nel visitarla, ha
subito detto: «Vediamo... si tratta di amputare la gamba destra fin sotto il
ginocchio e la sinistra alla caviglia... e non è da escludere che in seguito,
sempre che superi l'operazione, a distanza di 15-20 giorni sia da amputare fin
sotto il ginocchio anche la sinistra». Ho insistito affinché venisse tentata
una terapia medica e rinviato l'intervento. In quei giorni chiunque incontrassi
nella corsia dell'ospedale F: medici, caposala, infermieri... mi si rivolgeva
chiedendo: «Signora, quando porta via sua madre, quando la sposta?». Sono
arrivata al punto di nascondermi per non farmi vedere dal personale.
II 1° agosto incontro il chirurgo Y rientrato in
ospedale dopo 10 giorni di assenza. Mi ha riservato un trattamento come mai
prima mi era capitato nella mia vita! Se non volevo che mia madre fosse
operata, la dimetteva. «Cosa vuol fare di sua madre? Le gambe vanno meglio, per
me sta bene: se la porti a casa». Come avrei potuto? non si muoveva, non
mangiava, aveva le piaghe da decubito e la cancrena alle gambe, la neoplasia
al seno purgava. Ho cercato di spiegare, ma non mi ha lasciata parlare. Ha
interrotto la conversazione dicendomi: «Ho capito, lei vuole parcheggiare sua
madre per essere libera». Si è girato e si è allontanato.
Sono tornata a casa e ho scritto due lettere: una
indirizzata al Direttore sanitario dell'ospedale F e l'altra al Direttore
generale dell'USL; in esse dichiaravo di oppormi alle dimissioni di mia madre
dall'ospedale e ne spiegavo i motivi. In quegli stessi giorni mio cognato si
aggravava e per poter andare a trovarlo un'amica mi ha sostituito presso la
mamma. Due giorni dopo quella mia visita mio cognato è mancato.
II dottore Y, ricevuta la lettera, non ha esitato a
telefonarmi a casa per sfogare il suo disappunto. Infine, dopo accese discussioni,
mi ha fatto sapere che non avrebbe attuato il proposito di dimettere mia madre,
ma ne avrebbe disposto il trasferimento in un altro ospedale. Ho informato mia
sorella, il giorno stabilito ha voluto essere presente anche lei.
II 9 agosto mia madre è arrivata nell'ospedale G alle
10,30. È rimasta lucida fino alla fine. «Basta - diceva - non ne posso più,
non spostatemi più, non fatemi più soffrire... basta». Parlava con sempre
maggiori difficoltà, non riuscivo più a sentire la sua voce. Poi - me ne ero
accorta già due giorni prima - non deglutiva quasi più. Se prima riusciva a
bere solamente con la cannuccia, ora dovevamo dargliene con il cucchiaino. Ne
avevo chiesto il perché all'infermiera. «Sa... vengono così». Ma lo sapeva
meglio di me, ora lo saprei anch'io, che era alla fine.
La mamma è morta alle 5 dell'11 agosto 1996, 42 ore
dopo l'ultimo trasferimento. È morta senza noi figlie vicino perché non siamo
state avvertite. II personale di G non ci conosceva e non ha saputo utilizzare
i due numeri di telefono da me lasciati.
Non so esprimere l'amarezza e l'indignazione di mia
sorella e mia per quanto ha patito nostra madre. Non si è voluto neppure
risparmiarle l'ultima sofferenza evitando il trasferimento dall'ospedale F
quando le erano rimaste poche ore di vita.
A chi dovesse trovarsi in situazioni di questo genere
consiglierei di non aspettare, di rivolgersi subito al Comitato per la difesa
dei diritti degli assistiti. I padroni delle corsie fanno cosa fa loro comodo
se non ci si oppone con risolutezza e cognizione di causa. Le mie richieste, le
preghiere non hanno ricevuto risposte. Sono servite solamente le decise prese
di posizione.
(Intervista raccolta da Marina
Eritreo)
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