SENTENZA
DEL TRIBUNALE DI VERONA SUI CONTRIBUTI RICHIESTI DAGLI ENTI PUBBLICI AI PARENTI
DEGLI ASSISTITI
In data 16 marzo 1996 il Tribunale di Verona, Prima
Sezione civile, composto dai magistrati Paola De Falco - Presidente, Pasquale
D'Ascola, giudice estensore, Carla Marina Leudaro, giudice, ha pronunciato una
sentenza in cui viene confermato che gli enti pubblici non possono pretendere
contributi economici dai parenti di assistiti.
II Comune di Verona aveva citato i parenti di due
anziani assistiti dal Comune stesso mediante il loro inserimento in casa di
riposo, i cui redditi erano inferiori alla retta di ricovero, richiedendo ai
congiunti il versamento di contributi per la somma complessiva di L.
28.459.000.
II Tribunale ha respinto la domanda del Comune di
Verona asserendo che «è inesistente nel
nostro ordinamento una norma che consenta la rivalsa sui parenti da parte
dell'ente pubblico erogatore dell'assistenza, ditalché non vi può essere
sostituzione processuale dell'assistito da parte dell'ente», precisando,
altresì, che «la normativa del 1931 (legge 3 dicembre n. 1580), che ammetteva
tale riserva per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali, è
pacificamente considerata abrogata dalla legge 180/1978, che ha disposto la
chiusura dei manicomi e dalla legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio
sanitario nazionale, i principi ispiratori delle quali sono incompatibili con
le disposizioni anteriori alla Costituzione».
Prosegue la sentenza affermando quanto segue: «È pertanto impossibile invocare quelle
risalenti disposizioni sia quanto all'applicabilità diretta, sia solo per
inferirne un principio generale di rivalsa dell'ente pubblico. Infatti la
preminenza dell'intervento statale per il soddisfacimento dei bisogni
previdenziali e assistenziali del cittadino, in quanto finalizzata alla
realizzazione del principio di eguaglianza e solidarietà, esclude che l'intervento
sociale sia in qualche modo interferente con la possibilità di ottenere rivalsa
per le prestazioni erogate, cui lo Stato è comunque tenuto nei confronti dei
cittadino.
«Irrilevante
è poi, ai fini dell'enunziazione di un cogente obbligo di refusione delle spese
dell'ente, l'esistenza di una diffusa prassi degli istituti di assistenza
pubblica di rivolgersi ai parenti chiedendo un contributo per il pagamento
delle rette relative al ricoverato.
«La
richiesta, si è acutamente osservato; appare intollerabile allorché, come nel
caso di specie (cfr. quanto dedotto a prova dal Comune in memoria
istruttoria), si tratti di assistenza erogata ad anziani affetti da patologie
croniche e quindi malati e come tali aventi diritto a prestazioni sanitarie.
«Essa viene
sovente accolta, come nel caso di specie da parte dei tre figli degli assistiti
chiamati in causa dai convenuti, stipulando, sia pure per fatti concludenti, un
contratto con cui il parente dell'assistito si obbliga a una prestazione nei
confronti dell'ente, e dunque sfuggendo all'applicazione della normativa
assistenziale.
«Il ricorso
all'istituto degli alimenti non appare appropriato. Invero, come rilevato dalla
difesa dei convenuti, unico legittimato attivo a richiedere gli alimenti è il
soggetto in stato di bisogno e comunemente in dottrina si esclude l'esperibilità
dell'azione in via surrogatoria o l'applicabilità dell'art. 2041 c.c.
«Non si può
infatti parlare di ingiustificato arricchimento per il parente tenuto agli
alimenti, finché questi non siano richiesti dal beneficiario e quindi sorto
l'obbligo di pagamento.
«In
proposito non deve trarre in inganno l'arresto giurisprudenziale citato da
parte attrice (Cass. 9 ag. 1988 n. 4883), a mente del quale qualora i bisogni
dell'avente diritto agli alimenti vengano per intero soddisfatti da uno
soltanto dei condebitori ex lege, questi può esercitare il regresso pro quota
verso il coobbligato senza necessità di una preventiva diffida ad adempiere.
«Le regole
dell'utile gestione applicate dalla Suprema Corte in quel caso presuppongono infatti
il carattere cogente del relativo obbligo, quando sussista inizialmente (cioè
almeno nel rapporto beneficiario-obbligato primo adempiente) il presupposto
che legittima l'adempimento, cioè la richiesta ex art 445 codice civile.
«Nel caso
odierno invece la prestazione di cui si chiede il rimborso non è stata erogata
da uno dei coobbligati ex lege, ma dall'ente pubblico che interviene in forza
della normativa sociale assistenziale e non di quella alimentare.
«Approfondendo
la riflessione sul rapporto tra prestazioni assistenziali e obblighi
alimentari, occorre poi rilevare che i piani su cui si muovono i due istituti
sono completamente diversi: è da escludere, perché in tal senso è il dato
normativo, che condizione per l'ottenimento della pensione sociale sia
l'insussistenza di obbligati agli alimenti. È poi da ritenere compatibile con
la richiesta di prestazioni alimentari il godimento di pensione sociale che
secondo il beneficiario non soddisfi le sue esigenze, avuto riguardo alla sua
posizione sociale (art. 438 c.c.).
«In realtà
non si può dire che l'assistenza pubblica sia sussidiaria all'obbligazione
alimentare, ma v'è, si è correttamente osservato, indipendenza dei due
sistemi. L'intervento pubblico si dispiega per garantire le funzioni fondamentali
non scaricabili sulla famiglia.
«L'obbligo
alimentare risponde a un dovere solidaristico ancora attuale nell'ambito
familiare, ma soggetto al criterio della facoltà dell'avente diritto di valersi
o meno del suo diritto nei confronti dei congiunti, diritto che per la sua
connotazione personalistica non può essere oggetto di esercizio da parte di
terzi».
www.fondazionepromozionesociale.it