LA
RELAZIONE CONCLUSIVA DELLA COMMISSIONE ONOFRI SU PREVIDENZA, SANITÀ E
ASSISTENZA
Riportiamo
le parti principali della relazione conclusiva redatta in data 27 febbraio 1997
dalla Commissione, presieduta dal Prof. Paolo Onofri, incaricata dal Presidente
del Consiglio dei Ministri di analizzare «le compatibilità macroeconomiche della spesa sociale».
Per quanto
riguarda le indicazioni in materia di assistenza, a nostro avviso è pienamente
condivisibile la proposta di istituire il "Minimo vitale"; iniziativa
che in alcuni Comuni è stata attuata da vent'anni (1).
Rileviamo,
inoltre, con molto favore che la Commissione Onofri ha precisato che per valutare
le condizioni di bisogno devono essere prese in considerazione tutte le risorse
economiche dei soggetti interessati, e cioè i patrimoni ed i redditi, compresi
quelli derivanti dal possesso di BOT, CCT, BTP e altre obbligazioni.
Abbiamo,
però, molte perplessità circa l'attribuzione della gestione del "Minimo
vitale" ai Comuni, in considerazione della loro dispersione (si tratta,
infatti, di ben 8.100 enti) e del rischio, non ipotetico, del clientelismo.
Come avevamo
già rilevato nel numero scorso (2), gli emolumenti a carattere continuativo a
favore delle persone impossibilitate a provvedere alle proprie esigenze
dovrebbero essere sottratti ai settori della previdenza e dell'assistenza ed
assegnati ad un nuovo comparto che potrebbe essere denominato della
"Sicurezza sociale".
In merito
alla proposta della Commissione Onofri di istituire il "Fondo per i non
autosufficienti" rileviamo che l'iniziativa si fonda su due
considerazioni assolutamente sbagliate.
Infatti,
come risulta dal documento "La spesa per I'assistenza" redatto da F
Bimbi, P. Bosi, F. Ferrera e C. Saraceno (3), la cura degli anziani non autosufficienti
non è né dovrebbe essere una attività del settore sanitario poiché «il servizio
sanitario nazionale non può farsene carico se non in forma impropria e dispendiosa
(ad esempio, il ricovero prolungato)» ignorando non solo che le leggi dal 1955
obbligano la sanità a curare senza limiti di durata anche le persone inguaribili,
ma non tiene nemmeno conto delle esperienze, positive sul piano terapeutico e
vantaggiose sotto il profilo finanziario, relative alle cure domiciliari
realizzate anche nel nostro paese.
È inoltre
assai preoccupante che nel sopra citato documento si sostenga l'esistenza di
obblighi economici da parte dei congiunti dei malati non autosufficienti,
obblighi che - come sanno bene i nostri lettori - non sono previsti da norme di
legge.
Infine,
concordiamo pienamente con il Prof. Carlo Hanau, docente di programmazione e organizzazione
dei servizi sanitari presso l'Università di Bologna, secondo cui il Fondo per
i non autosufficienti va respinto non solo perché attribuisce al settore
assistenziale competenze spettanti alla sanità, ma anche «per concreti motivi
finanziari». Infatti «la situazione di non autosufficienza riguarda
mediamente oltre un anno di vita pro capite, con grande variabilità dovuta
alle diverse forme di malattia: ad esempio la sindrome di Alzheimer giunge a
coprire anche gli ultimi quindici anni di vita. I costi medi di una residenza
sanitaria assistenziale, necessaria a provvedere in questi casi quando la
famiglia non è in grado di tenere il malato a domicilio, possono essere stimati
prudenzialmente nell'ordine di una cinquantina di milioni. In prospettiva saranno
sempre meno le famiglie in grado di provvedere e pertanto non sarà azzardato
prevedere un esborso pari a tale cifra per ogni cittadino che giunge al termine
della vita. La proposta della commissione recita: "La copertura assicurativa
dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione, con modalità di finanziamento
che garantiscano l'equilibrio di gestione". Sulla base di queste premesse
c'è qualcuno che abbia fatto i conti per stabilire quanto dovrebbe essere accantonato
da ogni cittadino, per garantire l'equilibrio fra entrate ed uscite?».
LA RELAZIONE ONOFRI (Estratto)
La situazione attuale
Come mostrano chiaramente le figure 1 e 2 allegate,
poco meno dei due terzi della spesa per la protezione sociale è costituito da pensioni e rendite,
pur escludendo da questa voce le pensioni
di guerra, sociali, di invalidità civile, per ciechi e sordomuti, che vanno
considerate sotto la voce assistenza. Mentre la spesa per la sanità ha
raddoppiato in trentacinque anni il suo peso in termini di Pil e quella per
assistenza l'ha leggermente ridotto, la spesa per pensioni e rendite si è
moltiplicata quasi per quattro.
Negli ultimi trentacinque anni il sistema della spesa
sociale si è quindi concentrato sui rischi economici della vecchiaia.
Attraverso il sistema pensionistico ha sostenuto la ricchezza prospettica
degli individui, garantendo un più elevato reddito disponibile, che i
lavoratori dipendenti e, in misura più rilevante, quelli autonomi hanno potuto
proiettare permanentemente anche oltre il ciclo lavorativo della propria vita.
Nel caso degli autonomi, non tanto per l'entità delle pensioni individuali,
quanto per la innovazione che il sistema ha presentato per tali lavoratori, ai
quali veniva garantita la pensione indipendentemente dagli anni di
contribuzione.
Scarsi sono stati gli interventi a copertura degli
altri rischi economici individuali, se si escludono le integrazioni salariali
per interruzione temporanea del lavoro (CIG - Cassa integrazione guadagni),
che per quasi vent'anni sono state l'unica forma di assistenza significativa.
Italia ed Europa, un confronto
Per il complesso delle prestazioni sociali (nella
definizione dell'Eurostat) il nostro paese spende all'incirca un quarto del Pil;
una spesa non dissimile da quella media dei dodici paesi dell'Unione Europea
nel 1995. L'Italia non appare dunque "fuori linea" in termini
aggregati, né per eccesso né per difetto.
La grande anomalia della situazione italiana riguarda
piuttosto la struttura interna della spesa. I confronti europei mettono in
luce infatti due marcate distorsioni: una distorsione che riguarda i rischi ed
una che riguarda le categorie protette.
Per quanto riguarda i rischi, la quota di risorse
destinata, nel nostro paese, a proteggere "vecchiaia e superstiti"
appare significativamente più elevata che negli altri paesi: il 51,5% della
spesa sociale complessiva, di contro a una media comunitaria del 45,3%. La
spesa a tutela dei rischi "disoccupazione/formazione",
"famiglia/ maternità", "abitazione" e "altra
assistenza" riceve una proporzione di risorse della spesa sociale di
gran lunga più bassa che altrove in Europa (il 18,4% contro il 31,9%). Per
quanto riguarda la spesa sanitaria, il nostro paese è in linea con gli altri.
A essa viene destinato dalla media dei dodici paesi europei circa un sesto
della spesa sociale in termini di Pil, si tratta all'incirca del 5%, con
una tendenza alla diminuzione comune anche agli altri paesi OCSE.
Per quanto riguarda le categorie protette (seconda
distorsione), rispetto alle situazioni straniere si osserva un forte divario
tra le prestazioni previste per i lavoratori (o ex lavoratori) inseriti all'interno
del mercato del lavoro regolare (in particolare la grande impresa o il pubblico
impiego) e le prestazioni previste per gli altri lavoratori o per i non
occupati. La pensione di vecchiaia di un lavoratore "forte" può
essere fino a quattro volte superiore alla pensione sociale (negli altri paesi
il rapporto tende ad essere di uno a due). Per quanto riguarda la tutela della
disoccupazione, chi beneficia dell'indennità di mobilità riceve in Italia più
del doppio di chi riceve l'indennità ordinaria (negli altri paesi esiste un
trattamento uniforme per tutti i lavoratori). Risalta poi anche l'assenza in
Italia di uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di
mezzi, nonché di una rete adeguata di servizi per le famiglie. Tutti i paesi
europei più sviluppati dispongono di questo tipo di schemi e servizi.
In termini comparati, dunque la situazione della
spesa sociale nel nostro paese appare sbilanciata a favore delle pensioni e,
quindi, prospetticamente più fragile a causa della stretta dipendenza del
sistema pensionistico dall'invecchiamento più rapido della popolazione.
La convergenza europea dei sistemi di benessere
collettivo
In termini di istituti, i sistemi di sicurezza sociale
europei sono diversamente predisposti ad affrontare gli effetti esercitati
dalle tendenze e dai vincoli menzionati. AI fine di stimolare una convergenza
anche nella spesa sociale e non solamente nelle condizioni finanziarie,
l'Unione Europea ha sollecitato i singoli paesi ad agire nella direzione:
- della ristrutturazione dei sistemi pensionistici
obbligatori, volta ad attenuarne la generosità a fronte dell'evoluzione
demografica;
- dell'adozione di un approccio
"contrattuale" e di forme di "concorrenza amministrata" in
seno ai sistemi sanitari pubblici, onde promuoverne l'efficienza;
- del rafforzamento della "selettività"
rispetto ai mezzi negli schemi di integrazione del reddito ed un generale
spostamento di risorse dalla tutela dei tradizionali rischi
"standard" delle assicurazioni sociali alla protezione di nuovi
bisogni (esclusione sociale, perdita dell'autosufficienza, ecc.) nonché
all'offerta di nuovi e maggiori servizi alle famiglie;
- del passaggio da un approccio "passivo"
ad uno "attivo" nel disegno e nella gestione degli schemi di inabilità
al lavoro e di disoccupazione, al fine di prevenire sindromi di eccessiva dipendenza
dai sistemi pubblici di sostegno;
- della riforma dei meccanismi di finanziamento
della protezione sociale, al fine di renderla più "amichevole" nei
confronti del mercato occupazionale, ed in particolare lo sforzo di ridurre le
imposte e gli oneri sociali sul lavoro, per non disincentivare l'offerta di
nuovi posti.
La convergenza del sistema
di spesa sociale italiano
Per quanto riguarda il nostro paese, le tendenze
prima menzionate e l'esigenza di una maggiore convergenza verso la struttura
della spesa sociale europea sollecitano uno spostamento della spesa verso gli
ammortizzatori sociali al fine di sostenere una maggiore mobilità
occupazionale e proteggere in modo sistematico dai rischi della povertà e verso
le politiche attive del lavoro.
In ogni caso, sono le tendenze di lungo periodo che
segnalano possibili situazioni di instabilità intrinseca dei sistemi di spesa
sociale, oppure una loro palese incompatibilità prospettica con vincoli
macroeconomici. A questo riguardo abbiamo già sottolineato che la tendenza di
medio-lungo periodo segnala la possibilità che nel corso dei prossimi venti
anni vi sia una espansione della spesa per pensioni e per prestazioni
sanitarie che aumenta di due punti percentuali del Pil. L'adeguamento del
nostro sistema di ammortizzatori sociali (mercato del lavoro e redditi, in
generale) potrebbe richiedere un'ulteriore espansione di circa 0,7 punti
percentuali.
L'aumento tendenziale di 2,5/3 punti di Pil della
spesa per la protezione sociale sarebbe decisamente incompatibile con il
mantenimento della attuale pressione tributaria e contributiva, giudicata già
politicamente insopportabile, economicamente disincentivante e penalizzante
per quanto riguarda le capacità concorrenziali dei nostro sistema economico.
La spesa per l'assistenza
La spesa per assistenza in Italia riflette un modello
obsoleto, molto distante da quello seguito dai paesi europei con i quali siamo
soliti confrontarci. Nell'ambito delle politiche sociali, essa ha un ruolo
residuale, schiacciata da un sistema pensionistico ingombrante e iniquo e un
sistema sanitario poco efficiente. Le risorse destinate a questo settore non
sono molte (3,5% del Pil) e mostrano un trend declinante rispetto al Pil (era
il 5,4% nel 1985). In prospettiva, sembra opportuno muoversi verso un
incremento di questi interventi, ma la necessità più urgente è una profonda
ristrutturazione del loro assetto, oggi fondato su un insieme di istituti
prevalentemente costituiti da prestazioni monetarie di tipo
"passivo", che non sono in grado né di raggiungere apprezzabili
risultati redistributivi, né di cogliere i veri bisogni dei beneficiari dando
loro concrete opportunità, in quanto possibile, di recuperare autosufficienza.
La riforma deve ispirarsi ad una scelta equilibrata
tra universalismo, quanto ai beneficiari, e selettività, nell'erogazione delle
prestazioni; ridefinire i bisogni e i destinatari degli interventi rivolti
alla cittadinanza in generale (non solo anziani, ma anche altre figure
sociali; non solo sussidi monetari, ma sostegni mirati ai bisogni e alle
funzioni di cura che emergono nel ciclo di vita); sostenere radicalmente un
approccio che destini sempre più i trasferimenti dello Stato a servizi erogati
a livello locale; valorizzare le funzioni di orientamento e programmazione e
scelte gestionali svolte a livello locale nell'ambito di un quadro legislativo
di indirizzo nazionale.
I cardini delle riforme
proposte sono i seguenti:
1) Portare a compimento la separazione tra previdenza
ed assistenza, fondando il finanziamento della prima su forme contributive, e
quello della seconda sull'imposizione generale. In questo quadro vanno, in una
prima fase, rivisti i criteri e le modalità degli attuali trasferimenti dal
bilancio dello Stato all'Inps e, successivamente, ridefiniti gli enti gestori
in un quadro di maggiore decentramento e in una prospettiva federalista.
2) Razionalizzare e unificare gli istituti di redistribuzione
monetaria esistenti, introducendo nuovi istituti, il Minimo vitale e il Fondo
per i non autosufficienti; attuare appropriate revisioni delle detrazioni per
figli a carico nell'ambito dell'imposizione personale; riformare, nella fase
transitoria, gli istituti esistenti, con particolare riguardo alla
definizione di criteri omogenei e affidabili di controllo delle risorse dei
beneficiari.
3) Potenziare il ruolo degli enti decentrati
nell'offerta dei servizi ai cittadini in condizioni di disagio, definendo un
meccanismo di finanziamento del settore, analogo a quello della sanità, che
attribuisca allo stato la funzione di indirizzo e sostegno, alla regione il
compito della programmazione e ai comuni, in primis, le funzioni di
orientamento degli interventi e quelle relative alle scelte gestionali a
livello della città e del territorio, in accordo con gli altri enti locali e
alle organizzazioni non profit pubbliche e private.
4) Costituire un istituto nazionale, con la partecipazione
degli enti decentrati interessati (Regioni e Comuni), con lo scopo di
ridefinire e uniformare i criteri di misura e accertamento dei mezzi a cui è
subordinata l'erogazione delle prestazioni di sicurezza sociale e più in
generale dei servizi pubblici e di fornire supporto tecnico e informativo agli
utilizzatori.
Nel sistema italiano, a differenza dì quanto accade
in tutti i paesi evoluti, manca un istituto del Minimo vitale che assolva la
funzione di una rete di protezione, a cui qualsiasi cittadino, indipendentemente
dal genere, dalla classe sociale, dalla professione - in condizioni di
indigenza, per ragioni non dipendenti dalla propria volontà - possa accedere
per trovare un sostegno economico e/o l'offerta di opportunità e servizi per
uscire dallo stato di bisogno.
II Minimo vitale che si propone è uno strumento
indirizzato alle fasce più deboli della società: aiuta tutti coloro che hanno
risorse inferiori ad una certa soglia di reddito ed è costruito in modo da
attenuare la trappola della povertà, perché reintegra solo parzialmente la
distanza tra le risorse del soggetto e la soglia di povertà.
II Minimo vitale è un sussidio indirizzato agli
individui maggiorenni, il cui benessere è tuttavia valutato in base alle
risorse del nucleo familiare in cui è inserito e tiene conto del fatto che le
famiglie sono diverse, per numerosità, composizione e carico di persone non
autosufficienti o non ancora fisicamente autonome; misura le risorse
economiche della famiglia nel modo più corretto possibile, fondandosi non solo
sul reddito dichiarato ai fini dell'Irpef, ma tenendo conto anche di altri
elementi (redditi esclusi dall'Irpef, patrimonio immobiliare, ecc.), cercando
così di attenuare i problemi legati all'accertamento delle risorse dei
beneficiari.
II Minimo vitale mira al reinserimento nel mondo del
lavoro dei beneficiari, perché, nel caso di inoccupati non inabili in età da
lavoro, l'aiuto è concesso per un periodo limitato, solo se il nucleo
familiare si trova in condizioni di effettiva indigenza, ed è congegnato in
modo che il beneficiario sia responsabilizzato alla ricerca attiva di
occupazione e solo se è disponibile ad accettare offerte di lavoro, a
partecipare a lavori socialmente utili o a programmi di formazione. Esso tiene
inoltre conto dei bisogni e delle opzioni di scelta di chi svolge lavori di
cura nel nucleo familiare.
II Minimo vitale è gestito dalle comunità locali, in
primo luogo dai Comuni, perché queste sono più capaci di cogliere le diverse
esigenze delle persone che si trovano nello stato di bisogno e perché a questo
livello è più facile individuare le priorità a cui rispondere e identificare le
forme di gestione adatte per realizzare i servizi più efficaci; è integrato
con le politiche assistenziali locali che offrono servizi alle persone in
stato di bisogno (vecchiaia, malattia, handicap, esclusione sociale); è
integrato con le politiche attive del mercato del lavoro, che a loro volta
possono essere realizzate solo attraverso strutture decentrate e flessibili,
con la collaborazione degli enti locali.
In prospettiva, il sistema assistenziale potrebbe
essere arricchito di un altro nuovo istituto: il Fondo per i non
autosufficienti, sul modello della
Pflegeversicherung tedesca, con la funzione di assicurare a tutti i
cittadini che vi partecipano prestazioni monetarie e cure mirate all'effettivo
stato di bisogno nel momento in cui si crei una situazione di non
autosufficienza. La copertura assicurativa dovrebbe essere estesa a tutta là
popolazione, con modalità di finanziamento che garantiscano l'equilibrio della
gestione.
L'introduzione dei nuovi istituti comporterebbe
l'abolizione degli assegni familiari, dell'assegno per il nucleo familiare,
della pensione sociale e dell'assegno sociale introdotto dalla riforma del
1995. AI finanziamento di tali programmi andrebbero gradualmente destinate le
risorse che si renderanno disponibili in seguito all'interruzione dei residui
istituti di redistribuzione del reddito (integrazioni al minimo, pensioni di
guerra, indennità di accompagnamento e in genere pensioni e indennità per
invalidità).
I nuovi istituti di cui si propone l'introduzione
dovranno convivere per lungo tempo con quelli preesistenti. Questi dovranno
tuttavia essere riformati, prevedendo più razionali criteri di determinazione
dei limiti di reddito; accelerando l'estinzione delle integrazioni al minimo in
connessione con le proposte qui avanzate di completamento della riforma
pensionistica; prevedendo modificazioni dei criteri di riconoscimento delle
invalidità; riformando l'istituto dell'indennità di accompagnamento.
Dal punto di vista finanziario la spesa per l'assistenza
potrebbe mantenere nella fase iniziale il proprio peso sul Pil, pari al 3,5%,
per elevarsi gradualmente al 4,2% nel 2001, a condizione che si realizzino
apporti derivanti da risparmi di altri comparti della spesa sociale. Quanto
alla composizione della spesa, la riforma determinerà un ingente spostamento
di risorse da istituti che si limitano ad erogare trasferimenti monetari a
istituti che mirano al soddisfacimento dei bisogni offrendo servizi (che
passerebbero, dal 7-10% attuale, a oltre un terzo della spesa complessiva).
L'efficacia della riforma dipenderà tuttavia in modo cruciale dalla
determinazione con cui, nella fase di articolazione delle proposte, si
affronteranno le inerzie derivanti da malintese interpretazioni dei diritti
acquisiti e dalle lentezze burocratiche.
II sistema sanitario
Ad alcuni anni dall'approvazione della riforma, sono
rilevabili alcuni problemi di fondo connessi ai seguenti nodi principali:
- i processi di assegnazione dei budget dal centro
alle Regioni e da queste alle Aziende USL non sono stati ratificati in modo
preciso e portano a fenomeni di contrattazione spesso non correlati alle
esigenze di finanziamento dei livelli di assistenza;
- il ripetersi di deficit "strutturali" a
livello sia regionale sia di Azienda USI evidenzia una difficoltà ad
individuare forme efficaci di responsabilizzazione e di penalizzazione dei
soggetti che erogano la spesa;
- con riferimento al punto precedente, i soggetti
erogatori prestano un'insufficiente attenzione all'introduzione di adeguati
incentivi mirati al contenimento della spesa a livello dei singoli operatori;
- viene destinata una quota eccessiva di spesa ai
trattamenti ospedalieri a scapito delle altre funzioni istituzionali del
Servizio sanitario nazionale;
- si verifica una grave difficoltà a definire le
modalità di competizione tra soggetti privati e pubblici e, per quanto riguarda
questi ultimi, la separazione tra funzioni di programmazione e di erogazione
dei servizi.
A fronte dei problemi di cui sopra, la -riforma
che qui si propone tocca in maniera equilibrata sia la componente del prelievo
sia quella delle modalità di erogazione della spesa.
Per quanto attiene al primo aspetto, in seguito
all'abolizione dei contributi sanitari e all'introduzione dell'IREP, per tener
conto del diverso trattamento dei redditi da pensione nei due regimi si
auspica una ridefinizione delle detrazioni IRPEF su tali redditi.
Sempre dal lato delle entrate, si propone di
accelerare l'attuazione della normativa vigente relativamente
all'autofinanziamento delle Regioni. In particolare, si prevede che
quest'ultime, per ampliare le entrate proprie, possano introdurre
compartecipazioni sul ricovero in regime ordinario e di day-hospital,
all'interno di importi minimi e massimi fissati dal Ministero della sanità. Le
somme derivanti dalla partecipazione alla spesa per queste prestazioni non
devono concorrere al finanziamento della quota capitaria. Inoltre, le Regioni
potranno introdurre compartecipazioni sulle prestazioni aggiuntive erogate
dalla medicina generale (visite domiciliari e assistenza domiciliare
programmata) con l'esclusione di quelle previste all'interno di programmi
regionali speciali.
Per quanto attiene alle modalità di erogazione della
spesa, si propone in primo luogo di rivedere il meccanismo di riparto tra il
centro e le Regioni, ratificando le modalità di distribuzione del Fondo
sanitario regionale ed ampliando il potere del Ministero della sanità e delle
Regioni nell'attribuzione dei finanziamenti ad organismi ed attività di
interesse nazionale. In questo ambito, si propone di rafforzare gli strumenti
di penalizzazione per le Regioni che presentano disavanzi e di ridurre le quote
di interessi sui mutui accesi dalle Regioni.
Per quanto attiene alle competenze del Ministero
della sanità, si propone un riassetto delle organizzazioni centrali finalizzato
a riorganizzare le strutture preposte alla funzione sanitaria, potenziando i compiti
di programmazione, coordinamento e controllo e finalizzando le risorse
dell'Istituto Superiore di Sanità a compiti di sanità pubblica.
Per quanto concerne le competenze delle Regioni, si
evidenzia la necessità che queste ultime adottino tariffari DRGS articolati in
base alla complessità delle strutture produttrici e che impongano alle Aziende
USL la definizione di budget preventivi per la spesa ospedaliera per evitare
sfondamenti su altre prestazioni. Si propone inoltre che venga effettivamente
imposto ai singoli presidi il vincolo del bilancio in pareggio e che eventuali
residui attivi possano essere utilizzati all'interno delle divisioni che li
hanno realizzati per finalità di potenziamento delle strutture. Per favorire
una maggiore scelta dei pazienti e più stringenti meccanismi di contenimento
della spesa, si propone inoltre di accentuare il processo avviato di
responsabilizzazione dei medico di medicina generale, consentendo nuove
modalità organizzative della medicina di gruppo e prevedendo penalizzazioni per
lo sfondamento dei tetti di spesa programmati.
Come si è visto, il legislatore nel 1992 aveva
predisposto l'introduzione di alcuni strumenti che ancora attendono di essere
regolamentati. A questo proposito, si propone di procedere all'introduzione di
forme di assicurazione sanitaria integrativa con contestuale ridefinizione
dell'insieme delle prestazioni garantite dal SSN al fine di definirne con
chiarezza gli ambiti operativi.
Esistono infine alcuni spazi di intervento su aree non
esplicitamente previste dalla riforma del 1992 e che tuttavia appaiono di
grande rilevanza per migliorare la qualità dei servizi complessivamente resi
dal Servizio sanitario nazionale.
Sotto il profilo degli interventi mirati ad introdurre
una maggiore capacità di scelta degli utenti e un maggiore grado di
competizione tra i produttori, si propongono i seguenti punti. In primo luogo,
ridefinire le regole di accesso al mercato della distribuzione dei farmaci,
eliminando restrizioni non giustificabili in termini di contenimento della
spesa. In secondo luogo, si ravvede I'opportunità di consentire, in via
sperimentale, la gestione di alcuni grandi ospedali ad organizzazioni non
lucrative di utilità sociale. Infine, per quanto attiene i contratti collettivi
nazionali dei medici ospedalieri, si propone una definizione generalizzata di
rapporti di lavoro a termine e l'abbandono del metodo di individuazione dei
fabbisogni sulla base di piante organiche.
II sistema pensionistico
Dopo anni di riforme abortite, è difficile non vedere
i passi avanti che la riforma previdenziale del 1995 ha permesso sotto il
profilo dell'immunizzazione del sistema previdenziale rispetto agli shock demografici, rispetto alle
scorrerie della politica, rispetto alle più palesi iniquità. Quest'ultimo punto
è naturalmente, centrale. Sorprende, anzi, la scarsa consapevolezza che i
ripetuti fallimenti delle passate proposte di riforma fossero dovuti al fatto
che le proposte stesse non affrontavano mai il tema della uniformità dei
trattamenti pensionistici. Solo dopo aver posto tutti gli assicurati su un
piede di parità è possibile (e doveroso) chiedere agli stessi un sacrificio
più o meno rilevante.
Pur all'interno di un sistema che rimane a ripartizione,
l'adozione del metodo contributivo ha rappresentato, poi, una svolta in quanto
ha restituito al beneficio pensionistico il carattere di controprestazione
rispetto al versamento contributivo.
Della riforma sono condivisibili, dunque, i principi
ispiratori. La riforma non è priva, peraltro, di punti deboli derivanti, in
larga misura, da una applicazione a volte timida dei principi di fondo della
riforma stessa. Risalta, in particolare, la lenta fase di transizione con la
quale si sono addebitati, in larga misura, alle generazioni più giovani i
costi del cambio di regime. Ma proprio perché della riforma sono interamente
condivisibili gli elementi di fondo, è opportuno por mano, con le modalità e
nei tempi anche brevi previsti dalla riforma stessa, a determinate modifiche
del sistema riformato per consolidarlo, da un lato, per limitare gli elementi
residui di iniquità, dall'altro, e per associargli un sistema di previdenza
complementare inteso a permettere una diversificazione del "portafoglio
pensionistico" dei lavoratori e quindi un progressivo riequilibrio fra
previdenza obbligatoria e previdenza complementare.
La Commissione suggerisce, quindi, di operare nelle
seguennti direzioni, anche alla luce dalle proiezioni citate in precedenza.
a) Attuazione
della riforma. 1) Applicazione rigorosa dei principi e della lettera della
riforma, per quanto riguarda l'esercizio delle deleghe (in particolare, per
quanto riguarda l'armonizzazione dei regimi previdenziali) e l'emanazione dei
relativi decreti ministeriali. 2) Estensione del processo di armonizzazione al
fine di porre termine ai benefici ed alle eccezioni ancora presenti in
materia di età pensionabile, anzianità contributiva minima, retribuzione
pensionabile, valutazione dei periodi di lavoro, rendimento annuo, massimale
pensionabile, disciplina del cumulo, riordino del sistema delle prestazioni di
inabilità e di invalidità.
È presumibile che, sotto il profilo finanziario,
effetti non irrilevanti (ma non decisivi) possano derivare da una rigorosa
applicazione delle indicazioni precedenti.
b) Separazione
fra previdenza e assistenza. Individuazione di un corretto trattamento
contabile delle partite di natura assistenziale gestite a carico dell'Inps,
anche attraverso l'estensione prospettica delle disposizioni di cui al disegno
di legge n. 1452 ("Disposizioni in materia di anticipazioni di tesoreria
all'Inps") e relative, per il momento, alle sole partite pregresse.
La definizione, nei termini proposti, della questione
non influirebbe sui livelli di spesa corrente, rilevando unicamente sotto il
profilo giuridico-contabile. Essa impedirebbe, però, di confondere (come
spesso si è fatto anche in tempi recenti) il saldo complessivo Inps con le
tendenze della spesa pensionistica.
c) Previdenza
obbligatoria a regime. 1) Unificazione (e non già semplice armonizzazione)
dei regimi pensionistici oppure, in alternativa, autonomia gestionale e
finanziaria degli enti previdenziali consentita solo a condizione che vengano
ridefinite le regole di autosufficienza finanziaria di tali regimi sulla base
di bilanci tecnici previsionali di lungo periodo. In base a quest'ultimi
sarebbe necessario prevedere, per legge, gli interventi correttivi necessari
sia relativamente all'adeguamento della contribuzione che del livello delle
prestazioni. Ove emergesse con evidenza la loro insostenibilità si dovrebbe
prevedere la loro confluenza nell'Assicurazione generale obbligatoria
riconoscendo agli iscritti i soli diritti pensionistici sulla base delle regole
generali e non di quelle specifiche previste dai singoli fondi. 2) Applicazione
senza eccezioni del principio contributivo con graduale allineamento delle
aliquote di computo. 3) Tempestiva ed automatica revisione dei coefficienti di
trasformazione. 4) Allineamento del limite inferiore o del livello di
riferimento dell'età pensionabile ai livelli europei in vista di una riduzione
a regime delle aliquote di finanziamento.
Gli effetti finanziari derivanti dalle misure citate
potrebbero consolidare strutturalmente il sistema pensionistico a regime. Nel
breve periodo gli effetti finanziari potrebbero derivare dall'intervento di
cui al punto 2) con intensità inversamente proporzionale alla gradualità
dell'intervento.
d) Transizione.
1) Accelerazione della transizione al nuovo regime attraverso la eliminazione
di alcune difformità di trattamento attualmente presenti. 2) Revisione dei
criteri di valutazione dei diritti pensionistici nei casi di carriere lavorative
precoci o di lavori usuranti anche al fine di permettere un equo trattamento in
previsione di una modifica del metodo di calcolo o dei requisiti d'accesso al
pensionamento vigenti. 3) Individuazione di un sistema di incentivi inteso ad
accelerare l'entrata in vigore della riforma (anche attraverso il collegamento
della opzione a favore del regime contributivo con il processo di
privatizzazione delle aziende o del patrimonio pubblico).
Per quanto riguarda gli effetti finanziari, sono
prevedibili risparmi che, pur se trascurabili nel breve periodo, assumerebbero
consistenza crescente nel medio termine in corrispondenza del periodo di
maggiore impatto degli effetti della transizione demografica.
d) Previdenza
complementare. Decisa accelerazione nello sviluppo della previdenza complementare
ed estensione della stessa al settore pubblico.
(1) Cfr. la
"Proposta di deliberazione sull'assistenza
economica e domiciliare", redatta dall'Unione per la lotta contro
l'emarginazione sociale, in Prospettive
assistenziali, n. 41, gennaio-marzo 1978 e "Comune di Torino - Determinazione
dei criteri generali di erogazione e degli importi per l'assistenza
economica", Ibidem, n. 44,
ottobre-dicembre 1978.
(2) Cfr. l'editoriale del n. 117, gennaio-marzo 1997, di Prospettive assistenziali, "Serve
ancora la legge di riforma dell'assistenza sociale?".
(3) Si tratta di uno dei documenti di base che costituiscono parte
integrante dei lavori della Commissione Onofri.
www.fondazionepromozionesociale.it