Prospettive assistenziali, n. 119, luglio-settembre 1997

 

 

UNA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA NELLA FAMIGLIA ADOTTIVA MULTIETNICA (*)

 

MATILDE CALLARI GALLI (**)

 

 

1. Le due tipologie di famiglie multietniche

Mi propongo di esaminare il tema della famiglia adottiva multietnica alla luce delle conoscenze antropologiche. Presenterò, pertanto, alcune consi­derazioni che nelle mie intenzioni dovrebbero illu­strare il contributo che le discipline etnoantropologi­che sono in grado di fornire sia alla comprensione del fenomeno rappresentato dalla multietnicità pre­sente in uno stesso nucleo familiare, sia alle propo­ste di politiche e strategie di intervento che rispetto a questi nuclei possono essere messe in atto.

Non indicherò di volta in volta a quale livello - se a quello più conoscitivo o a quello più operativo - nella mia valutazione i concetti, le notizie, gli itinera­ri metodologici che, sia pure per brevi cenni, esporrò, si dovrebbero applicare. E questo sia per­ché è compito difficile separare i due livelli sia per­ché sono convinta della loro intrinseca specularità e della loro necessaria interconnessione.

Teoricamente è difficile definire con proprietà la famiglia muttietnica: si potrebbe sostenere - e più avanti ne spiegherò più diffusamente le motivazioni - che oggi tutte le famiglie sono multietniche, in quanto esposte, nella loro esplicitazione di modelli culturali e di sistemi di atteggiamenti/comportamen­ti, nella loro proposizione di modelli educativi alla prole, nei loro vissuti quotidiani, ad una influenza continua, diretta e/o virtuale, che proviene dalle mille culture che oggi popolano le nostre città e i nostri schermi televisivi. E sotto questo aspetto ritengo che molte delle considerazioni che esporrò possano essere utili per ogni sistema familiare anche a quello apparentemente più ispirato ad un rigido ed esclusivo monoculturalismo.

In modo proprio e specifico tuttavia le famiglie multietniche presenti oggi nel nostro paese possono essere fatte risalire a due tipologie: la prima riguar­da i matrimoni e le convivenze di coppie miste, la seconda le famiglie che scelgono di servirsi delle adozioni internazionali ed a queste ultime riferirò principalmente le mie considerazioni.

 

2. Accenni antropologici al tema dell'adozione

L'adozione ha costituito per molti studiosi delle relazioni parentali un grave dilemma, perché costi­tuisce un'usanza che contraddice una convinzione assai radicata in tutti gli studi dedicati ai sistemi familiari, espressa sin, dagli anni '30 da Bronislaw Malinowski e mai smentita. Malinowski scriveva: "i processi culturali tendono a seguire la traiettoria dei drives biologici ed innati soprattutto nell'ambito dei sistemi di parentela... Sono i fatti fisiologici che pro­ducono le istituzioni puramente culturali. I termini di parentela - prosegue Malinowski - si adeguano a questa logica cogente perché inizialmente essi descrivono legami biologici che poi si estendono ai legami di altra natura, in base a principi specifici e limitati" (1). In questa ottica l'adozione, in cui la rela­zione consanguinea è totalmente costruita, apparve allo studioso polacco, e a tutti gli antropologi che applicarono i suoi principi funzionalisti all'interpreta­zione dei sistemi di parentela, così problematica che per lo più preferirono sostenere che essa, dato il suo scarso rilievo statistico, era poco rilevante.

Dagli anni '60 tuttavia molti studi hanno dimostra­to che un'ampia gamma di forme di adozione è pre­sente in tutto il mondo, e molte documentazioni sto­riche si sono aggiunte a quelle etnografiche, met­tendo in luce che nel passato europeo l'adozione era una pratica assai diffusa. Questi documenti e questi dati hanno costretto molti antropologi legati alla concezione biologica della famiglia a cercare di spiegare l'adozione e ad abbandonare l'idea che si tratti di un fenomeno secondario e trascurabile nella storia delle istituzioni umane.

Le spiegazioni fornite dagli antropologi possono essere raggruppate secondo due direttrici. La prima e la più antica definisce l'adozione "la parentela compensatoria" e si basa sulla convinzione che, pur essendo un istituto presente in tutto il mondo, esso si trova in una data comunità solo nei casi in cui sia impossibile stabilire parentele attraverso i rapporti biologici: quando una coppia sia sterile, quando manchi un erede maschio, quando restano degli orfani privi di sostegni, ecc.

La seconda teoria è meno semplicistica ma non si distacca troppo dall'altra. Essa sostiene che, nono­stante si possa registrare un'ampia variabilità di situazioni, nonostante che passando da una cultura all'altra si noti come le reti sociali siano costruite con profonde differenziazioni, tutti i gruppi umani distin­guono tra relazioni reali e relazioni fittizie, con le prime ancorate alla eredità biològica e le seconde operanti su un piano puramente sociale.

Vorrei sia pure rapidamente portare alcuni esem­pi che dimostrino come ambedue le spiegazioni siano superficiali e fragili. Se confrontate con molti dati etnoantropologici, esse ingenerano il sospetto che applichino alla comunità mondiale una convin­zione divenuta dominante in Europa solo negli ultimi secoli. E questa convinzione ha invaso sia il pensie­ro scientifico che le opinioni popolari, è dilagata nel resto del mondo, in alcuni casi saldandosi e raffor­zando analoghi convincimenti, in altri casi contra­stando usi e costumi diversi, riducendo la loro importanza, facendoli spesso apparire sopravviven­ze arcaiche e non modalità alternative di affrontare il tema della genitorialità.

Rispetto alla prima spiegazione, quella che consi­dera l'adozione come una compensazione di una impotenza a generare, molti sono i gruppi umani in cui l'adozione è uno strumento importante usato dai gruppi familiari, dalle famiglie nucleari, dagli indivi­dui, per modellare l'identità sociale dell'intero grup­po. Così in Polinesia l'istituto dell'adozione è appli­cato in un numero di casi così elevato che non può avere niente a che fare con l'idea che esso possa svolgere una funzione vicaria rispetto alla procrea­zione biologica. Howard e Borofsky così riassumono i dati sulle adozioni polinesiane: «se paragonate ai dati occidentali, tanto la forma che la frequenza delle adozioni sono degne di nota: negli Stati Uniti l'adozione è da un punto di vista numerico pressoc­ché insignificante, coinvolgendo meno del 3% di tutti i bambini; la frequenza tipica della Polinesia coin­volge da un minimo di un quarto alla quasi totalità della popolazione. Per esempio, rispetto all'atollo di Rangiroa, nel 1970 il 35% delle famiglie aveva adot­tato bambini, e il 73% era stato coinvolto in pratiche di adozione. Nel 1976 a Funafuti il 30% delle fami­glie aveva bambini adottati, e la percentuale saliva al 50% nelle isole del gruppo Ellice; e uno studio complessivo ha sostenuto che solo il 2% degli adul­ti sposati non aveva avuto mai a che fare con prati­che di adozione" (2).

In altre aree, come ad esempio le zone rurali del Centro e del Sud America, è assai comune che un uomo indichi, accanto ai figli che ha procreato, un ampio numero di altri figli, che non solo alleva, con­sidera suoi e introduce alla vita sociale, ma fra i quali può scegliere l'erede dei suoi beni (3).

In questi esempi mi sembra evidente che l'adozio­ne non serva solo a dare sostegno e cure alle gio­vani generazioni, ma anche a stabilire una rete parentela ampia e interconnessa, un saldo sistema, sociale e affettivo insieme, che aiuta il gruppo ad affrontare le molte vicissitudini che contrassegnano una vita trascorsa nella periferia dell'economia mon­diale.

 

3. Genitorialità genetica e genitorialità sociale

Vorrei ora citare un'altra fondamentale differenza tra la genitorialità occidentale e la genitorialità pre­sente in altri gruppi umani: la dimensione tempora­le.

Per molti gruppi andini - ma concezioni analoghe si trovano in Oceania, in Asia e in Africa - non si diviene padre perché una notte si ha avuto un rap­porto sessuale con una donna, né perché si è nutri­to per un giorno il bambino. Un uomo comincia a divenire padre dell'essere che ha concepito quando vive con la donna per tutto il tempo della gravidan­za, avendo con lei frequenti rapporti sessuali e ali­mentando così il bambino man mano che cresce nel ventre della madre, prendendosi cura di lei prima, e del nuovo nato poi. E una donna non riceve l'appel­lativo, colmo di rispetto, di Mama, dopo il parto, ma solo dopo che ha lottato per soddisfare i bisogni della prole e dopo che l'ha educata in modo che sia socialmente accettata. Se il rapporto con il nuovo nato si limita ad essere il concepimento - per il padre e per la madre - e il parto - per la madre -, come sovente avviene, i genitori potranno in segui­to accampare i loro diritti solo molto parzialmente. In altre parole - e questo convincimento è presente in molti gruppi umani - il legame tra il corpo e l'identità sociale non si costituisce come un'entità immutabile al momento del concepimento, ma si produce gra­datamente, con fatica e applicazione: la prova di uno stabile e costante investimento, la presenza di uno sforzo e di un impegno tenace da parte di un adulto nella vita di un bambino, sono gli unici criteri per stabilire una piena genitorialità.

Nel pensiero occidentale, come ho accennato, la genitorialità naturale o biologica si determina in un solo, specifico momento; tutto quello che avviene dopo stabilisce relazioni metaforiche, giuridiche o simboliche, ma la biologia è l'unica materialità che viene presa in considerazione in modo rigidamente astorico. Con la sua insistenza su una nozione stret­tamente genetica della parentela fisica, il modello occidentale nega l'impatto della storia sul corpo e sul sé fisico, nega l'importanza delle tecniche cor­porali, della distribuzione dei cibi, delle. patologie e dello stress, che in ogni società producono deter­minate entità psicofisiche in determinati momenti storici.

Le origini di questo modello derivano da particola­ri orientamenti che rispecchiano interessi di genere e di classe. Se la natura altamente conservatrice delle politiche sessuali presente nelle interpretazio­ni date dai funzionalisti e dagli strutturalisti alle strut­ture di parentela è stata ampiamente dimostrata, è stato poco messo in luce la natura maschilista di questa enfasi sul rapporto sessuale come unico momento che determina la paternità. Essa riflette soprattutto la tradizionale concezione della vita della famiglia borghese dell'Ottocento, in cui gli uomini definivano il loro ruolo familiare soprattutto nei ter­mini dell'accesso al rapporto sessuale con la moglie e di un'autorità sui figli esercitata a distanza. Contatti affettivi, compiti quotidiani e familiari, gestione dell'emotività erano compiti delegati alle donne, considerati di nessun rilievo sociale e comunque estremamente sottovalutati.

Ma questa forma di mascolinità, in cui i contatti fisici ed emotivi sono canalizzati esclusivamente nel rapporto sessuale, in cui gli uomini assumono un ruolo attivo solo come figure autoritarie ma sono estremamente passivi sul piano dell'espressione delle emozioni e dei sentimenti, è sconosciuta pres­so molti gruppi umani: se oggi la troviamo, spesso dipende dal contatto, ormai presente da secoli, con la nostra cultura. In molti gruppi umani a differenza di quanto avviene nel nostro si lasciano uomini e donne liberi di sperimentare forme diverse di geni­torialità, ponendo in genere come limite e come regola la disponibilità economica.

Mi sembrerebbe importante domandarci perché respingiamo i dati antropologici ed etnografici, per­ché rifuggiamo dall'introdurli nelle nostre valutazioni e nei percorsi educativi, perché oscuriamo la natura storica e sociale della famiglia e riduciamo la sua funzione simbolica, sottolineando e sopravalutando solo i caratteri biologici di questa istituzione. Rispondere a questa domanda mi sembra importan­te perché a mio parere questa chiusura di fronte ad altri modelli, ad altre esperienze, nasconde la difesa di un localismo culturale, di un etnocentrismo socia­le ed economico, che respinge i cambiamenti più vivaci e vitali della società contemporanea (4).

 

4. Perché sviluppare le tendenze verso la genitorialità sociale

Non vorrei che questa difesa della genitorialità sociale venisse fraintesa: presso molti gruppi dove essa è difesa e sostenuta, la genitorialità è conside­rata un mezzo per accrescere potere e ricchezza dei gruppi familiari; così spesso i modelli di adozione si configurano in base alle ineguaglianze che permea­no la vita di molti gruppi: le donne non sposate, le giovani coppie spesso sono costrette dalle condizio­ni economiche ad affidare il controllo dei loro figli ad anziani più abbienti, a coppie più stabili. Così men­tre chi ha risorse economiche con le adozioni aumenta la propria rete parentale - e quindi il suo potere e i suoi legami affettivi - i più poveri perdono anche la gioia e il sostegno dei figli.

Non si tratta quindi di avanzare un modello contro l'altro, di vedere la salvezza nel modello della geni­torialità sociale o in quello della genitorialità biologi­ca, si tratta invece di valutare i modelli che le scien­ze sociali sono in grado di costruire sulle esperien­ze dei diversi gruppi umani, nelle loro reali potenzia­lità, verificandoli nella loro adattabilità ai contesti particolari e specifici della propria epoca e dei pro­blemi che essa è chiamata ad affrontare.

Vorrei che il paragone fra le elaborazioni che su alcuni aspetti fondamentali della vita umana - la genitorialità, la filiazione, l'identità sociale con i valo­ri ad essi connessi - hanno prodotto culture profon­damente diverse, sia soprattutto recepito come un esempio di una possibile utilizzazione dell'antropo­logia per disegnare una politica educativa che né cancelli le aspirazioni individuali né trascuri la diffu­sione di una conoscenza dinamica e pluralista di problemi che oggi hanno per sfondo l'umanità inte­ra. Oggi non possiamo più permetterci di ancorarci ad una visione della vita chiusa nell'ambito delle prospettive specifiche del proprio gruppo di apparte­nenza ma dobbiamo includere nelle nostre anche altre prospettive, altri punti di vista: non sto invocan­do un abbandono di propri valori e di proprie con­vinzioni, sto solo sostenendo che oggi i nostri valori e le nostre convinzioni vanno difesi confrontandoli con altri e proiettando le loro dinamiche su uno sfon­do che sappia abbracciare ambiti ampi e complessi.

Scendendo sul piano pratico mi domando: perché continuiamo ad educare bambini e bambine ad un modello di genitorialità soprattutto biologico, trascu­rando quasi completamente di sviluppare tendenze verso la genitorialità sociale? Ritengo invece che in una umanità afflitta da sovrapopolazione, miseria, malnutrizione, sarebbe estremamente importante diffondere una maggiore valorizzazione di altre accezioni del termine "fertilità", finora prevalente­mente considerato sinonimo di "fecondità", intesa come potenzialità o capacità riproduttiva. L'essere umano può essere fertile in molti modi: contribuen­do alla genitorialità sociale, indipendentemente dalle sue possibilità procreatrici, può esserlo nelle relazioni coniugali, familiari e sociali, può esserlo nell'arte e nella scienza; insomma dispiegando la sua fertilità in quella ricerca di produzione di senso che contraddistinguono la sua umanità.

Un'educazione del genere, un'operazione cultura­le tesa a questo fine che si diffondesse tramite i mezzi di comunicazione di massa ad un vasto pub­blico, potrebbe contribuire non poco a eliminare molte incomprensioni, farcite di luoghi comuni, di pregiudizi, di ataviche paure, che circondano le ado­zioni di bambini provenienti da altri gruppi culturali e che finiscono con il ripercuotersi inevitabilmente nei rapporti familiari ed amicali delle famiglie multietni­che.

 

5. Nuove identità e multiculturalità

È sempre più diffusa ormai la consapevolezza che il mondo di oggi è un mondo ambiguo e multivocale, in cui sempre maggiore è la difficoltà di descrivere le diversità umane all'interno di culture indipendenti. Se siamo spesso spinti da timori antichi e nuovi a chiuderci nei nostri limitati ambiti, se pervicacemen­te difendiamo i nostri beni rendendo più ostili le rela­zioni con le alterità, dobbiamo tuttavia sapere che ogni giorno di più tutti i gruppi umani si legano gli uni agli altri in uno stretto rapporto di interdipendenza che condiziona già il nostro presente e che condi­zionerà ancora di più il nostro futuro. Ogni anno di più la nostra speranza di sopravvivenza è legata ad una socialità che possa prima o poi abbracciare in qualche modo tutte le nazioni, tutte le società, tutti i gruppi. L'inquinamento supera frontiere e oceani, rende irrespirabile l'aria dei ghetti e dei quartieri resi­denziali delle nostre città e delle loro; i conflitti arma­ti scoppiano improvvisamente nel cuore delle nostre città, le sommosse urbane percorrono l'intero piane­ta. Le armi sempre più sofisticate rendono i conflitti difficilmente localizzabili, dagli effetti imprevedibili e l'idea di un cataclisma generale provocato dall'uomo non appare più una farneticazione malata.

Man mano che i gruppi umani crescono a dismi­sura - o almeno assumono misure ignote sinora nella storia della nostra specie - man mano che essi si scompongono, migrando in luoghi diversi, e si ricompongono in aggregati nuovi in seguito a nuovi incontri, man mano che i loro immaginari collettivi sono percorsi con grande rapidità da esperienze, immagini, idee, utopie, elaborate in altri luoghi e in altri tempi, la loro identità e la loro stessa storia si configurano in modo nuovo, travolgendo criteri e categorie considerati stabili e certi. Le emigrazioni, i soggiorni e i viaggi turistici, i campi dei rifugiati, le immagini degli avvenimenti di tutto il mondo, poste davanti agli occhi di tutti quotidianamente e con una frenesia inarrestabile dal ritmo incalzante, costitui­scono ormai una caratteristica essenziale della società contemporanea ed influenzano, in modo nuovo e con una intensità sinora sconosciuta, le politiche nazionali ed internazionali. II pianeta è per­corso incessantemente da idee, linguaggi, codici, immagini che nell'attraversarlo aggregano e/o disaggregano, in termini inattesi e totalmente nuovi, individui e gruppi. Negli anni in cui viviamo la tra­sversalità sembra assai spesso essere il nuovo con­cetto dominante: è come se nuove condizioni eco­nomiche, tecnologiche, politiche, facciano emergere nei nostri schemi interpretativi e per quel sorpren­dente e misterioso nesso che pare esistere tra rap­presentazione e vissuto, anche nella nostra quoti­dianità - come elementi basilari le trasversalità che legano tra di loro popoli e gruppi.

Se da un lato il radicamento, il localismo affasci­nano ancora milioni e milioni di individui, dall'altro si parla sempre più spesso di deterritorializzazione, di relazioni sociali prive di territorio, di rapporti cono­scitivi completamente scissi dalla presenza fisica dei nostri interlocutori. E allora le occasioni di incon­tri, offerte durante l'infanzia e l'adolescenza, devono moltiplicarsi, diversificandosi per luoghi e per situa­zioni, mescolando linguaggi, abitudini, comporta­menti; le conoscenze devono legarsi al passato e al tempo stesso aprirsi ai molti nostri presenti; gli ambienti, percorsi a livello reale e a livello simbolico, devono essere molteplici e fluidi, preparando gli individui ad appartenere a se stessi, alla comunità locale ma anche, se non soprattutto, al mondo (5).

In questa prospettiva aprire le nostre famiglie anche con forme di rapporto educativo diverse dal­l'adozione vera e propria - a rapporti profondi con culture diverse dalla nostra, significa partecipare ad un processo che se non sarà governato - o almeno temperato - dalla partecipazione solidale, dalla conoscenza empatetica, dalla valorizzazione della differenza, può lacerare l'umanità, dividendola ancora più drasticamente in integrati ed esclusi. Favorire che i nostri sistemi familiari accolgano al loro interno I'alterità, significa riportare nell'alveo dello scambio culturale i processi educativi, significa preparare sulla base di vissuti e di sentimenti l'in­contro con le alterità; e un ottimo catalizzatore di questo sforzo mi appare essere una strategia cultu­rale e un'azione politica che incentri il rapporto tra adulti appartenenti al mondo del benessere e bam­bini che vivono in una situazione di indigenza ma che contiene vasti patrimoni culturali.

Forse solo alimentando questi slanci, diffondendo il loro significato e il loro valore, dando ad essi la possibilità di realizzarsi anche con modalità più fles­sibili delle attuali, più dinamiche nel loro iter, sarà possibile costruire una metodologia che attui quel decentramento da sé, quell'abbandono dell'etno­centrismo, auspicato da decenni, ma assai lontano da essere attuato nella maggioranza delle culture.

 

6. Dinamiche interne alla famiglia multietnica

La nuova definizione di alcuni concetti antropolo­gici - cultura, identità etnica, etnia, modelli culturali - dimostra la necessità di ricostruire in modo più dinamico e complesso le mappe culturali che sinora ci hanno orientato: non è più possibile, come ho cer­cato di dimostrare, far coincidere etnie e territori in modo semplice e compatto; più persone vivono più territori e società locali e tradizionali convivono con società multiculturali e complesse.

Rispetto a questa nuova definizione del concetto di cultura, il processo di apprendimento di un indivi­duo in una data società assume andamenti comple­tamente nuovi rispetto al passato: si dissolve il punto di vista funzionalista di una cultura omogenea mentre emerge una cultura rappresentata da un flusso di cui è molto difficile stabilire i confini e gli argini, di cui non è possibile disegnare un quadro a priori, che accolga dentro di sé sollecitazioni conti­nuamente nuove e mutevoli. E le difficoltà di appren­dimento riguardano oggi tutti i tipi di famiglia, anche se ovviamente alcune condizioni ne rendono alcuni più vulnerabili e fragili.

E questo il caso delle famiglie che vivono il feno­meno dell'emigrazione, nelle quali il conflitto fra i membri è spesso determinato dai punti di vista diversi che essi stabiliscono sul processo di integra­zione nella nuova società e sui loro rapporti con quella originaria. Così il capofamiglia avrà delle due culture - quella del paese da cui proviene e quella del paese in cui è emigrato - una percezione diver­sa da quella che ne ha sua moglie: e già registriamo un primo livello di distonia nel progetto che propongono ai figli, spesso ulteriormente differenziato in base al loro sesso. A loro volta anche i figli si diffe­renziano tra loro - in base all'età, al sesso e alle per­sonali esperienze - e nei confronti dei genitori rispetto alle valutazioni che articolano rispetto alle due culture.

È sorprendente come queste dinamiche, comples­se ma a mio parere anche appariscenti, siano pres­socché ignorate, amalgamate fra loro, ricondotte a generici conflitti generazionali che vedono schiera­menti omogenei; non differenziate in base alle molte variabili che le determinano ed influenzano: il tipo di cultura di provenienza, il grado di integrazione in essa, i livelli di partecipazione ad una cultura sovra­nazionale, i livelli di istruzione e di partecipazione alla vita politica, le esperienze emigratorie e dell'in­serimento, il grado di marginalità sociale sperimen­tata nel corso della vita. E se queste variabili devo­no essere applicate già in modo differenziale ai membri della coppia parentale, altre se ne devono aggiungere per i membri delle giovani generazioni.

Se paragonata a questa complessità mi sembra che la situazione vissuta dalle famiglie multietniche sia caratterizzata da una maggiore semplicità: forse, se dedicassimo ad essa l'attenzione che merita non solo da un punto di vista normativo/assistenziale ma anche scientifico, potrebbe fornirci materiali assai utili per costruire percorsi di mediazione nei conflitti che le famiglie immigrate incontrano nei loro rap­porti.

Le famiglie multietniche compiono una scelta nei confronti della multiculturalità, anche se nella realtà essa è spesso taciuta, sottovalutata e l'incontro ricondotto non tanto nei termini di una integrazione quanto piuttosto nella speranza di una totale assimi­lazione del nuovo venuto. Sarebbe auspicabile un'a­zione preparatoria che esponendo una serie di casi rendesse esplicito il problema. Ed esso si pone sempre, sia nel caso che l'adottato abbia già consa­pevolezza della cultura originaria, sia nel caso in cui l'adozione avvenga prima che questa consapevo­lezza possa essersi organizzata in modo consape­vole. Se nel primo caso si tratta di regolare un vero e proprio incontro culturale, nel secondo si tratta di gestire un'appartenenza che negli anni della infan­zia e dell'adolescenza assumerà caratteri fantasma­tici che vanno anch'essi gestiti e sottratti all'area delle rimozioni.

Analogamente è possibile elencare in modo se non proprio parallelo almeno similare le difficoltà che incontrano nel processo di inserimento sia i ragazzi provenienti dalle adozioni internazionali che le seconde generazioni di immigrati. Ovviamente molte le differenze, dovute soprattutto tanto alle dif­ferenze sociali che è probabile che le connotino quanto all'isolamento che può, in molti casi, caratte­rizzare il percorso integrativo del primo gruppo rispetto alla maggiore coralità del secondo, ma vor­rei ugualmente che si intravedessero le possibili affinità, le probabili convergenze.

Come premessa voglio ribadire che il rapporto che

gli uni e gli altri vivono con la propria cultura d'origi­ne, il modo come l'apprendono dai genitori, dalle istituzioni scolastiche, dal gruppo amicale, dai rap­porti con gli altri gruppi etnici, non dovrebbe essere lasciato alla casualità ma dovrebbe essere gestito in modo organico, sottratto alle manipolazioni e ai pre­giudizi, alle esaltazioni e al disprezzo. E sarebbe auspicabile che questo modo divenisse patrimonio dell'intero gruppo cui appartengono: parenti, amici, compagni di classe, insegnanti, gruppo dei pari, col­leghi di lavoro, mezzi di informazione, amministra­tori.

 

7. I nodi problematici dei percorsi educativi multietnici

Vorrei ora succintamente elencare alcuni nodi pro­blematici specifici, rivelatori della complessità dei percorsi educativi multietnici:

- la probabile differenza somatica tra i genitori e figli nel primo gruppo, a cui corrisponde la differen­za somatica dell'intero gruppo immigrato e i membri della cultura ospite;

- gli stereotipi e i pregiudizi che proliferano su queste differenze somatiche, a cui con molta super­ficialità si fanno risalire differenze culturali e morali;

- la tentazione, nei genitori, di stabilire gerarchie fra la propria cultura e quella degli adottati che nelle famiglie degli immigrati si trasforma in un'esaltazio­ne della cultura originaria (proprio quella da cui con l'emigrazione si è fuggiti), opponendosi ai percorsi integrativi delle nuove generazioni, visti solo ed esclusivamente come tradimento e contaminazione;

- un possibile senso di inferiorità nei confronti dei figli, riferito dai genitori adottivi alla loro incapacità a procreare e dai genitori immigrati alla loro incapacità di integrarsi nella società originaria o nella società di arrivo.

Senza spingere ulteriormente il parallehsmo, mi preme mettere in luce il campo di turbolenze che la famiglia multietnica deve affrontare, riconducendolo, pur sottolineando la sua specificità, a piani più gene­rali che appartengono, sia pure in modo differenzia­to, con livelli di tensione e di drammaticità ovvia­mente profondamente diversi ad ognuno di noi, qua­lunque sia la nostra posizione sociale e familiare, a qualunque nazione o etnia facciamo riferimento.

 

8. Le competenze necessarie degli operatori delle adozioni

A conclusione vorrei ribadire la necessità che nella formazione degli operatori che a molti livelli e in differenti contesti - giuridico, normativo, educati­vo, psicologico - sono chiamati a monitorare le ado­zioni internazionali, sia presente una competenza nelle discipline demoetnoantropologiche.

Ho già fatto riferimento all'operazione generale che questi operatori, dotati di competenze antropo­logiche, dovrebbero svolgere per sensibilizzare l'o­pinione pubblica su alcuni temi generali, quali i nuovi orientamenti culturali della nostra società, il valore della genitorialità sociale considerato, la natura sim­bolica della famiglia e la sua connotazione culturale. Ora vorrei esaminare quale ruolo questa competen­za è in grado di svolgere applicandosi a situazioni concrete, di reali difficoltà che le adozioni interna­zionali presentano sotto il profilo del rapporto fra individui portatori di culture diverse.

Se non si vuole che un'appartenenza culturale altra costituisca un rimosso pesante da gestire, pro­duttore di incomprensioni dolorose, di timori immoti­vati - splendido terreno su cui si possono innestare anche disturbi relazionali di grave entità - la cono­scenza della cultura dell'adottato deve divenire patrimonio familiare. E la conoscenza deve essere accurata sia sul passato che sul presente, non indul­gendo in presentazioni, per lo più di maniera e stan­tie, di culture tradizionali, spesso lontane nel tempo; sarebbe invece importante evidenziare in questo percorso conoscitivo i rapporti reciproci che anche in passato ma soprattutto nel presente legano insie­me le due culture, e allo stesso tempo la maggio­ranza delle culture mondiali.

A questo piano generale, di impostazione teso a dare chiarezze e sicurezze reciproche, analogo in un certo senso a quello che va fatto per aprire anche alla genitorialità sociale il prestigio e l'autorevolezza che attribuiamo alla genitorialità biologica, va colle­gato un piano più quotidiano e minuto di conoscen­ze sulla cultura di provenienza dell'adottato. Ed esso è indispensabile soprattutto per i bambini e le bambine che giungono tra noi avendo già acquisito lingua, comportamenti, abitudini altre.

L'uso del tempo, l'occupazione dello spazio, il significato dei ruoli sessuali, generazionali e sociali, le gerarchie di gruppo e individuali, le categorie di purezza e di contaminazione, e molti altri nuclei fon­damentali per l'organizzazione della visione cultura­le della vita e dei suoi significati, si apprendono secondo modelli specifici per ogni gruppo culturale nei primi anni di vita: sono insegnamenti per lo più impliciti, connessi ad abitudini, tecniche corporee, usi alimentari, affetti, emozioni, appartenenti tutti alla routine quotidiana, e proprio per questo assimi­lati come naturali, vissuti come radicali e immodifi­cabili. Invece essi vanno individuati e svelati, ricon­dotti alla sfera della riflessione e della scelta, rico­nosciuti come deformazioni culturali, variabili da cul­tura a cultura, e all'interno della stessa cultura da epoca ad epoca, da gruppo a gruppo (6). E su que­sti temi le discipline demoetnoantropologiche hanno accumulato in cento anni di storia una grande quan­tità di materiale, sviluppando non solo la parte teori­ca e l'impostazione metodologica generale ma svol­gendo una miriade di etnografie regionali, di microetnografie dedicate a tutti i continenti.

Sono fermamente convinta che la conoscenza precisa e circostanziata di questa base culturale su cui si articola la personalità individuale, eviterebbe molti disturbi di comunicazione interpersonale che sono spesso presenti nelle, routines quotidiane di molte famiglie multietniche. Esse infatti possono costituire una causa continua di incomprensioni e di fraintendimento, costellando di attriti e di incertezze il rapporto educativo e nei casi più gravi minando addirittura il rapporto affettivo; proseguendo poi nel tempo, fondendosi con difficoltà provenienti da altri fattori e da analoghe incomprensioni con l'ambiente esterno alla famiglia, possono essere causa non banale di veri e propri disturbi nel processo di matu­razione psicologica e culturale dell'adottato.

 

 

 

(*) L'articolo rielabora un intervento svolto dall'Autrice ad un seminario di studio dal titolo "Cprimi passi della famiglia multietni­ca", organizzato dal centro nazionale di difesa e prevenzione sociale in collaborazione con la Regione Lombardia e tenutosi a Milano il 27 maggio 1996. L'articolo è ripreso dal n. 3, 1996, di Minorigiustizia, che ringraziamo per la gentile concessione.

(**) Professore ordinario di antropologia culturale, Dipartimento Scienze dell'educazione, Università di Bologna.

(1) B. Malinowski, «Parenthood - The Basis of Social Structure", in V. Calverton, S. Schmalhausen (eds.), The New Generation, New York, Macaulay, 1930: e, dello stesso Autore, "Prefazione" a R. Firth, Noi, Tikopia, Bari, Laterza, 1976.

(2) A. Howard, R. Borofsky (eds.), Developments in Polynesian Ethnology, Honolulu, University of Hawaii Press, 1989, p. 75.

(3) M. Weismantel, Food, Gender and Poverfy in the Ecuadorian Andes, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1988.

(4) M. Callari Galli (a cura di), Itinerari bioetici, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

(5) M. Callari Galli, "Orientamenti antropologici per la cultura contemporanea", in Pluriverso, n. 1, dicembre 1995; e, dello stes­so Autore, Lo spazio dell'incontro, Roma, Meltemi, 1996.

(6) M. Callari Galli, Antropologia culturale e processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1993.

 

 

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