UNA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA NELLA
FAMIGLIA ADOTTIVA MULTIETNICA (*)
MATILDE CALLARI GALLI (**)
1. Le due tipologie di famiglie
multietniche
Mi propongo di esaminare il tema
della famiglia adottiva multietnica alla luce delle conoscenze antropologiche.
Presenterò, pertanto, alcune considerazioni che nelle mie intenzioni
dovrebbero illustrare il contributo che le discipline etnoantropologiche sono
in grado di fornire sia alla comprensione del fenomeno rappresentato dalla
multietnicità presente in uno stesso nucleo familiare, sia alle proposte di
politiche e strategie di intervento che rispetto a questi nuclei possono essere
messe in atto.
Non indicherò di volta in volta
a quale livello - se a quello più conoscitivo o a quello più operativo - nella
mia valutazione i concetti, le notizie, gli itinerari metodologici che, sia
pure per brevi cenni, esporrò, si dovrebbero applicare. E questo sia perché è
compito difficile separare i due livelli sia perché sono convinta della loro
intrinseca specularità e della loro necessaria interconnessione.
Teoricamente è difficile
definire con proprietà la famiglia muttietnica: si potrebbe sostenere - e più
avanti ne spiegherò più diffusamente le motivazioni - che oggi tutte le
famiglie sono multietniche, in quanto esposte, nella loro esplicitazione di
modelli culturali e di sistemi di atteggiamenti/comportamenti, nella loro
proposizione di modelli educativi alla prole, nei loro vissuti quotidiani, ad
una influenza continua, diretta e/o virtuale, che proviene dalle mille culture
che oggi popolano le nostre città e i nostri schermi televisivi. E sotto questo
aspetto ritengo che molte delle considerazioni che esporrò possano essere utili
per ogni sistema familiare anche a quello apparentemente più ispirato ad un
rigido ed esclusivo monoculturalismo.
In modo proprio e specifico
tuttavia le famiglie multietniche presenti oggi nel nostro paese possono essere
fatte risalire a due tipologie: la prima riguarda i matrimoni e le convivenze
di coppie miste, la seconda le famiglie che scelgono di servirsi delle adozioni
internazionali ed
a queste ultime riferirò principalmente le mie considerazioni.
2. Accenni antropologici al tema
dell'adozione
L'adozione ha costituito per molti studiosi delle
relazioni parentali un grave dilemma, perché costituisce un'usanza che
contraddice una convinzione assai radicata in tutti gli studi dedicati ai
sistemi familiari, espressa sin, dagli anni '30 da Bronislaw Malinowski e mai
smentita. Malinowski scriveva: "i processi culturali tendono a seguire la
traiettoria dei drives biologici ed innati soprattutto nell'ambito dei sistemi
di parentela... Sono i fatti fisiologici che producono le istituzioni
puramente culturali. I termini di parentela - prosegue Malinowski - si adeguano
a questa logica cogente perché inizialmente essi descrivono legami biologici
che poi si estendono ai legami di altra natura, in base a principi specifici e
limitati" (1). In questa ottica l'adozione, in cui la relazione
consanguinea è totalmente costruita, apparve allo studioso polacco, e a tutti
gli antropologi che applicarono i suoi principi funzionalisti all'interpretazione
dei sistemi di parentela, così problematica che per lo più preferirono
sostenere che essa, dato il suo scarso rilievo statistico, era poco rilevante.
Dagli anni '60 tuttavia molti
studi hanno dimostrato che un'ampia gamma di forme di adozione è presente in
tutto il mondo, e molte documentazioni storiche si sono aggiunte a quelle
etnografiche, mettendo in luce che nel passato europeo l'adozione era una
pratica assai diffusa. Questi documenti e questi dati hanno costretto molti
antropologi legati alla concezione biologica della famiglia a cercare di
spiegare l'adozione e ad abbandonare l'idea che si tratti di un fenomeno
secondario e trascurabile nella storia delle istituzioni umane.
Le spiegazioni fornite dagli
antropologi possono essere raggruppate secondo due direttrici. La prima e la
più antica definisce l'adozione "la parentela compensatoria" e si
basa sulla convinzione che, pur essendo un istituto presente in tutto il mondo,
esso si trova in una data comunità solo nei casi in cui sia impossibile
stabilire parentele attraverso i rapporti biologici: quando una coppia sia
sterile, quando manchi un erede maschio, quando restano degli orfani privi di sostegni,
ecc.
La seconda teoria è meno
semplicistica ma non si distacca troppo dall'altra. Essa sostiene che, nonostante
si possa registrare un'ampia variabilità di situazioni, nonostante che passando
da una cultura all'altra si noti come le reti sociali siano costruite con
profonde differenziazioni, tutti i gruppi umani distinguono tra relazioni
reali e relazioni fittizie, con le prime ancorate alla eredità biològica e le
seconde operanti su un piano puramente sociale.
Vorrei sia pure rapidamente
portare alcuni esempi che dimostrino
come ambedue le spiegazioni siano superficiali e fragili. Se confrontate con
molti dati etnoantropologici, esse ingenerano il sospetto che applichino alla
comunità mondiale una convinzione divenuta dominante in Europa solo negli
ultimi secoli. E questa convinzione ha invaso sia il pensiero scientifico che
le opinioni popolari, è dilagata nel resto del mondo, in alcuni casi saldandosi
e rafforzando analoghi convincimenti, in altri casi contrastando usi e
costumi diversi, riducendo la loro importanza, facendoli spesso apparire
sopravvivenze arcaiche e non modalità alternative di affrontare il tema della
genitorialità.
Rispetto alla prima spiegazione, quella che considera
l'adozione come una compensazione di una impotenza a generare, molti sono i
gruppi umani in cui l'adozione è uno strumento importante usato dai gruppi
familiari, dalle famiglie nucleari, dagli individui, per modellare l'identità
sociale dell'intero gruppo. Così in Polinesia l'istituto dell'adozione è applicato
in un numero di casi così elevato che non può avere niente a che fare con
l'idea che esso possa svolgere una funzione vicaria rispetto alla procreazione
biologica. Howard e Borofsky così riassumono i dati sulle adozioni polinesiane:
«se paragonate ai dati occidentali, tanto la forma che la frequenza delle
adozioni sono degne di nota: negli Stati Uniti l'adozione è da un punto di
vista numerico pressocché insignificante, coinvolgendo meno del 3% di tutti i
bambini; la frequenza tipica della Polinesia coinvolge da un minimo di un
quarto alla quasi totalità della popolazione. Per esempio, rispetto all'atollo
di Rangiroa, nel 1970 il 35% delle famiglie aveva adottato bambini, e il 73%
era stato coinvolto in pratiche di adozione. Nel 1976 a Funafuti il 30% delle
famiglie aveva bambini adottati, e la percentuale saliva al 50% nelle isole
del gruppo Ellice; e uno studio complessivo ha sostenuto che solo il 2% degli
adulti sposati non aveva avuto mai a che fare con pratiche di adozione"
(2).
In altre aree, come ad esempio le zone rurali del
Centro e del Sud America, è assai comune che un uomo indichi, accanto ai figli
che ha procreato, un ampio numero di altri figli, che non solo alleva, considera
suoi e introduce alla vita sociale, ma fra i quali può scegliere l'erede dei
suoi beni (3).
In questi esempi mi sembra evidente che l'adozione
non serva solo a dare sostegno e cure alle giovani generazioni, ma anche a
stabilire una rete parentela ampia e interconnessa, un saldo sistema, sociale e
affettivo insieme, che aiuta il gruppo ad affrontare le molte vicissitudini che
contrassegnano una vita trascorsa nella periferia dell'economia mondiale.
3. Genitorialità genetica e genitorialità sociale
Vorrei ora citare un'altra fondamentale differenza
tra la genitorialità occidentale e la genitorialità presente in altri gruppi
umani: la dimensione temporale.
Per molti gruppi andini - ma concezioni analoghe si
trovano in Oceania, in Asia e in Africa - non si diviene padre perché una notte
si ha avuto un rapporto sessuale con una donna, né perché si è nutrito per un
giorno il bambino. Un uomo comincia a divenire padre dell'essere che ha
concepito quando vive con la donna per tutto il tempo della gravidanza, avendo
con lei frequenti rapporti sessuali e alimentando così il bambino man mano che
cresce nel ventre della madre, prendendosi cura di lei prima, e del nuovo nato
poi. E una donna non riceve l'appellativo, colmo di rispetto, di Mama, dopo il
parto, ma solo dopo che ha lottato per soddisfare i bisogni della prole e dopo
che l'ha educata in modo che sia socialmente accettata. Se il rapporto con il
nuovo nato si limita ad essere il concepimento - per il padre e per la madre -
e il parto - per la madre -, come sovente avviene, i genitori potranno in seguito
accampare i loro diritti solo molto parzialmente. In altre parole - e questo
convincimento è presente in molti gruppi umani - il legame tra il corpo e
l'identità sociale non si costituisce come un'entità immutabile al momento del
concepimento, ma si produce gradatamente, con fatica e applicazione: la prova
di uno stabile e costante investimento, la presenza di uno sforzo e di un
impegno tenace da parte di un adulto nella vita di un bambino, sono gli unici
criteri per stabilire una piena genitorialità.
Nel pensiero occidentale, come ho accennato, la
genitorialità naturale o biologica si determina in un solo, specifico momento;
tutto quello che avviene dopo stabilisce relazioni metaforiche, giuridiche o
simboliche, ma la biologia è l'unica materialità che viene presa in
considerazione in modo rigidamente astorico. Con la sua insistenza su una
nozione strettamente genetica della parentela fisica, il modello occidentale
nega l'impatto della storia sul corpo e sul sé fisico, nega l'importanza delle
tecniche corporali, della distribuzione dei cibi, delle. patologie e dello
stress, che in ogni società producono determinate entità psicofisiche in
determinati momenti storici.
Le origini di questo modello derivano da particolari
orientamenti che rispecchiano interessi di genere e di classe. Se la natura
altamente conservatrice delle politiche sessuali presente nelle interpretazioni
date dai funzionalisti e dagli strutturalisti alle strutture di parentela è
stata ampiamente dimostrata, è stato poco messo in luce la natura maschilista
di questa enfasi sul rapporto sessuale come unico momento che determina la
paternità. Essa riflette soprattutto la tradizionale concezione della vita
della famiglia borghese dell'Ottocento,
in cui gli uomini definivano il loro ruolo familiare soprattutto nei termini
dell'accesso al rapporto sessuale con la moglie e di un'autorità sui figli
esercitata a distanza. Contatti affettivi, compiti quotidiani e familiari,
gestione dell'emotività erano compiti delegati alle donne, considerati di nessun
rilievo sociale e comunque estremamente sottovalutati.
Ma questa forma di mascolinità, in cui i contatti
fisici ed emotivi sono canalizzati esclusivamente nel rapporto sessuale, in cui
gli uomini assumono un ruolo attivo solo come figure autoritarie ma sono
estremamente passivi sul piano dell'espressione delle emozioni e dei
sentimenti, è sconosciuta presso molti gruppi umani: se oggi la troviamo,
spesso dipende dal contatto, ormai presente da secoli, con la nostra cultura.
In molti gruppi umani a differenza di quanto avviene nel nostro si lasciano
uomini e donne liberi di sperimentare forme diverse di genitorialità, ponendo
in genere come limite e come regola la disponibilità economica.
Mi sembrerebbe importante domandarci perché
respingiamo i dati antropologici ed etnografici, perché rifuggiamo
dall'introdurli nelle nostre valutazioni e nei percorsi educativi, perché
oscuriamo la natura storica e sociale della famiglia e riduciamo la sua
funzione simbolica, sottolineando e sopravalutando solo i caratteri biologici
di questa istituzione. Rispondere a questa domanda mi sembra importante perché
a mio parere questa chiusura di fronte ad altri modelli, ad altre esperienze,
nasconde la difesa di un localismo culturale, di un etnocentrismo sociale ed
economico, che respinge i cambiamenti più vivaci e vitali della società
contemporanea (4).
4. Perché sviluppare le tendenze verso la
genitorialità sociale
Non vorrei che questa difesa della genitorialità
sociale venisse fraintesa: presso molti gruppi dove essa è difesa e sostenuta,
la genitorialità è considerata un mezzo per accrescere potere e ricchezza dei
gruppi familiari; così spesso i modelli di adozione si configurano in base alle
ineguaglianze che permeano la vita di molti gruppi: le donne non sposate, le
giovani coppie spesso sono costrette dalle condizioni economiche ad affidare
il controllo dei loro figli ad anziani più abbienti, a coppie più stabili. Così
mentre chi ha risorse economiche con le adozioni aumenta la propria rete
parentale - e quindi il suo potere e i suoi legami affettivi - i più poveri
perdono anche la gioia e il sostegno dei figli.
Non si tratta quindi di avanzare un modello contro
l'altro, di vedere la salvezza nel modello della genitorialità sociale o in
quello della genitorialità biologica, si tratta invece di valutare i modelli
che le scienze sociali sono in grado di costruire sulle esperienze dei
diversi gruppi umani, nelle loro reali potenzialità, verificandoli nella loro
adattabilità ai contesti particolari e specifici della propria epoca e dei problemi
che essa è chiamata ad affrontare.
Vorrei che il paragone fra le elaborazioni che su alcuni
aspetti fondamentali della vita umana - la genitorialità, la filiazione,
l'identità sociale con i valori ad essi connessi - hanno prodotto culture
profondamente diverse, sia soprattutto recepito come un esempio di una
possibile utilizzazione dell'antropologia per disegnare una politica educativa
che né cancelli le aspirazioni individuali né trascuri la diffusione di una
conoscenza dinamica e pluralista di problemi che oggi hanno per sfondo
l'umanità intera. Oggi non possiamo più permetterci di ancorarci ad una
visione della vita chiusa nell'ambito delle prospettive specifiche del proprio
gruppo di appartenenza ma dobbiamo includere nelle nostre anche altre
prospettive, altri punti di vista: non sto invocando un abbandono di propri
valori e di proprie convinzioni, sto solo sostenendo che oggi i nostri valori
e le nostre convinzioni vanno difesi confrontandoli con altri e proiettando le
loro dinamiche su uno sfondo che sappia abbracciare ambiti ampi e complessi.
Scendendo sul piano pratico mi domando: perché
continuiamo ad educare bambini e bambine ad un modello di genitorialità
soprattutto biologico, trascurando quasi completamente di sviluppare tendenze
verso la genitorialità sociale? Ritengo invece che in una umanità afflitta da
sovrapopolazione, miseria, malnutrizione, sarebbe estremamente importante
diffondere una maggiore valorizzazione di altre accezioni del termine "fertilità",
finora prevalentemente considerato sinonimo di "fecondità", intesa
come potenzialità o capacità riproduttiva. L'essere umano può essere fertile in
molti modi: contribuendo alla genitorialità sociale, indipendentemente dalle
sue possibilità procreatrici, può esserlo nelle relazioni coniugali, familiari
e sociali, può esserlo nell'arte e nella scienza; insomma dispiegando la sua
fertilità in quella ricerca di produzione di senso che contraddistinguono la
sua umanità.
Un'educazione del genere, un'operazione culturale
tesa a questo fine che si diffondesse tramite i mezzi di comunicazione di massa
ad un vasto pubblico, potrebbe contribuire non poco a eliminare molte
incomprensioni, farcite di luoghi comuni, di pregiudizi, di ataviche paure, che
circondano le adozioni di bambini provenienti da altri gruppi culturali e che
finiscono con il ripercuotersi inevitabilmente nei rapporti familiari ed
amicali delle famiglie multietniche.
5. Nuove identità e multiculturalità
È sempre più diffusa ormai la consapevolezza che il
mondo di oggi è un mondo ambiguo e multivocale, in cui sempre maggiore è la
difficoltà di descrivere le diversità umane all'interno di culture
indipendenti. Se siamo spesso spinti da timori antichi e nuovi a chiuderci nei
nostri limitati ambiti, se pervicacemente difendiamo i nostri beni rendendo
più ostili le relazioni con le alterità, dobbiamo tuttavia sapere che ogni
giorno di più tutti i gruppi umani si legano gli uni agli altri in uno stretto
rapporto di interdipendenza che condiziona già il nostro presente e che condizionerà
ancora di più il nostro futuro. Ogni anno di più la nostra speranza di
sopravvivenza è legata ad una socialità che possa prima o poi abbracciare in
qualche modo tutte le nazioni, tutte le società, tutti i gruppi. L'inquinamento
supera frontiere e oceani, rende irrespirabile l'aria dei ghetti e dei
quartieri residenziali delle nostre città e delle loro; i conflitti armati
scoppiano improvvisamente nel cuore delle nostre città, le sommosse urbane
percorrono l'intero pianeta. Le armi sempre più sofisticate rendono i
conflitti difficilmente localizzabili, dagli effetti imprevedibili e l'idea di
un cataclisma generale provocato dall'uomo non appare più una farneticazione
malata.
Man mano che i gruppi umani crescono a dismisura - o
almeno assumono misure ignote sinora nella storia della nostra specie - man
mano che essi si scompongono, migrando in luoghi diversi, e si ricompongono in
aggregati nuovi in seguito a nuovi incontri, man mano che i loro immaginari
collettivi sono percorsi con grande rapidità da esperienze, immagini, idee,
utopie, elaborate in altri luoghi e in altri tempi, la loro identità e la loro
stessa storia si configurano in modo nuovo, travolgendo criteri e categorie
considerati stabili e certi. Le emigrazioni, i soggiorni e i viaggi turistici,
i campi dei rifugiati, le immagini degli avvenimenti di tutto il mondo, poste
davanti agli occhi di tutti quotidianamente e con una frenesia inarrestabile
dal ritmo incalzante, costituiscono ormai una caratteristica essenziale della
società contemporanea ed influenzano, in modo nuovo e con una intensità sinora
sconosciuta, le politiche nazionali ed internazionali. II pianeta è percorso
incessantemente da idee, linguaggi, codici, immagini che nell'attraversarlo
aggregano e/o disaggregano, in termini inattesi e totalmente nuovi, individui e
gruppi. Negli anni in cui viviamo la trasversalità sembra assai spesso essere
il nuovo concetto dominante: è come se nuove condizioni economiche,
tecnologiche, politiche, facciano emergere nei nostri schemi interpretativi e
per quel sorprendente e misterioso nesso che pare esistere tra rappresentazione
e vissuto, anche nella nostra quotidianità - come elementi basilari le
trasversalità che legano tra di loro popoli e gruppi.
Se da un lato il radicamento, il localismo affascinano
ancora milioni e milioni di individui, dall'altro si parla sempre più spesso di
deterritorializzazione, di relazioni sociali prive di territorio, di rapporti
conoscitivi completamente scissi dalla presenza fisica dei nostri
interlocutori. E allora le occasioni di incontri, offerte durante l'infanzia e
l'adolescenza, devono moltiplicarsi, diversificandosi per luoghi e per situazioni,
mescolando linguaggi, abitudini, comportamenti; le conoscenze devono legarsi
al passato e al tempo stesso aprirsi ai molti nostri presenti; gli ambienti,
percorsi a livello reale e a livello simbolico, devono essere molteplici e
fluidi, preparando gli individui ad appartenere a se stessi, alla comunità
locale ma anche, se non soprattutto, al mondo (5).
In questa prospettiva aprire le nostre famiglie anche
con forme di rapporto educativo diverse dall'adozione vera e propria - a
rapporti profondi con culture diverse dalla nostra, significa partecipare ad un
processo che se non sarà governato - o almeno temperato - dalla partecipazione
solidale, dalla conoscenza empatetica, dalla valorizzazione della differenza, può
lacerare l'umanità, dividendola ancora più drasticamente in integrati ed
esclusi. Favorire che i nostri sistemi familiari accolgano al loro interno
I'alterità, significa riportare nell'alveo dello scambio culturale i processi
educativi, significa preparare sulla base di vissuti e di sentimenti l'incontro
con le alterità; e un ottimo catalizzatore di questo sforzo mi appare essere
una strategia culturale e un'azione politica che incentri il rapporto tra
adulti appartenenti al mondo del benessere e bambini che vivono in una
situazione di indigenza ma che contiene vasti patrimoni culturali.
Forse solo alimentando questi slanci, diffondendo il
loro significato e il loro valore, dando ad essi la possibilità di realizzarsi
anche con modalità più flessibili delle attuali, più dinamiche nel loro iter,
sarà possibile costruire una metodologia che attui quel decentramento da sé,
quell'abbandono dell'etnocentrismo, auspicato da decenni, ma assai lontano da
essere attuato nella maggioranza delle culture.
6. Dinamiche interne alla famiglia multietnica
La nuova definizione di alcuni concetti antropologici
- cultura, identità etnica, etnia, modelli culturali - dimostra la necessità di
ricostruire in modo più dinamico e complesso le mappe culturali che sinora ci
hanno orientato: non è più possibile, come ho cercato di dimostrare, far
coincidere etnie e territori in modo semplice e compatto; più persone vivono
più territori e società locali e tradizionali convivono con società
multiculturali e complesse.
Rispetto a questa nuova definizione del concetto di
cultura, il processo di apprendimento di un individuo in una data società
assume andamenti completamente nuovi rispetto al passato: si dissolve il punto
di vista funzionalista di una cultura omogenea mentre emerge una cultura
rappresentata da un flusso di cui è molto difficile stabilire i confini e gli
argini, di cui non è possibile disegnare un quadro a priori, che accolga dentro
di sé sollecitazioni continuamente nuove e mutevoli. E le difficoltà di apprendimento
riguardano oggi tutti i tipi di famiglia, anche se ovviamente alcune condizioni
ne rendono alcuni più vulnerabili e fragili.
E questo il caso delle famiglie che vivono il fenomeno
dell'emigrazione, nelle quali il conflitto fra i membri è spesso determinato
dai punti di vista diversi che essi stabiliscono sul processo di integrazione
nella nuova società e sui loro rapporti con quella originaria. Così il
capofamiglia avrà delle due culture - quella del paese da cui proviene e quella
del paese in cui è emigrato - una percezione diversa da quella che ne ha sua
moglie: e già registriamo un primo livello di distonia nel progetto che
propongono ai figli, spesso ulteriormente differenziato in base al loro sesso.
A loro volta anche i figli si differenziano tra loro - in base all'età, al
sesso e alle personali esperienze - e nei confronti dei genitori rispetto alle
valutazioni che articolano rispetto alle due culture.
È sorprendente come queste dinamiche, complesse ma a
mio parere anche appariscenti, siano pressocché ignorate, amalgamate fra loro,
ricondotte a generici conflitti generazionali che vedono schieramenti
omogenei; non differenziate in base alle molte variabili che le determinano ed
influenzano: il tipo di cultura di provenienza, il grado di integrazione in
essa, i livelli di partecipazione ad una cultura sovranazionale, i livelli di
istruzione e di partecipazione alla vita politica, le esperienze emigratorie e
dell'inserimento, il grado di marginalità sociale sperimentata nel corso
della vita. E se queste variabili devono essere applicate già in modo
differenziale ai membri della coppia parentale, altre se ne devono aggiungere
per i membri delle giovani generazioni.
Se paragonata a questa complessità mi sembra che la
situazione vissuta dalle famiglie multietniche sia caratterizzata da una
maggiore semplicità: forse, se dedicassimo ad essa l'attenzione che merita non
solo da un punto di vista normativo/assistenziale ma anche scientifico,
potrebbe fornirci materiali assai utili per costruire percorsi di mediazione
nei conflitti che le famiglie immigrate incontrano nei loro rapporti.
Le famiglie multietniche compiono una scelta nei
confronti della multiculturalità, anche se nella realtà essa è spesso taciuta,
sottovalutata e l'incontro ricondotto non tanto nei termini di una integrazione
quanto piuttosto nella speranza di una totale assimilazione del nuovo venuto.
Sarebbe auspicabile un'azione preparatoria che esponendo una serie di casi
rendesse esplicito il problema. Ed esso si pone sempre, sia nel caso che
l'adottato abbia già consapevolezza della cultura originaria, sia nel caso in
cui l'adozione avvenga prima che questa consapevolezza possa essersi
organizzata in modo consapevole. Se nel primo caso si tratta di regolare un
vero e proprio incontro culturale, nel secondo si tratta di gestire
un'appartenenza che negli anni della infanzia e dell'adolescenza assumerà
caratteri fantasmatici che vanno anch'essi gestiti e sottratti all'area delle
rimozioni.
Analogamente è possibile elencare in modo se non
proprio parallelo almeno similare le difficoltà che incontrano nel processo di
inserimento sia i ragazzi provenienti dalle adozioni internazionali che le
seconde generazioni di immigrati. Ovviamente molte le differenze, dovute
soprattutto tanto alle differenze sociali che è probabile che le connotino
quanto all'isolamento che può, in molti casi, caratterizzare il percorso
integrativo del primo gruppo rispetto alla maggiore coralità del secondo, ma
vorrei ugualmente che si intravedessero le possibili affinità, le probabili
convergenze.
Come premessa voglio
ribadire che il rapporto che
gli
uni e gli altri vivono con la propria cultura d'origine, il modo come
l'apprendono dai genitori, dalle istituzioni scolastiche, dal gruppo amicale,
dai rapporti con gli altri gruppi etnici, non dovrebbe essere lasciato alla
casualità ma dovrebbe essere gestito in modo organico, sottratto alle
manipolazioni e ai pregiudizi, alle esaltazioni e al disprezzo. E sarebbe
auspicabile che questo modo divenisse patrimonio dell'intero gruppo cui
appartengono: parenti, amici, compagni di classe, insegnanti, gruppo dei pari,
colleghi di lavoro, mezzi di informazione, amministratori.
7. I nodi problematici dei percorsi educativi
multietnici
Vorrei ora succintamente elencare alcuni nodi problematici
specifici, rivelatori della complessità dei percorsi educativi multietnici:
- la probabile differenza somatica tra i genitori e
figli nel primo gruppo, a cui corrisponde la differenza somatica dell'intero
gruppo immigrato e i membri della cultura ospite;
- gli stereotipi e i pregiudizi che proliferano su
queste differenze somatiche, a cui con molta superficialità si fanno risalire
differenze culturali e morali;
- la tentazione, nei genitori, di stabilire gerarchie
fra la propria cultura e quella degli adottati che nelle famiglie degli
immigrati si trasforma in un'esaltazione della cultura originaria (proprio
quella da cui con l'emigrazione si è fuggiti), opponendosi ai percorsi
integrativi delle nuove generazioni, visti solo ed esclusivamente come
tradimento e contaminazione;
- un possibile senso di inferiorità nei confronti dei
figli, riferito dai genitori adottivi alla loro incapacità a procreare e dai
genitori immigrati alla loro incapacità di integrarsi nella società originaria
o nella società di arrivo.
Senza spingere ulteriormente il parallehsmo, mi preme
mettere in luce il campo di turbolenze che la famiglia multietnica deve
affrontare, riconducendolo, pur sottolineando la sua specificità, a piani più
generali che appartengono, sia pure in modo differenziato, con livelli di
tensione e di drammaticità ovviamente profondamente diversi ad ognuno di noi,
qualunque sia la nostra posizione sociale e familiare, a qualunque nazione o
etnia facciamo riferimento.
8. Le competenze necessarie degli operatori delle
adozioni
A conclusione vorrei ribadire la necessità che nella
formazione degli operatori che a molti livelli e in differenti contesti -
giuridico, normativo, educativo, psicologico - sono chiamati a monitorare le
adozioni internazionali, sia presente una competenza nelle discipline
demoetnoantropologiche.
Ho già fatto riferimento all'operazione generale che
questi operatori, dotati di competenze antropologiche, dovrebbero svolgere per
sensibilizzare l'opinione pubblica su alcuni temi generali, quali i nuovi
orientamenti culturali della nostra società, il valore della genitorialità
sociale considerato, la natura simbolica della famiglia e la sua connotazione
culturale. Ora vorrei esaminare quale ruolo questa competenza è in grado di
svolgere applicandosi a situazioni concrete, di reali difficoltà che le
adozioni internazionali presentano sotto il profilo del rapporto fra individui
portatori di culture diverse.
Se non si vuole che un'appartenenza culturale altra
costituisca un rimosso pesante da gestire, produttore di incomprensioni
dolorose, di timori immotivati - splendido terreno su cui si possono innestare
anche disturbi relazionali di grave entità - la conoscenza della cultura
dell'adottato deve divenire patrimonio familiare. E la conoscenza deve essere
accurata sia sul passato che sul presente, non indulgendo in presentazioni,
per lo più di maniera e stantie, di culture tradizionali, spesso lontane nel
tempo; sarebbe invece importante evidenziare in questo percorso conoscitivo i
rapporti reciproci che anche in passato ma soprattutto nel presente legano
insieme le due culture, e allo stesso tempo la maggioranza delle culture
mondiali.
A questo piano generale, di impostazione teso a dare
chiarezze e sicurezze reciproche, analogo in un certo senso a quello che va
fatto per aprire anche alla genitorialità sociale il prestigio e
l'autorevolezza che attribuiamo alla genitorialità biologica, va collegato un
piano più quotidiano e minuto di conoscenze sulla cultura di provenienza
dell'adottato. Ed esso è indispensabile soprattutto per i bambini e le bambine
che giungono tra noi avendo già acquisito lingua, comportamenti, abitudini
altre.
L'uso del tempo, l'occupazione dello spazio, il
significato dei ruoli sessuali, generazionali e sociali, le gerarchie di gruppo
e individuali, le categorie di purezza e di contaminazione, e molti altri
nuclei fondamentali per l'organizzazione della visione culturale della vita e
dei suoi significati, si apprendono secondo modelli specifici per ogni gruppo
culturale nei primi anni di vita: sono insegnamenti per lo più impliciti,
connessi ad abitudini, tecniche corporee, usi alimentari, affetti, emozioni,
appartenenti tutti alla routine quotidiana, e proprio per questo assimilati
come naturali, vissuti come radicali e immodificabili. Invece essi vanno
individuati e svelati, ricondotti alla sfera della riflessione e della scelta,
riconosciuti come deformazioni culturali, variabili da cultura a cultura, e
all'interno della stessa cultura da epoca ad epoca, da gruppo a gruppo (6). E
su questi temi le discipline demoetnoantropologiche hanno accumulato in cento
anni di storia una grande quantità di materiale, sviluppando non solo la parte
teorica e l'impostazione metodologica generale ma svolgendo una miriade di
etnografie regionali, di microetnografie dedicate a tutti i continenti.
Sono fermamente convinta che la conoscenza precisa e
circostanziata di questa base culturale su cui si articola la personalità
individuale, eviterebbe molti disturbi di comunicazione interpersonale che sono
spesso presenti nelle, routines quotidiane di molte famiglie multietniche. Esse
infatti possono costituire una causa continua di incomprensioni e di
fraintendimento, costellando di attriti e di incertezze il rapporto educativo e
nei casi più gravi minando addirittura il rapporto affettivo; proseguendo poi
nel tempo, fondendosi con difficoltà provenienti da altri fattori e da analoghe
incomprensioni con l'ambiente esterno alla famiglia, possono essere causa non
banale di veri e propri disturbi nel processo di maturazione psicologica e
culturale dell'adottato.
(*) L'articolo rielabora un intervento svolto dall'Autrice ad un seminario di studio dal titolo
"Cprimi passi della famiglia multietnica", organizzato dal centro
nazionale di difesa e prevenzione sociale in collaborazione con la Regione
Lombardia e tenutosi a Milano il 27 maggio 1996. L'articolo è
ripreso dal n. 3, 1996, di Minorigiustizia, che ringraziamo per la gentile
concessione.
(**) Professore ordinario di antropologia culturale, Dipartimento
Scienze dell'educazione, Università di Bologna.
(1) B. Malinowski, «Parenthood -
The Basis of Social Structure", in V. Calverton, S. Schmalhausen (eds.), The New Generation, New York, Macaulay, 1930: e, dello stesso Autore, "Prefazione" a R. Firth, Noi, Tikopia, Bari, Laterza, 1976.
(2) A. Howard, R. Borofsky (eds.), Developments
in Polynesian Ethnology, Honolulu, University of Hawaii Press, 1989,
p. 75.
(3) M.
Weismantel, Food, Gender and Poverfy in the Ecuadorian Andes, Philadelphia,
University of Pennsylvania Press, 1988.
(4) M. Callari
Galli (a cura di), Itinerari bioetici, Firenze, La Nuova Italia, 1994.
(5) M. Callari Galli, "Orientamenti antropologici per
la cultura contemporanea", in Pluriverso, n. 1, dicembre 1995; e, dello
stesso Autore, Lo spazio dell'incontro, Roma,
Meltemi, 1996.
(6) M.
Callari Galli, Antropologia culturale e processi educativi, Firenze,
La Nuova Italia, 1993.
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