INCENTIVI E RIFORMA DEI TRASFERIMENTI DALLO STATO AGLI ENTI
LOCALI
ANNA PASCHERO
(*)
Nel n. 116, ottobre-dicembre 1996, abbiamo pubblicato
l'articolo "L'esperienza del Comune di Rivoli: scovare gli evasori e
ridurre le tasse" da cui risultava che, dopo aver affidato ad una ditta
privata, il censimento delle unità immobiliari (circa 40 mila) e aver
confrontato i dati relativi con i ruoli dei tributi, il Comune di Rivoli (52
mila abitanti) ha realizzato un maggior introito di circa 8 miliardi annui.
Sulla base della suddetta esperienza, l'Autrice rilevava
che, proiettando i risultati raggiunti, si poteva ipotizzare un recupero
annuale di risorse sull'intero territorio nazionale di ben 20 mila miliardi.
Pubblichiamo questo secondo intervento, ricordando che il
Comune di Rivoli (cfr. La Stampa del 23 ottobre 1997) ha deciso di assumere per
sei mesi 10 disoccupati (spesa complessiva di L. 150 milioni) con il compito di
incrementare la lotta all'evasione mediante l'aggiornamento dei dati catastali.
L'accentramento
del prelievo tributario in capo allo Stato, avvenuto con la riforma Visentini
del 1972, si proponeva principalmente intenti redistributivi del reddito
nazionale, andando a colmare il divario esistente tra aree ricche ed aree
povere del Paese per offrire sostegno allo sviluppo di queste ultime.
II tramonto dell'imposta di famiglia, che rappresentava
da anni la principale fonte autonoma di entrata per i Comuni, ha segnato, da
allora, la loro definitiva dipendenza finanziaria dallo Stato.
In un primo
periodo vennero soddisfatte le esigenze di spesa dei Comuni attraverso
trasferimenti misurati sulla "storia" della finanza comunale e dei
servizi che doveva gestire; solo nella metà degli anni '70, a seguito
dell'aumento dei passivi dei bilanci
locali, si pose rimedio con l'obbligo del pareggio
di bilancio, e via via le restrizioni e i vincoli, anche per effetto
dell'aumento esponenziale del debito pubblico nazionale, si moltiplicarono e
divennero sempre più incisivi. Ma nonostante la "tutela" dello Stato,
un quarto di secolo è risultato sufficiente per pesare gli effetti di una
riforma, certamente basata su principi condivisibili di equità e di solidarietà
nazionale, ma che, nella pratica, si è dimostrata invece uno strumento di
forte sperequazione, se non di inasprimento di una grave situazione di disuguaglianza
nel nostro Paese.
Le buone leggi e i validi principi,
come da sempre è stato dimostrato, non sono garanzia sufficiente per affrontare
e risolvere i problemi cruciali della nostra società; occorre una forte volontà
per passare dalle parole ai fatti, dotandosi di strumenti efficaci.
L'uguaglianza
del carico tributario è uno dei principi basilari su cui si fonda l'attuale
sistema tributario: ciò significa che, a parità di ricchezza, ogni cittadino
deve pagare la stessa quantità di tributo.
A questo
proposito esiste la teoria della capacità
contributiva, che accetta il principio della esenzione dei redditi minimi e
della discriminazione dei redditi.
Sulla base di
tale principio, nel nostro Paese, le imposte sono progressive, cioè aumentano
in misura più che proporzionale al reddito, perché una lira procura tanta
maggior utilità quanto minore è il reddito di cui essa fa parte.
Per applicare
correttamente tale principio, occorreva che lo Stato potesse esattamente
determinare l'incidenza con cui colpire ogni cittadino, eliminando fenomeni
come quello dell'evasione dalle imposte.
Ciò, alla luce
dei fatti, non è mai avvenuto, nonostante che tutti i Governi che si sono
finora succeduti abbiano dichiarato di voler debellare tale fenomeno. Così
come le disuguaglianze tra le diverse aree geografiche del Paese non sono state
colmate ed esistono ancora in maniera vistosa, nello stesso modo il sistema di
controllo si è rivelato assolutamente inefficiente, nonostante il supporto
delle Commissioni tributarie comunali:
la loro istituzione, prevista dalla legge Visentini, doveva porsi l'obiettivo
di "fornire all'Amministrazione finanziaria centrale notizie o fatti
utili ad accertare la reale capacità contributiva dei contribuenti".
Tali commissioni, vuoi per le implicazioni di natura
politica, vuoi per lo scarso potere che era loro consentito di esercitare,
finirono col disciogliersi ove erano state fatte nascere.
Per i suddetti
motivi, per la necessità di risanare i conti pubblici attraverso una maggior
responsabilizzazione dei centri di spesa periferici, e per le forti spinte
autonomistiche sostenute da Sindaci e amministratori locali di diversa
appartenenza politica, si sta ora ritornando gradualmente a modelli di decentramento
del prelievo fiscale.
Resta il
problema di come, correttamente, redistribuire le risorse sempre più esigue
agli enti locali, per colmare gli squilibri che derivano da una bassa capacità
di produzione del reddito e da una scarsità sulla base imponibile dei maggiori
tributi locali, come ad esempio I'ICI, Imposta comunale immobili.
Ma vediamo
qual è oggi la situazione, utilizzando alcuni dei dati del Ministero degli
interni raccolti sulla rete Internet, quale esempio.
A Torino la media
pro-capite dei contributi erariali trasferiti dallo Stato di natura ordinaria
(trasferimento ancora basato su dati storici) nel 1997 è di 350 mila lire per
ogni cittadino. A Rivoli supera di poco le 100 mila, contro le 200 mila dei
Comuni dell'hinterland torinese. Ma il dato più sconcertante è quello che
segue: la media pro-capite del contributo perequativo della fiscalità locale
(che serve a colmare il basso gettito delle
imposte comunali per la parte minima obbligatoria) risulta a Rivoli di 3.183
lire, contro le 9.543 di Torino e le 23.453 di Collegno.
Aggiungendo la parte restante di contribuzione (a sostegno investimenti,
ecc.), Rivoli raggiunge un valore pro-capite di risorse trasferite dallo Stato
pari a circa 230 mila lire, contro una media regionale di 390 mila lire, una
media nazionale di 459 mila lire, e quella del capoluogo, Torino, di 583 mila.
I soldi che lo Stato trasferisce nel 1997 a ciascun cittadino milanese
ammontano a 685 mila lire, contro le 484 mila destinate a ciascun romano.
Le amministrazioni che alla fine degli anni '70 avevano gestito le
risorse pubbliche con rigore, attivando meccanismi di controllo contro
un'eccessiva espansione della spesa, ricevono oggi risorse inferiori a quelle
dei Comuni che sono stati più spendaccioni, indipendentemente da una
valutazione sulla qualità dei servizi da entrambi prodotti.
La lettura di questi dati evidenzia che lo Stato "premia" le
amministrazioni che mantengono una bassa base imponibile degli immobili, che
non perseguono alcuna lotta all'evasione e che non attuano serie metodologie
di controllo di gestione della spesa comunale, inducendo gli Amministratori a
non preoccuparsene affatto, in quanto le risorse continuano a pervenire, tra
l'altro in misura maggiore, da parte dello Stato.
Ne deriva che l'attuale sistema di trasferimenti, anziché perequare, si
rileva fortemente sperequativo, disincentivante e deresponsabilizzante.
Oggi tira aria di riforma: anzi, la riforma c'è già, sulla carta, e
diventerà operativa in concomitanza con quella del sistema tributario locale.
Varata a fine giugno, prevede la costruzione di una sorta di
"redditometro" per i Comuni, non molto diverso da quello che il fisco
sta mettendo a punto per calcolare il reddito dei contribuenti. Verranno
valutati: numero delle abitazioni e dei componenti per famiglia, consumi di
energia elettrica, autorizzazioni esercizi pubblici, scatti telefonici,
autovetture, depositi in banca per abitante, ecc. La procedura messa a punto
consentirà di verificare periodicamente il fabbisogno dei diversi Comuni sulla
base dei servizi "indispensabili" e di quelli "maggiormente
diffusi" erogati. Saranno tenute in debito conto le situazioni di
"degrado" e la dimensione delle singole circoscrizioni comunali.
È previsto anche
un incentivo che premia lo sforzo
fiscale dei singoli enti.
Tale termine (tecnico e consolidato nella letteratura internazionale)
significa che un Ente compie un maggior sforzo rispetto ad un altro, quando
paga, a parità di base imponibile, un'imposta maggiore. Uno dei paradossi a cui
siamo abituati nel nostro Paese è il campo di macerie su cui si fonda oggi il
sistema dei tributi locali; per quanto concerne I'ICI, che è il maggior tributo
vigente, c'è la difficoltà di capire chi abbia pagato che cosa e quanto abbia pagato.
Questa incredibile situazione è prodotta dall'inefficienza del sistema di
riscossione - attualmente accentrato, su base nazionale, nelle mani dei concessionari
del servizio di riscossione.
Ma non meno grave risulta la situazione del catasto, strumento
indispensabile a determinare la base imponibile dell'imposta.
II decreto legislativo prende in considerazione il rapporto tra la
"base imponibile su cui viene corrisposta effettivamente I'ICI e quella
risultante dal Catasto" (si pensi che solo a Rivoli il censimento ha
rilevato che, rispetto agli immobili censiti sul territorio, il Catasto ne
rileva solo il 65%).
Consapevole della situazione, il legislatore ha allora previsto che,
fintanto che la suddetta metodologia non risulterà applicabile, si prenderanno
in considerazione, anziché i dati del Catasto, quelli denunciati nelle
dichiarazioni dei contribuenti.
Per concludere, il sistema premiante sarà fondato, ancora una volta, su
controlli di tipo formale (cioè si controlla chi ha fatto la dichiarazione),
senza stimolare forme di controllo più incisive su chi continua a risultare
completamente sconosciuto al fisco. È questa l'ennesima beffa nei confronti
dei contribuenti onesti e di quegli amministratori che hanno fatto dell'equità
e della giustizia fiscale la loro bandiera.
(*)
Assessore
alle finanze del Comune di Rivoli, Torino.
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