IL
PROGETTO UNIFICATO SUL COLLOCAMENTO OBBLIGATORIO AL LAVORO DEGLI HANDICAPPATI
ED IL RISCHIO DI UNA CONTRORIFORMA
Il 31 luglio
1997 è stato licenziato dal Senato il disegno di legge di riforma della legge
482/1968 che, attualmente, è all’esame della Commissione Lavoro della Camera,
relatore l’On. Carlo Stelluti.
Sembra che
non vi siano più molti spazi per emendare significativamente (come in realtà si
dovrebbe) il testo e, soprattutto, che manchi la voglia di approfondire il
problema.
Dopo quasi
trent’anni di convegni, seminari e proposte, si respira la volontà di andare
avanti ad ogni costo, purché si rifaccia la “482”. Anche se sarà peggio?
La domanda
non è pretestuosa. È evidente che il testo in discussione risente negativamente
dei tanti compromessi fatti per rispondere a spinte di interessi contrastanti,
al punto da registrare contraddizioni stridenti, come è il caso, ad esempio,
degli articoli 1 e 10, sui quali ci soffermeremo più avanti, nella speranza che
numerose organizzazioni e persone si attivino per evitare l'irreparabile.
Senza
contare che, per tacitare gli animi degli invalidi “storici” (ciechi, sordi,
invalidi del lavoro), tutte le loro tutele (e privilegi) restano inalterati,
vanificando così il tentativo di introdurre un collocamento mirato sulle
effettive capacità.
Infine, non
si può che restare allibiti di fronte ad una così alta percentuale di esoneri,
per cui molto poche saranno alla fine le imprese sottoposte agli obblighi di
legge.
Confindustria e cooperative sociali contro gli handicappati?
Tuttavia
l’aspetto che più ci preoccupa è il pesante clima politico e culturale, che sta
aleggiando ormai da troppo tempo attorno a questa riforma.
Sempre più
insistenti sono le notizie in merito a continue pressioni esercitate nei
confronti dei parlamentari impegnati nell’esame del testo di legge, affinché
accolgano le richieste della Confindustria – purtroppo, condivise da una
consistente parte del Terzo Settore – di utilizzare la cooperazione sociale
come l’unico luogo di lavoro per il collocamento delle persone handicappate.
In sintesi,
torna lo spettro della richiesta anticipata dall’allora Presidente della
Fondazione italiana per il volontariato, Pellegrino Capaldo, che nel n. 6,
giugno 1995, della “Rivista del
volontariato” chiedeva «una diversa
disciplina delle categorie protette, che consenta alle imprese di scegliere tra
l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un organismo produttivo che
dia lavoro a quelle “categorie”» (1).
Pertanto le
persone handicappate, comprese quelle in grado di esprimere una piena capacità
lavorativa, a giudizio insindacabile delle imprese, dovrebbero lavorare solo
presso “speciali organismi”, indicati chiaramente nelle cooperative sociali.
Purtroppo
Pellegrino Capaldo ha fatto proseliti. Infatti, condiziona pesantemente il
dibattito parlamentare anche la scelta emarginante dell’Ufficio provinciale del
lavoro e della massima occupazione (UPLMO) di Treviso che, in data 17 settembre
1996, ha stipulato un’intesa con il Consorzio Cooperative sociali “Intesa”,
l’Unindustria, l’Associazione nazionale costruttori edili ed affini,
l’Associazione commercianti e i Sindacati CGIL, CISL, UIL, intesa che,
interpretando in modo assolutamente distorto la legge 482/1968 sul collocamento
obbligatorio, blocca in modo definitivo l’integrazione dei soggetti
handicappati nelle normali aziende pubbliche e private (2).
Oggi, la
Confindustria vorrebbe semplicemente introdurre la formula applicata a Treviso,
come regola nella nuova legge di riforma del collocamento al lavoro degli
handicappati.
È un’ipotesi
allucinante, contraria ad ogni rispetto delle persone handicappate coinvolte,
alle quali viene negato il diritto alla libera scelta del posto di lavoro,
anche quando, nonostante la minorazione, sono in grado di raggiungere elevati
livelli di autonomia e di prestazione lavorativa.
Nell’editoriale
del n. 111, luglio-settembre 1995, di Prospettive
assistenziali, abbiamo evidenziato anche i rischi che interessano le stesse
cooperative e, per riflesso, ricadono ovviamente in modo negativo sugli
handicappati.
Innanzitutto
il peso contrattuale delle imprese è decisamente più forte di quello delle
cooperative, per cui quest’ultime sarebbero permanentemente indotte ad
accettare commesse a condizioni anche non remunerative. È quindi molto alto il
pericolo che gli stipendi degli handicappati, assunti come soci-lavoratori,
compresi quelli con piena capacità lavorativa, siano molto bassi e inferiori a
quelli degli addetti in aziende che svolgono la stessa attività. Già oggi
accade che ai soci-lavoratori delle cooperative sociali non si applichino i
contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato e
autonomo.
Nessuno
vuole negare il ruolo che la cooperazione sociale può svolgere nel campo della
formazione delle persone con handicap e del loro inserimento lavorativo,
soprattutto nei riguardi di coloro che, a causa delle loro condizioni
intellettive o fisiche, possono esprimere una capacità lavorativa ridotta.
Ma perché la cooperazione possa davvero svolgere un positivo ruolo di
impresa economica, e rispettare quindi le regole del mercato, tali inserimenti
devono essere misurati, contenuti e calibrati in modo da assicurare la
necessaria produttività.
Resta indiscusso, in ogni caso, che la cooperativa sociale va considerata
come una delle tante possibilità di lavoro, che la società deve offrire alle
persone handicappate in grado di lavorare. Guai se diventasse l’unica!
Vorremmo
sapere che cosa pensano e fanno le cooperative sociali serie, i sindacati dei
lavoratori, almeno quelli che si occupano anche degli handicappati disoccupati,
le associazioni di tutela: perché nessuno interviene a difendere le esigenze ed
i diritti dei soggetti handicappati?
I parlamentari fanno finta di non capire che non si può valutare la
capacità lavorativa solo con la percentuale di invalidità
Come avevamo già detto nell’articolo “Una vera riforma del collocamento al
lavoro degli handicappati è ancora lontana”, apparso sul n. 111,
luglio-settembre 1995 di Prospettive
assistenziali, «qualsiasi legge, per essere veramente rispondente alle esigenze
dei soggetti a cui si rivolge, dovrebbe assumere come riferimento fondamentale
la realtà delle cose. La nuova legge sul collocamento obbligatorio dovrebbe
recepire – finalmente – che gli attuali criteri relativi alla percentuale di
invalidità non sono utilizzabili per quanto concerne la capacità lavorativa.
Per questo, senza attendere necessariamente che sia risolto il pur importante
nodo dell’accertamento dell’invalidità, si può (e si deve, a nostro avviso) introdurre già ora un profondo cambiamento
nella nuova legge affiancando alla percentuale di invalidità la valutazione
della capacità lavorativa, che potrà essere piena, ridotta o nulla. Ci sono
infatti gli handicappati con piena capacità lavorativa, quelli con rendimento
limitato (capacità lavorativa ridotta) e, infine, coloro che, a causa della
gravità delle loro condizioni psico-fisiche, non sono assolutamente in grado di
svolgere alcuna attività lavorativa proficua (capacità lavorativa nulla)».
Ciò premesso, nel suddetto articolo veniva precisato quanto segue: «Si stabilirebbe così, finalmente, che:
1) il collocamento al lavoro riguarda
(ed è chiesto) solo per gli handicappati in grado di assicurare una resa
produttiva, anche se a volte ridotta;
2) vi sono persone handicappate che
non potranno mai essere avviate al lavoro, che hanno però diritto (oggi non
sancito) ad ottenere servizi diurni assistenziali».
Tale chiarezza non è presente nel testo in esame alla Camera, che annaspa
tra tentativi di innovazione e mantenimento dello status quo.
Alcuni aspetti potenzialmente innovativi sono introdotti nell’art. 1, in
particolare al punto 4, che prevede quanto segue: «L’accertamento delle condizioni di disabilità di cui al presente
articolo, che danno diritto di accedere al sistema per l’inserimento lavorativo
dei disabili, è effettuato dalle commissioni di cui all’articolo 4 della legge
5 febbraio 1992, n. 104, secondo i criteri indicati nell’atto di indirizzo e
coordinamento emanato dal Presidente del Consiglio dei ministri entro sei mesi
dalla data di entrata in vigore della presente legge. Il predetto atto di
indirizzo e coordinamento indica le integrazioni dei componenti delle
commissioni medesime, al fine di una valutazione, oltre che delle residue
capacità lavorative e delle abilità, anche degli strumenti e delle prestazioni
da porre in essere ai fini del sostegno dell’autonomia della persona e delle
sue possibilità di inserimento lavorativo. Con il medesimo atto vengono
stabiliti i criteri e le modalità per l’effettuazione delle visite sanitarie di
controllo della permanenza dello stato invalidante».
Purtroppo, all’art. 10, si abbandona totalmente il criterio della
valutazione della capacità lavorativa e si mantiene come unico riferimento la
percentuale di invalidità. Infatti, il punto 1 dell’art. 10 è così redatto: «Attraverso le convenzioni di cui
all’articolo 9 gli organi competenti alla stipulazione delle convenzioni stesse
possono concedere ai datori di lavoro privati, sulla base dei programmi
presentati e nei limiti delle disponibilità del Fondo di cui al comma 4 del
presente articolo:
a) la fiscalizzazione totale, per la
durata massima di cinque anni, dei contributi previdenziali ed assistenziali
relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base alla presente legge,
abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79 per cento o
minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle
annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra approvato
con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e
successive modificazioni;
b) la fiscalizzazione nella misura
del 50 per cento, per la durata massima di tre anni, dei contributi
previdenziali ed assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che,
assunto in base alla presente legge, abbia una riduzione della capacità
lavorativa compresa tra il 67 per cento e il 79 per cento o minorazioni
ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle citate nella
lettera a)».
Se permane questa impostazione si verificheranno due gravi situazioni di
ingiustizia:
1) molti “falsi invalidi”, con alte percentuali di invalidità, ma che
mantengono pressoché intatta la loro autonomia e la loro capacità lavorativa,
continueranno a godere delle agevolazioni previste, mentre gli handicappati
veri resteranno disoccupati;
2) una consistente quota di handicappati intellettivi, con buone capacità
lavorative, resterà esclusa dagli incentivi e, quindi, non troverà lavoro.
È noto che, nella prassi attuale, agli handicappati intellettivi avviabili
al lavoro, proprio per favorirne l’assunzione, si attribuisce una percentuale
di invalidità non elevata, in genere dal 46% al 60-65%.
Con quanto
proposto dall’art. 10, questi soggetti non avrebbero diritto a nessuna incentivazione,
pur essendo evidente a tutti, a causa delle loro difficoltà, la necessità di
incentivare la loro collocazione presso le aziende.
Viceversa,
sempre secondo l’art. 10, vengono riconosciuti incentivi consistenti (per ben
cinque anni) non solo ai soggetti con menomazioni che non intaccano la loro
capacità lavorativa, ma anche agli handicappati fisici-motori, ad esempio al
paraplegico in carrozzina che, pur avendo il 100% di invalidità, può lavorare
al pari di un suo collega, beninteso, purché sia inserito secondo il principio
del collocamento mirato.
Non è
possibile che i Parlamentari non abbiano compreso questo semplice ragionamento.
Ancora il 24
ottobre 1997, durante l’ennesimo seminario, promosso questa volta da
CGIL-CISL-UIL, a Milano (3), al quale è intervenuto tra gli altri anche l’On.
Carlo Stelluti (che, lo ricordiamo, è il relatore del testo in esame alla
Camera), venivano illustrati i vantaggi per l’azienda, oltre che per il
lavoratore, con il collocamento mirato, che si fonda principalmente sulla
valutazione della capacità lavorativa per la ricerca del posto più idoneo di
lavoro.
Lo stesso
art. 1, peraltro, come abbiamo già visto, contiene in sé le indicazioni
necessarie per far decollare questo nuovo sistema di avviamento al lavoro.
Infatti viene previsto, oltre all’accertamento delle condizioni di disabilità,
anche la valutazione delle residue capacità lavorative e delle abilità, per
individuare gli strumenti da attivare al fine di mettere la persona
handicappata nella condizione di poter svolgere al meglio la propria attività
lavorativa.
Per quanto
riguarda le disposizioni contenute nel testo già approvato dal Senato, temiamo
che vi sia un disegno preciso per escludere definitivamente chi, pur avendo
minori capacità, è comunque in grado di assicurare una resa produttiva certa e
continuativa, anche se limitata allo svolgimento di mansioni semplici.
Bisogna fare
presto e correre ai ripari affinché siano introdotti i correttivi necessari per
armonizzare gli articoli 1 e 10 del testo di legge e per impedire che siano
esclusi dalla possibilità di incentivi (e quindi in pratica dal collocamento al
lavoro) gli handicappati con una limitata autonomia e quindi ridotta capacità
lavorativa.
Proposta di modifica
Pertanto,
proponiamo che il punto 1 dell’art. 10 venga riformulato come segue (4): «1. Attraverso le convenzioni di cui
all’articolo 9, gli organi competenti alla stipulazione delle convenzioni
stesse possono concedere ai datori di lavoro privati, sulla base dei programmi
presentati e nei limiti delle disponibilità del Fondo di cui al comma 4 del
presente articolo:
a) la fiscalizzazione totale, per la durata
massima di cinque anni dei contributi previdenziali ed assistenziali, relativi
a:
1) portatori di handicap
intellettivo o psichico con capacità lavorative accertate dalla commissione di
cui all’art. 1, comma 4, della presente legge;
2) disabili fisici e sensoriali con
una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% accertata dalla
commissione di cui all’art. 1, comma 4, della presente legge; o minorazioni ascritte dalla prima alla
terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in
materia di pensioni di guerra approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 23 dicembre 1978 n. 915 e successive modificazioni;
b) la fiscalizzazione nella misura del 50 per
cento, per la durata massima di tre anni, dei contributi previdenziali ed
assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile che, assunto in base alla
presente legge abbia una riduzione della capacità lavorativa accertata
dalla commissione di cui al punto 4 dell’art. 1 della presente legge, compresa tra il 67% e il 79% o minorazioni
ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle citate nella
lettera a);
È necessaria una tutela aggiuntiva per gli handicappati intellettivi e
psichici
Nel testo di
riforma della legge 482/1968, è previsto l’obbligo per le aziende con più di 25
dipendenti di assumere lavoratori handicappati in misura del 7% sul totale dei
propri addetti.
Insistiamo
nel chiedere che il 2% di questa quota sia riservato agli handicappati
intellettivi e alle persone con minorazioni psichiche.
Ciò, al solo
scopo di assicurare realmente la loro collocazione al lavoro che, oltre a non
essere mai stata “protetta” con la legge 482/1968, è stata limitata anche da
altri provvedimenti. Ricordiamo, ad esempio, la circolare del Ministro del
lavoro De Michelis del 1985, che li aveva esclusi dal collocamento
obbligatorio, prevedendo per gli handicappati “psichici” una lista speciale a
parte.
Solo con la
sentenza n. 50/1990 della Corte costituzionale è stato possibile riportarli
nelle liste del collocamento obbligatorio.
Tuttavia,
nuovamente ad opera di una circolare del Ministro del lavoro di allora, On.
Carlo Donat-Cattin (5), è stata azzerata l’anzianità che avevano maturato nelle
liste speciali e, in pratica, gli handicappati intellettivi e le persone con
problemi psichiatrici, inseribili al lavoro, non hanno più avuto alcuna
speranza di essere avviati alle aziende tramite la chiamata del collocamento.
Infatti, i
soli avviamenti realizzati sono frutto di progetti di lavoro predisposti dai
servizi degli enti locali, ma numericamente non in grado di soddisfare la
domanda di lavoro delle centinaia di soggetti iscritti da molti anni nelle
liste del collocamento obbligatorio.
(1) Cfr. l’editoriale del n. 111, luglio-settembre 1995
di Prospettive assistenziali “La
Fondazione italiana per il volontariato non vuole che handicappati e
svantaggiati lavorino nelle normali aziende”.
(2) Cfr. “Fuori gli handicappati dalle normali aziende di
Treviso”, ibidem, n. 116,
ottobre-dicembre 1996.
(3) Cfr. M. Lupi, “Disabili ed inserimento lavorativo:
dall’obbligo alle pari opportunità”, in Il
Subvedente, n. 4, dicembre 1997.
(4) In carattere normale sono riportate le parti che a
nostro avviso dovrebbero essere inserite.
(5) Circolare n. 468/M92, prot. n. 3832 del 28 marzo 1990
del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Direzione generale per
l’impiego, Div. III, Roma.
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