Prospettive assistenziali, n. 121, gennaio-marzo 1998

 

 

Notiziario dell'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie

 

 

SINTESI DEL PRIMO CONVEGNO EUROPEO SULL'ADOZIONE

 

La difficile realizzazione di un diritto

 

Crescere in una famiglia è un diritto inalienabile di tutti i bambini; un diritto forse ovvio eppure troppo spesso disatteso. Se ne è discusso nell'ambito del convegno europeo: "Bambini senza famiglia e ado­zione: esigenze e diritti - Legislazione ed esperien­ze europee a confronto" tenutosi a Milano il 15 e 16 maggio 1997. Organizzato dall'Istituto italiano di medicina sociale, dall'Associazione nazionale fami­glie adottive e affidatarie, dalla Scuola dei Diritti "Daniela Sessano" dell'ULCES e dalla rivista "Prospettive assistenziali", il convegno ha affrontato i temi più delicati legati alla mancanza di una fami­glia e alle sue conseguenze, al ruolo dei soggetti istituzionali e delle risorse private nel trovare solu­zioni valide, al difficile dialogo fra culture diverse, alla consapevolezza dei figli adottivi e alla struttura­zione dei loro rapporti interpersonali, ai traffici di chi specula sulla sofferenza e alle normative che ogni paese, e molti paesi insieme, si sono date per cer­care di dare risposta a quello che, da sempre, è un grave problema di tutte le comunità.

Un viaggio nel mondo dell'adozione iniziato con un bel messaggio dell'Arcivescovo di Milano, Cardinale Carlo Maria Martini, che ha sottolineato come la genitorialità adottiva significhi, a tutti gli effetti, essere genitori autentici di un bambino non procreato, e ha posto l'accento sul ruolo strutturan­te e di ricostruzione di rapporti affettivi validi di cui l'adozione è portatrice (1).

A queste considerazioni ha fatto eco la relazione di Paola De Blasio, ordinario di psicologia dello svi­luppo all'Università Cattolica di Milano, che ha illu­strato con estrema precisione le disastrose conse­guenze delle carenze affettive sulla personalità in evoluzione di un bambino. I mille segnali che ogni giorno giungono al bambino sono responsabili della qualità del suo rapporto con gli adulti (violenze, abusi, comportamenti denigratori, ecc.): il bambino può essere gravemente danneggiato, soprattutto nella sua capacità empatica, e può perdere sicurez­za e fiducia nei confronti degli adulti. Può allora svi­luppare un'idea di sé negativa, rispondendo con manifestazioni di rabbia e con l'incapacità di aderire alle regole, favorendo così il verificarsi di altre espe­rienze negative, generate proprio dal suo comporta­mento, per esempio nell'ambiente scolastico. A ciò si aggiunga che alcuni elementi, come il ricovero in istituto o la separazione dai genitori, possono aggra­vare le conseguenze dei messaggi negativi.

Quel bambino ha allora bisogno di esperienze affettive strutturanti che possono parzialmente com­pensare i messaggi incongrui ricevuti, ma non è detto che saprà accettare, da subito, le successive

offerte di affetto; se adottato, potrebbe inizialmente avere difficoltà ad instaurare un rapporto coinvol­gente con i suoi genitori.

Certamente non è facile intervenire su situazioni di disagio così complesse, ma è compito specifico degli enti locali, secondo Alfredo Carlo Moro, diret­tore del Centro nazionale per la tutela dell’infanzia, elaborare politiche sociali globali, focalizzate sull'in­tero nucleo familiare visto come soggetto unitario, senza privilegiare interventi su una sua componen­te rispetto alle altre: ad esempio, non è pensabile che si intervenga su un genitore portatore di una grave patologia psichiatrica senza prendere in con­siderazione i gravi problemi che questa situazione genera nel figlio. Occorre anche che non si pensi soltanto a risposte tecnicamente corrette (aiuti eco­nomici, assistenza domiciliare...). Un intervento organico e costruttivo da parte dei servizi dovrebbe tendere ad individuare le risorse che la famiglia stessa può mettere in campo per superarle.

Se è necessario un affidamento eterofamiliare, questo deve essere utilizzato, nell'ambito di un pro­getto organico, solo se esiste ancora un legame significativo, ma la situazione non consente la per­manenza del bambino in famiglia, e soprattutto quando è realmente prevedibile il recupero della funzione educativa da parte dei genitori; se vicever­sa questo recupero non è più possibile, e non esiste più un legame significativo, è necessario ricorrere all'adozione, rinunciando a utilizzare l'affidamento come un comodo strumento per evitare decisioni dif­ficili e per non contrastare l'imperante cultura del legame di sangue o, peggio ancora, come strumen­to terapeutico per l'adulto.

La comprensione nei confronti di quest'ultimo non può significare disattendere il diritto del bambino, per il quale i lunghi tempi troppo spesso connessi a un improbabile recupero dei genitori sono pericolosi.

Agli operatori dei servizi spetta il difficile compito di assicurare alla famiglia un valido sostegno, che non si esaurisca in qualche sporadica visita di con­trollo, ma che si traduca in un aiuto concreto alla famiglia soprattutto nell'inserimento del bambino nel contesto sociale.

I magistrati minorili, a differenza dei giudici penali, non sono chiamati a giudicare un passato già con­cluso, bensì ad assumere decisioni che consentano di ricostruire un futuro che rischia di essere compro­messo.

In questa azione i giudici non sono affatto aiutati, il più delle volte, dall'opinione pubblica e soprattutto dai mezzi di informazione che, ad onta di tutti i codi­ci di autoregolamentazione, in questi anni hanno continuato, nonostante un maggiore rispetto della riservatezza, a trattare l'adozione e tutti gli interven­ti sui bambini come notizie da vendere, senza preoccuparsi della correttezza delle informazioni e soprattutto delle loro conseguenze sulla vita delle famiglie coinvolte. È quanto ha illustrato Alessandro Beretta Anguissola, presidente dell'Istituto italiano di medicina sociale, in una documentata relazione, nella quale ha denunciato la scarsa preparazione, specifica dei giornalisti riguardo alle reali problema­tiche dell'adozione, regolarmente ignorate, e le campagne di stampa mirate a far passare come diritto dei bambini una deregulation dell'adozione chiesta da più parti e funzionale in realtà solo agli interessi degli adulti, che vedono l'adozione come un proprio diritto.

 

Adozione e religione

 

L'adozione di un bambino, soprattutto se prove­niente da un paese diverso dal nostro, pone molti problemi generati dal contatto fra contesti culturali e religiosi diversi, e anche dall'inserimento del nuovo arrivato nel contesto sociale che lo accoglie.

II confronto fra fedi religiose diverse - affrontato in una tavola rotonda coordinata da Livia Pomodoro, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano - è certamente un aspetto da non sottovalutare nell'a­dozione internazionale. Don Giannino Piana, docen­te di etica cristiana presso l'Università di Urbino, rile­va che nel Vangelo è riscontrabile un forte ridimen­sionamento dei legami biologici, cioè una loro relati­vizzazione; la tradizione ecclesiale successiva, però, si differenzia dal Cristianesimo delle origini e dà enorme rilevanza ai legami di sangue e alla fecondità procreativa, identificando il matrimonio come una unione fatta per il bene della specie umana. In quest'ottica la procreazione è vista come fine primario del matrimonio, con un forte svilimento della sessualità, riscattata solo dal suo fine procrea­tivo. II Concilio Vaticano li, d'altra parte, distingue fra senso e fine del matrimonio e vede in questo sacramento uno stato di vita in cui due persone cre­scono nella comunione dell'amore reciproco. In questo quadro la fecondità procreativa è positiva soltanto se è espressione d'amore e di per sé non è altro che una delle mille forme possibili di fecondità. Adozione e affido, quindi, sono altre forme di fecon­dità. Questa concezione si scontra con il Codice di diritto canonico, che stabilisce la nullità del matrimo­nio per chi non desidera figli. La preoccupazione della Chiesa è, dunque, ancora troppo mirata sulla fecondità procreativa, mentre la prospettiva dovreb­be essere quella di una fecondità allargata: andreb­be cioè privilegiata l'accoglienza di persone già nate che sono soggetto di diritti.

Secondo Giuseppe Laras, Rabbino Capo di Milano, docente di pensiero ebraico presso l'istituto superiore di studi ebraici di Milano, il problema del­l'adozione investe tutta la società e qualsiasi religio­ne non può che considerare positivamente l'adozio­ne, in quanto il presupposto della famiglia è l'amore. Laras cita in proposito il celebre passo del libro dei Re in cui Salomone, per dirimere la contesa fra due donne che rivendicano la maternità di un unico bam­bino, finge di voler tagliare il figlio a metà; una delle due acconsente, mentre l'altra lo prega piuttosto di dare il bambino alla sua rivale: la madre del bambi­no è quindi quest'ultima. Prova di maternità è l'amo­re, per cui non si può fare riferimento solo alla maternità e paternità biologiche. L'adozione, secon­do il rabbino, è una valida alternativa ai brefotrofi e riferisce che il mondo ebraico ha sempre puntato molto sulla prevenzione dell'abbandono, soprattutto all'interno delle comunità circoscritte.

Nel mondo ebraico si verificano, pochi casi di abbandono; soltanto dopo la seconda guerra mon­diale e l'Olocausto si sono verificate molte adozioni, in Italia ma anche in America. In altri contesti dram­matici (bambini frutto di stupri, che vengono abban­donati) si verificano casi di adozione; questa avvie­ne in ogni caso con l'accoglienza totale del bambino all'interno della nuova famiglia.

In Israele la legge sull'adozione del 1960/61 stabi­lisce che il rapporto fra adottante e adottato è un rapporto filiale a tutti gli effetti. L'informazione al figlio adottivo viene considerata caso per caso, ma nella maggior parte dei casi il figlio viene informato il più presto possibile della sua situazione. Le coppie adottive sono in generale coppie senza figli e i bimbi adottati sono ben inseriti nell'ambiente sociale e nella scuola. II rabbino conclude, quindi che tutti hanno il diritto di avere una famiglia e tutti hanno il dovere di dare amore.

Kaled Fouad Allam, islamologo, docente presso le Università di Trieste e di Urbino, parte dalla consi­derazione che in gran parte del mondo islamico il sistema della parentela e l'identità della famiglia sono in crisi. Nel mondo islamico due istanze rego­lano la vita dell'individuo: da un lato il fenomeno teo­logico vero e proprio, dall'altro l'esistenza di un cor­pus giuridico del diritto musulmano suddiviso in quattro scuole di pensiero, che funge anche da ele­mento di strutturazione della parentela. Per quanto concerne l'adozione, l'Islam impedisce il riconosci­mento dei figli nati fuori dal matrimonio e dunque l'a­dozione stessa. È preminente, all'origine della strut­tura della parentela, la categoria del Nassab, cioè il legame di sangue che riconosce l'appartenenza a una tribù o a un clan. II figlio è pertanto il veicolo che porta al controllo della struttura della parentela e alla continuità della discendenza. Molti codici contengo­no un capitolo (Taffalah = accoglimento legale) che consente il riconoscimento di un figlio adottivo. Si tratta di una tecnica giuridica attraverso la quale si ricongiunge il diritto all'appartenenza, purché chi accoglie il bambino sia un buon musulmano (art. 118 del codice civile algerino). II diritto testamenta­rio dell'Islam è però estremamente complesso: in presenza di Taffalah, il bambino può ereditare un terzo dei beni. La Taffalah è meglio accettata quan­do si conoscono i genitori o almeno uno dei due, nel qual caso il bambino ne mantiene il cognome, men­tre è più difficile se i genitori sono sconosciuti.

 

L'integrazione

 

II problema dell'integrazione non è soltanto di ordi­ne religioso. Fulvio Scaparro pone l'accento sulla preoccupante recrudescenza di un razzismo e di tante forme di integralismo che minacciano la convi­venza civile. In città sempre più estranee ai loro stessi abitanti, il diverso, di cui aver paura o contro cui combattere nel tentativo di annientarlo, non è soltanto l'immigrato portatore di un modello cultura­le diverso, ma diventa addirittura chi abita in un palazzo diverso dal nostro. La fertilità del conflitto non eluso, ma affrontato serenamente nell'intento di superarlo, di "andare insieme altrove", per conoscere e comprendere realtà non meno sconosciute all'adulto che al bambino, rischia di essere schiac­ciata dall'irrigidimento delle relazioni sociali. La stessa democrazia dei rapporti familiari, fatta anche di conflitti senza sopraffazioni, che configura la fami­glia come luogo di scelta e di crescita, può essere, in questa accezione, sostituita da una famiglia inte­sa come luogo del dovere e del legame di sangue, cui può conseguire un irrigidimento dei rapporti che rischia di provocare fratture irreparabili, o al contra­rio l'allentamento estremo dei legami e della signifi­catività dei rapporti, cioè la disarticolazione totale.

Anche i soggetti istituzionali, come la scuola, deputati a svolgere un'importante funzione educati­va, sembrano non avere ancora gli strumenti neces­sari per favorire e governare una corretta integra­zione del figlio adottivo nel contesto sociale.

Una integrazione corretta parte, come sottolinea Giorgio Chiosso, direttore del Dipartimento di scien­ze dell'educazione dell'Università di Torino, dal rispetto della diversità - etnica, sociale, culturale - del bambino adottivo all'interno della comunità sco­lastica che lo accoglie. Ma sia le normative scolasti­che - troppo lente a recepire le esigenze di una società in rapida evoluzione - sia i libri di testo - ancora troppo legati a modelli familiari stereotipati - sia infine l'insufficiente aggiornamento dei docenti su queste tematiche, fanno sì che sia a tutt'oggi molto complessa e soprattutto affidata alla cultura e alla sensibilità del singolo docente la realizzazione di un percorso didattico utile ad affrontare corretta­mente la situazione familiare dei figli adottivi, in modo che ne risulti un arricchimento per l'intera comunità.

 

Normative nazionali e internazionali

 

Nonostante un quadro culturale sostanzialmente involutivo, le normative internazionali, a partire dalle convenzioni per approdare alle varie normative nazionali, consacrano l'adozione quale istituto sociale pensato prioritariamente per il bambino.

Secondo il Consigliere d'appello Massimo Dogliotti, nelle quattro convenzioni ad oggi approva­te in sede internazionale sono sanciti i diritti fonda­mentali del minore come quello di non essere allon­tanato dai genitori se non nel suo esclusivo interes­se (New York 1979), quello ad essere ascoltato e difeso nell'ambito di processi che lo riguardano, come le cause di separazione fra i genitori (Strasburgo 1996), i diritti riguardanti i minori adot­tati, nel tentativo di armonizzare le normative euro­pee sull'adozione (Strasburgo 1967) e di regola­mentazione dell'adozione internazionale stroncando o quanto meno ridimensionando il traffico di bambi­ni (L'Aja 1993).

La normativa italiana, in fatto di adozione interna­zionale, non è stata finora in grado di controllare effettivamente l'ingresso illecito in Italia di minori stranieri; a questo riguardo la prossima legge di rati­fica della Convenzione dell'Aja dovrebbe costituire un efficace strumento di controllo.

Proprio i mutamenti nei flussi di provenienza dei bambini adottati aiutano a comprendere quali siano i fenomeni economici, politici e sociali che stanno alla base dell'adozione internazionale la cui acce­zione culturale ha subito da vent'anni a questa parte, nei paesi occidentali, un radicale rovescia­mento. Chantal Saclier, segretaria generale del Servizio sociale internazionale di Ginevra, ha trac­ciato un quadro puntuale di questi mutamenti.

Partendo dalla locuzione "Paesi in via di sviluppo" molto usata negli anni settanta, Saclier chiarisce che quella espressione, oggi sostituita da un più pragmatico "Paesi di origine", aveva allora a suo fondamento culturale una presa di coscienza e una nascente corrente di solidarietà nei confronti di paesi economicamente e socialmente svantaggiati, unita alla consapevolezza delle responsabilità che i paesi occidentali avevano nei loro confronti. In quel contesto l'adozione internazionale si sviluppò rapi­damente grazie anche alla concomitanza di altri tre fattori quali la crescente accettazione dell'istituto dell'adozione, la riduzione dei bambini adottabili nei paesi industrializzati dovuta a mutamenti sociosani­tari e a politiche demografiche, la guerra del Vietnam e lo sviluppo dell'adozione dei "bambini della guerra". Dal 1975, poi, anche l'America latina si è aggiunta al novero dei paesi di origine. Da quel momento, più volte sono mutati gli scenari interna­zionali e con essi la geografia dei paesi di origine dei bimbi adottati. All'Europa orientale, le cui frontiere si sono aperte all'adozione all'indomani della caduta del muro di Berlino (1990), si sono poi aggiunti altri paesi dell'Asia (Cina, Vietnam, Cambogia).

Più in generale, si può affermare che il panorama dei paesi di origine cambia continuamente: ogni volta che un paese subisce una profonda crisi socioeconomica o politica, oppure una guerra aumenta il numero dei bimbi adottati provenienti dal suo territorio. AI contrario, quando un paese tenta di riorganizzare la propria vita e tende a chiudere le frontiere, l'adozione si orienta verso paesi con politi­che più liberali. Purtroppo, a subirne radicali cam­biamenti non è soltanto il quadro generale dei paesi di origine, ma anche la concezione stessa dell'ado­zione: pressoché sconosciuta prima della prima guerra mondiale e socialmente poco accettata, è stata successivamente sostenuta dalla motivazione solidaristica già accennata, che ne permise lo svi­luppo a livello internazionale negli anni settanta; in quel periodo l'adozione è stata vista prevalentemen­te come un mezzo per dare una famiglia ai bambini rimasti orfani. Tale accezione culturale, però, si è via via affievolita nei decenni successivi, per lasciare il posto ad una concezione privatistica e sostanzial­mente egoistica, in cui l'adozione è stata sempre più concepita come mezzo per soddisfare il desiderio di figli degli adulti, che in questi anni ha assunto i caratteri di un vero e proprio "diritto al figlio", mentre il senso di solidarietà nei confronti dei paesi di origi­ne, se non del tutto scomparso, costituisce oggi un aspetto secondario delle motivazioni all'adozione internazionale ed è invece più spesso utilizzato come mera "copertura diplomatica" per pratiche spesso molto discutibili.

In tema di adozione nazionale, a fronte di un buon impianto legislativo, c'è da registrate l'esistenza di realtà applicative molto eterogenee su tutto il territo­rio nazionale, come è stato segnalato, nella loro

relazione, da un gruppo di lavoro composto da ope­ratori sociali e di rappresentanti di associazioni e di enti autorizzati per l'adozione internazionale.

Accanto a metodi di valutazione molto avanzati e a protocolli di intesa con alcuni Tribunali per i mino­renni miranti a rendere più agili e meno ansiogene per le coppie le procedure valutative, esistono realtà in cui l'intera organizzazione dei servizi territoriali è del tutto inesistente e le stesse procedure sono ridotte a mere formalità burocratiche. Anche all'in­terno delle singole regioni, poi, il funzionamento dei servizi è quanto mai disomogeneo, anche per quel che riguarda la segnalazione alla magistratura minorile dei casi di sua competenza.

 

L'adozione in Europa

 

La tavola rotonda "II percorso adottivo nei diversi paesi europei", coordinata da Leonardo Lenti, Associato di diritto privato all'Università di Torino, ha permesso un interessante confronto fra le esperien­ze di alcuni paesi europei (Francia, Inghilterra, Galles, Olanda, Norvegia, Svezia).

Dal complesso delle indicazioni fornite dai relatori - in gran parte dirigenti delle rispettive autorità cen­trali - emerge che in tutti i Paesi considerati:

- l'adozione è disciplinata per garantire la sua fun­zione di strumento di tutela dei bambini, e non di tecnica per realizzare il desiderio di genitorialità degli adulti;

- non è ammessa la possibilità di una cessione diretta dai genitori biologici a quelli adottivi del bam­bino da adottare;

- la caratteristica fondamentale dell'adozione è quella legittimante, anche se in alcuni paesi è ammessa anche quella non legittimante.

Nonostante questa comunanza di principi, le diffe­renze fra le regole della legislazione e della prassi dei diversi paesi restano numerose e profonde. Le principali differenze emerse dalle relazioni sono le seguenti:

a) le caratteristiche personali degli adottandi. Nella legislazione di tutti i paesi considerati la natu­ra dell'adozione è ancora contrattuale e quindi è necessario il consenso dei genitori biologici; in alcu­ni di essi (Olanda, Norvegia, Svezia) è indispensa­bile, mentre in altri (Francia, Inghilterra e Galles) può essere sostituito dall'accertamento giudiziale dello stato di adottabilità. Nessuno dei paesi consi­derati prevede la sola ipotesi dello stato di adottabi­lità. I minorenni sono adottabili senza limiti di età, tranne il caso dell'Olanda, ove l'età massima dell'a­dottato è di 6 anni;

b) le caratteristiche personali degli adottanti. In tutti i paesi considerati, l'adozione è soprattutto pra­ticata da coppie sposate e conviventi, aventi una dif­ferenza di età rispetto all'adottato corrispondente a quella che più comunemente si incontra nelle fami­glie legate da vincoli genetici. Questo non è però il solo modello di famiglia adottiva ammesso. Anzitutto possono adottare anche coppie non spo­sate o persone singole; va comunque rilevato che in alcuni paesi il governo ha emanato delle linee guida per le autorità che procedono all'abbinamento, secondo le quali le coppie sposate e conviventi devono essere preferite agli altri potenziali adottan­ti; in Norvegia, poi, le linee guida ammettono un abbinamento con un adottante singolo soltanto se vi sono rapporti di parentela o rapporti affettivi signifi­cativi già precedentemente instaurati. Inoltre, per quanto riguarda l'età, alcuni paesi prevedono limiti minimi di età (25 anni per la Norvegia e la Svezia) o massimi (50 anni per la Norvegia), derogabili in casi particolari; l'Olanda prevede invece differenze mini­me e massime di età;

c) l'autorità che gestisce la procedura adottiva, e cioè che stabilisce chi può essere adottato e chi può adottare, e li abbina. Nella maggior parte dei paesi considerati è un'autorità amministrativa; in Francia è un'autorità giurisdizionale. In Inghilterra e Galles è lasciato un ampio spazio di azione anche alle orga­nizzazioni private specializzate, soggette a un con­trollo pubblico;

d) il periodo di affidamento preadottivo non è richiesto in molti dei paesi considerati; tuttavia occorre notare che nei paesi in cui l'abbinamento è gestito da un'autorità amministrativa sono previsti periodi di prova;

e) l'adozione nazionale e l'adozione internaziona­le. In tutti i paesi considerati il numero delle adozioni nazionali è molto inferiore rispetto a quelle inter­nazionali, soprattutto in Olanda, Norvegia e Svezia. Riguardo all'adozione internazionale, occorre rileva­re che:

- tutti i paesi considerati hanno firmato la Convenzione dell'Aja del 1993;

- la Convenzione è in avanzatissima fase di ratifi­ca in Norvegia e in Svezia; è già in discussione un progetto di legge di ratifica in Francia e in Olanda; è prevista la ratifica entro un paio d'anni in Inghilterra e Galles;

- la delibazione dei provvedimenti di adozione emanati dall'autorità del paese d'origine del bambi­no, che costituisce spesso un mezzo per eludere le regole poste a tutela di quest'ultimo, è ammessa in tutti i paesi considerati, con l'eccezione dell'Olanda, la cui legislazione anche su questo punto è molto simile a quella italiana.

II panorama, a livello europeo, come si evince anche da quanto brevemente riportato, è fortemente connotato da una visione "adultista" dell'adozione.

 

L'informazione al figlio adottivo

 

Nel dibattito che ha accompagnato le relazioni è stato più volte affrontato il tema dell'informazione al bambino della sua situazione di figlio adottivo che è stato ampiamente ripreso nella relazione di un grup­po di figli adottivi adulti che ha concluso il convegno.

Essi hanno descritto non soltanto la loro storia, ma anche quelle di altri figli adottivi, non tutte sviluppa­tesi con la stessa linearità e positività delle loro. Da quelle storie è emerso che i rapporti adottivi fondati sulla trasparenza e sulla serenità, che si sono nutri­ti di piccole verità quotidiane e di relazioni affettive equilibrate, hanno prodotto i loro frutti. Hanno gene­rato, cioè, persone mature (2).

 

 

 

(1) II Testo integrate è stato pubblicato sul n. 118 di Prospettive assistenziali.

 

(2) II Testo integrale della relazione è riportato in questo numero.

 

 

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