TESTIMONIANZE
DI FIGLI ADOTTIVI (*)
La presente
relazione non ha alcuna pretesa di essere esaustiva. È un breve viaggio tra le
idee e i ricordi emersi dal confronto di un gruppo di figli adottivi ormai
adulti. Sua finalità è portare la diretta testimonianza di chi l’adozione l’ha
vissuta da protagonista – spesso prima ancora di riuscire a comprenderla e
sceglierla – di chi dell’adozione rappresenta l’origine ma soprattutto il
centro. La speranza è di poter offrire attraverso una prospettiva nuova – quella
che scaturisce dalla voce delle nostre esperienze – qualche elemento di
riflessione in più tra i tanti che sono emersi in questi due giorni di
stimolante confronto.
Come figli
adottivi ci accomuna la serena certezza di essere stati fortemente voluti dai nostri
genitori, diversi sono stati però i cammini e i percorsi che ci hanno portati
ad entrare in contatto con loro e a prendere coscienza del come e del perché
siamo stati accolti nelle nostre famiglie.
Per chi,
come me e Graziella, è stato adottato a pochi mesi dalla nascita, fondamentale
si è rivelata la capacità dei genitori di raccontare ripetutamente e con gioia
il nostro arrivo in famiglia, il nostro essere stati a lungo desiderati, la
felicità nata da quel primo incontro. Il ricordare da parte dei genitori in
modo positivo il nostro arrivo in casa, il rammentare la voglia di avere dei
figli, i timori, le speranze, la bellezza di poterli accogliere, sono solo
alcuni degli elementi che i nostri genitori hanno saputo trasmetterci e che ci
hanno permesso di vivere in modo naturale, senza traumi, il venire a conoscenza
dell’essere figli adottivi.
Io
personalmente non ricordo la prima volta nella quale i miei genitori mi hanno
detto che ero stato adottato, mi pare di averlo sempre saputo, o per lo meno di
averlo appreso in modo del tutto naturale, nello stesso modo in cui si impara a
parlare, a camminare, a riconoscere le persone.
Alcuni tra
noi conservano però dei ricordi. È questo il caso di Fabio che racconta: «Io chiedevo spesso a mio papà e a mia mamma
da chi ero nato. Mia mamma, ricordo, mi prendeva in braccio e mi stringeva
forte forte. Non ricordo di preciso cosa mi raccontasse, ma so che quel gesto
di affetto mi bastava. Le parole erano inutili. Io sentivo che era lei, era mio
padre che mi teneva teneramente la mano, che mi amavano. Dal loro amore nasceva
la mia vita. So che loro mi parlavano, a volte mi leggevano dei libretti per
spiegare cosa volesse dire essere un figlio adottivo. Ma a me piaceva di più
che me ne parlassero in modo tranquillo, che mi facessero sentire che erano
pronti ad ascoltarmi. A volte per la strada qualcuno mi faceva delle battute
poco simpatiche, ma la risposta di mia madre e di mio padre era sempre
rassicurante. Io mi sentivo protetto da loro e anche quando, in seguito, mi sono
trovato da solo a dover rispondere ai miei compagni non ho mai provato senso di
fastidio. La gente non sa, bisogna spiegare loro perché capiscano. Era questo
che mi diceva sempre mio padre ed ho compreso che era vero. Questo mi ha dato
tranquillità».
Diversa la
storia di Mariella che è venuta a conoscenza di essere una figlia adottiva
nella prima adolescenza: «Quando mi è
stato detto che ero stata adottata avevo già 12 anni. Devo dire che ci sono
rimasta molto male, mi sono sentita tradita, defraudata di una parte della mia
vita. Ho sentito che i miei genitori si erano vergognati di dirmi la verità,
che forse si erano vergognati di non aver avuto “figli loro”. Mi era
insopportabile pensare che avessero potuto vivere con me per tanto tempo nella
menzogna. Non sono mai riuscita a perdonare questi genitori veramente. Non so
perché. Sì, oggi non ne parliamo più, ma tra me e loro si è eretto come un
muro. Ancora adesso mi chiedo perché l’hanno fatto. Poi razionalmente tento di
darmi delle spiegazioni: la mentalità che c’era ancora in quei tempi, ma lo
stesso, qualcosa dentro di me si ribella. Avevo diritto che mi si dicesse la
verità».
Da quanto è
emerso appare indispensabile che i genitori svolgano una corretta, tempestiva e
reiterata comunicazione ai figli del loro essere stati adottati. Il problema
dell’informazione non può dunque essere risolto nei termini di quella che
alcuni definiscono impropriamente “rivelazione”, una impostazione di questo
genere sottintenderebbe un momento
decisivo e preciso nel quale si racconta ai figli la verità senza più bisogno
di tornare sull’argomento, chiaro sintomo di non sentirsi genitori a tutti gli
effetti. Al contrario secondo noi una corretta informazione si deve incarnare
nella quotidianità e da questa deve trarre forza e alimento. L’obiettivo deve
essere il vivere giorno dopo giorno un rapporto d’amore tra genitori e figli
che scaturisca anche da una totale sincerità e che abbia come base
irrinunciabile una informazione chiara e completa sull’atto che ne è a
fondamento.
Chi tra noi
è invece arrivato in famiglia dopo i primi anni di vita si è trovato spesso di
fronte ad un altro problema: se infatti ricorda perfettamente il momento
dell’incontro con la nuova famiglia, gli anni precedenti di vita sembrano
essere stati completamente rimossi e annullati, il passato risulta azzerato,
l’esistenza pare riemergere da una sorta di buco nero.
«Sono stato adottato a 6 anni – racconta
Enrico – . Prima vivevo in istituto, ma
di quel periodo non ricordo assolutamente nulla. Quello che invece ricordo
nitidamente è stato il giorno in cui papà mi è venuto a prendere. Ho dentro di
quel momento come una fotografia a colori: il tipo di macchina, la strada per
andare a casa, il cancello verde. Ma se mi chiedete cosa è accaduto anche solo
mezz’ora prima di quell’istante la mia memoria è carta bianca. Mia madre ha
provato ad aiutarmi a cercare nella mia mente almeno qualche flash. Forse l’unica immagine che mi è rimasta è
un salone enorme, come un deserto, grigio scuro, ed io da solo che giocavo con
una macchinina ed un rimorchio con cui facevo delle manovre. Forse questo
ricordo non corrisponde neanche a una realtà. Mi è rimasta impressa, invece,
l’immagine della macchina di papà: una Fiat 1500 color beige, con il cambio vicino al volante, il sedile
di pelle. Ricordo i fanali diagonali, la grata della ventola dell’aria gialla
dorata, la targa nera quadrata, i fanali posteriori stretti e verticali, le
frecce in alto, gli stop in basso. La mia storia è incominciata quel giorno. Il
mondo è diventato reale solo nel momento in cui qualcuno ha incominciato a
prendersi cura di me, solo quando sono entrato in quella casa».
Accolti in
momenti e modi diversi nelle nostre famiglie, tutti ci siamo successivamente
interrogati sul perché del nostro abbandono.
«Per me – racconta Graziella – le domande “difficili” sono arrivate in
concomitanza con le prime curiosità legate alla procreazione, alla gravidanza,
al parto. L’idea fino a quel momento generica e tutto sommato un po’ astratta,
di esser nata altrove e di essere stata attesa dai miei genitori per tanto
tempo, cominciava a suscitare in me curiosità più precise e specifiche del
tipo: “Se non sono stata nella pancia della mia mamma adottiva, chi mi ha
fatto? Chi mi ha allattata? Perché sono stata abbandonata?”. Di fronte a questo
genere di domande alcuni genitori adottivi si trovano forse impreparati e
intimoriti, temendo che una risposta precisa possa provocare al bambino un
trauma legato al pensiero di essere stato abbandonato oppure che il figlio
adottivo divenuto un po’ più grandicello, a seguito dell’informazione ricevuta,
possa andare alla ricerca dei genitori biologici, riconoscendo soltanto in
questi ultimi i “veri genitori”.
«Anche i miei genitori adottivi si sono
interrogati sul da farsi, temendo di farmi soffrire o di non essere
riconosciuti da me come “veri genitori”. Ciò nonostante hanno comunque deciso
di dare una risposta alle mie domande fortemente problematiche. Non possedendo
notizie precise sul conto dei miei genitori biologici, si sono limitati ad
espormi le loro presunzioni in merito, ipotizzando delle cause d’abbandono
tanto reali quanto generiche, onde evitare di colpevolizzare o di mitizzare i
miei “procreatori”. Ai miei genitori va riconosciuto senz’altro il merito di
non avermi mai ricattata moralmente e di non essersi presentati come i
“salvatori” di una povera bambina abbandonata, bensì come delle persone
“bisognose” di completarsi nell’affetto di un bambino da amare.
«Devo infine testimoniare come questi timori
abbiano indotto i miei genitori adottivi a moltiplicare l’attenzione nei
confronti delle mie esigenze. Essi, in effetti, hanno sviluppato una
sensibilità particolare, vigile e pronta a cogliere nei miei comportamenti quelle che potevano essere delle
comprensibili richieste d’appoggio e di rassicurazione. Del resto, era in loro
ben chiaro che il rapporto educativo è sempre, e per tutti, un rapporto da
costruire con estrema attenzione e sensibilità e che il buon esito dello stesso
è strettamente legato a ciò che i genitori fanno e al modo col quale lo fanno.
«Penso che il successo della mia adozione sia
proprio legato al fatto che i miei genitori si siano sentiti tali fino in fondo
ed abbiamo assunto il loro ruolo con convinzione. Da ogni loro gesto o parola è
sempre trapelata la certezza che il “riconoscimento” dei genitori da parte di
un bambino non dipende dal legame biologico (“di sangue”), ma dalla capacità
del padre e della madre di amarlo, di soddisfare le sue esigenze e di
rispondere alle sue domande. Questa loro sicurezza mi ha permesso di acquisire
gradualmente la stessa consapevolezza e convinzione, insegnandomi a riconoscere
i “veri genitori” in coloro che si sono occupati di me quotidianamente, in
coloro che hanno saputo comprendermi e all’occorrenza anche sgridarmi, e soprattutto
in coloro che non mi hanno mai mentito. In altre parole, ciò che ha favorito la
mia serena e completa maturazione è stata la consapevolezza di essere stata
adottata per una scelta d’amore, scelta che si è rafforzata di giorno in giorno
nell’unico modo che può rassicurare un bambino adottivo: facendomi, cioè,
sentire “veramente” figlia di genitori profondamente convinti di essere
“veramente” genitori».
Strettamente
legata alla domanda sul perché
dell’abbandono è quella sul chi dopo
averci generati non si è più occupato di noi. Come erano fatte le persone che
ci hanno messo al mondo? Cosa facevano? La curiosità sulle proprie origini è
naturale e legittima, ma alcune volte è più stimolata dalle domande dei
conoscenti e degli amici che non dalle reali esigenze dell’adottato. È quello
che traspare dalla storia di Giovanni: «Ripenso
alla mia esperienza: non sono stato riconosciuto alla nascita e dopo pochi mesi
sono stato accolto dalla mia famiglia. Nel corso dell’infanzia i miei genitori
mi hanno raccontato più volte la storia del nostro incontro, la loro volontà di
amare dei figli, la necessità da parte mia, di mio fratello e di mia sorella
(anche loro adottati in tempi e modi diversi) di avere una famiglia.
Dall’incontro di queste reciproche volontà d’amore è nata la nostra famiglia.
Loro sono i miei genitori, noi i loro figli. Per questo nel corso della vita
non ho mai cercato di scoprire l’identità di chi mi ha messo al mondo.
Semplicemente non ne ho avuto l’esigenza perché so che mio padre e mia madre sono
coloro che mi hanno adottato. Così quando la gente mi chiede se sono curioso di
sapere chi sia mia “madre” e chi mio “padre”, rispondo sempre che la domanda è
formulata male poiché conosco benissimo i miei genitori, semmai non ho
incontrato quelli che sono stati i generatori biologici della mia esistenza.
L’unica curiosità che posso dimostrare è quella di sapere se eventualmente chi
mi ha generato fosse affetto da malattie che si possono trasmettere
ereditariamente. Nulla di più. In verità si tratta di una curiosità che ho
sempre sentito pochissimo ed ora, che ho quasi 30 anni e ancora tutti i capelli
in testa, mi rendo conto che è nata più dalle domande degli altri che da una
mia esigenza. Il richiamo ai capelli non è casuale, poiché d’adolescente temevo
di diventare calvo e come è noto la calvizie è una malattia ereditaria. Se
fossi stato seriamente preoccupato delle mie condizioni di salute avrei potuto
benissimo richiedere la mia mappa genetica, ma non ne ho mai sentito la
necessità.
«Quello che invece mi preoccupa molto di più è
l’atteggiamento di chi ritiene ancora i vincoli di sangue una cosa importante.
Sopravvalutare i legami biologici è un luogo comune sorretto dall’ignoranza e
dalla scarsa capacità di “leggere” la vita degli uomini. Per la scienza e per
gli individui dotati di un discreto senso comune è chiaro ormai da tempo che le
influenze date dall’ambiente e dalle relazioni incidono in modo determinante
sullo sviluppo e la creazione del carattere di una persona, mentre i caratteri
ereditari si limitano praticamente a modellarne l’aspetto fisico. Penso che
ritenere i legami di sangue paragonabili a quelli dati dalla vita in comune,
dal crescere insieme e soprattutto dall’amore sia errato e sottenda l’idea che
i genitori adottivi e i loro figli non siano una vera famiglia. Quando ero
piccolo alla televisione aveva un grande successo un telefilm intitolato “Mork
& Mindy”. Il protagonista veniva da un pianeta molto più avanzato del
nostro e alcune volte raccontava di essere figlio di un alambicco e di un
contagocce! Malgrado ciò era molto più umano di tanti terrestri e la sua strana
origine non gli faceva granché problema. Non tutti sono come Mork, e a qualcuno
può nuocere conoscere l’identità di chi lo ha messo al mondo, invece, al
contrario, mai e poi mai ad alcun figlio adottivo può negarsi il diritto di
essere pienamente figlio dei genitori che lo hanno accolto».
Questo è il
comune sentire degli adottati in tenera età. Diversa è invece la prospettiva di
chi fra noi ha vissuto qualche anno nella famiglia d’origine o conserva qualche
ricordo dei propri fratelli di sangue ed ha pensato di rintracciare i
generatori biologici soprattutto quando, nell’età adolescenziale, con i
genitori adottivi nascevano tensioni e conflitti. Qualcuno ha ritrovato chi lo aveva
messo al mondo andando incontro però a una grandissima delusione. Così è stato,
ad esempio, per Enza: «I primi tre anni
della mia vita li ho vissuti in una “specie di famiglia allorché la polizia
tolse me ed altri miei fratelli per affidarci ad un istituto. Dopo essere
passata in vari istituti, all’età di 10 anni sono stata adottata da una coppia
che aveva già due figli adottati. Ho tanti bei ricordi da quel giorno in avanti
perché sono stata accolta dai miei genitori subito, senza che loro mi scegliessero:
non sapevano come fossi, a loro non interessava, interessavo io come persona.
Un po’ come due genitori che aspettano un figlio e prima che nasca non sanno
come sarà, l’unica loro certezza è che lo ameranno per tutta la vita. Quel
giorno è come se fossi nata una seconda volta, ma con la differenza che avevo
dei genitori che mi accettavano e che mi avrebbero voluto bene. Con loro ho
imparato a vivere, a voler bene, mentre prima non sapevo neanche cosa
significassero questi sentimenti.
«Arrivata all’età di 18 anni, un po’ per
curiosità, un po’ per spirito di contraddizione ho deciso di voler rivedere chi
mi aveva messa al mondo. Volevo vedere chi fossero e capire come fossero fatte
le persone che mi avevano costretta a passare 7 anni della mia vita in collegio.
I miei genitori non me l’hanno impedito e così sono andata alla loro ricerca.
Non l’avessi mai fatto! Ho subito un secondo trauma, forse ancora più grande
dell’essere stata abbandonata da piccola. Quando le ho incontrate ho capito che
per me non contavano nulla, erano persone che non conoscevo, che non avevano
niente in comune con me. Loro non avevano mai gioito e sofferto con me. Non mi
avevano vista crescere, non mi erano stati vicini come invece sono stati i miei
genitori. L’unica cosa che hanno fatto è stata quella di mettermi al mondo,
null’altro: quindi non hanno il diritto di essere chiamati genitori. I genitori
sono quelli che ti crescono, ti insegnano a vivere, ti amano».
Dal
confronto delle nostre esperienze come da questa testimonianza ci pare di poter
affermare che una legge che dia l’opportunità a un figlio adottivo di venire a
conoscenza dei genitori biologici sia profondamente sbagliata. Quando si è
mossi dalla curiosità, dalla volontà di vendetta, dalle fantasie che circondano
le proprie origini e si va alla ricerca dei genitori biologici, nel caso in cui
questa abbia esito positivo, si crea solo del dolore. Un dolore che colpisce
noi che cadiamo dall’alto dei nostri sogni, la famiglia adottiva sminuita dal
suo ruolo e messa in concorrenza con quella d’origine, i procreatori che
possono veder riaprire ferite rimarginatesi con estrema fatica. Per questo
tutti sottoscriviamo con forza le parole finali della testimonianza di Enza: «Mi sconcerta il pensiero che possa esistere
una legge che preveda la possibilità per il figlio adottivo di conoscere le
persone dalle quali è stato generato, oltre alla madre biologica anche la
famiglia adottiva con i suoi figli va tutelata. Una legge di questo tipo
infatti non salvaguarderebbe genitori e figli adottivi. Chi non ha provato
direttamente non può comprendere come si possa sentire un ragazzo che prima
viene abbandonato e poi, quando ritrova chi lo ha messo al mondo, subisce un
dolore ulteriore scoprendo che a queste persone non importa nulla di te! In questo
modo chi ti ha generato finisce per farti male due volte».
Quelle che
finora abbiamo presentato sono le storie degli incontri con i nostri genitori e
alcune riflessioni e interrogativi sul nostro passato. Vogliamo ora affrontare
quella che potremmo definire la realtà quotidiana dell’adozione, la vita di
tutti i giorni, i nostri rapporti col mondo che ci circonda. Qui le nostre
esperienze divergono, non esiste uno specifico dei figli adottivi, occorre solo
ascoltare le singole voci.
Lucia
racconta: «Il merito dei miei genitori è
stato quello di avere molta pazienza con me, ma una pazienza determinata. Non
mi hanno lasciato fare, ma mi hanno guidato con fermezza. Hanno dialogato molto
con me, ma mi hanno spesso forzata a superare le difficoltà, a non crogiolarmi,
a non autocompatirmi. Hanno preteso da me quello che sapevano che io potevo
dare. Non hanno preteso cose impossibili, per me irrealizzabili, ma quello che
potevo dare, lo dovevo dare. Sono partiti da me nell’educarmi, non da una
bambina idealizzata nella loro testa, hanno seguito le mie potenzialità, ma poi
hanno lottato con me fino all’estremo perché le mettessi in opera. Ci sono
riusciti. Ho creduto spesso che pretendessero troppo da me, mi sono scontrata a
volte violentemente, ma loro rimanevano determinati, non cedevano. Quando le
mie resistenze venivano sbloccate, allora mi aiutavano, mi stavano accanto per
aiutarmi a superare le difficoltà. Io sentivo la loro presenza ferma, ma tanto,
tanto affettuosa. Mia madre in particolare sapeva essere durissima e
tenerissima nello stesso tempo».
Ma non
sempre le cose vanno bene, come ci ricorda la testimonianza di Antonio: «Quando sono andato a vivere con i miei
genitori adottivi avevo già 10 anni. Non mi sono trovato da subito bene con
loro. Sentivo il bisogno di una guida, di qualcuno che mi sapesse dare
direttive. Mi sentivo fragile, avevo bisogno di qualcuno che fosse forte con
me, deciso. Ed invece ho trovato due persone troppo permissive, forse troppo
brave; ma non adatte a me. Ed allora si è innestato un rapporto perverso. Io li
sfidavo, soprattutto con mia madre avevo scontri continui, la mettevo alla
prova, ma lei cedeva quasi sempre ed io vincevo, la prevaricavo, la facevo star
male. Non so perché lo facessi, era istintivo».
In alcuni
casi le esperienze assumono toni drammatici: «Sono stata adottata a 10 anni. Prima ero vissuta tra un istituto ed un
altro. Quando sono arrivata nella mia famiglia adottiva ero molto disorientata.
In realtà l’impressione che davo, invece, era quella di essere una bambina
molto determinata. Non accettavo il controllo, mi ribellavo. Avevo sempre la
sensazione di non avere abbastanza libertà. In realtà oggi so che me ne hanno
data troppa. Certo dovevo sottostare ad un minimo di regole, ma di fronte a
certe mie decisioni la decisione dei miei genitori era quella di non
ostacolarmi più di tanto. La loro formula era: “Preferiremmo che tu facessi
così, ma scegli tu”. Parlavano molto con me, ma alla fine dovevo decidere io.
Loro lasciavano che sbattessi la testa da sola, pensavano che dovessi crescere
con le mie gambe e quindi mi lasciavano fare. La conseguenza era che io mi
sentivo molto sola. Non mi sentivo realmente appoggiata e le mie decisioni
erano sempre quelle che sul momento erano più facili e più trasgressive. Non posso
dire che non mi seguissero; so che lo facevano, ma a troppa distanza. Forse
avrei avuto bisogno che si scontrassero di più con me, che non mi lasciassero
sempre vincere, li avrei sentiti più vicini, forse avrebbero potuto impedirmi
di fare tante sciocchezze.
«A 18 anni siamo arrivati al culmine dello
scontro, io non accettavo alcuna regola e me ne sono andata via di casa. È
cominciato un periodo in cui vivevo da sbandata, per un po’ sono andata a
vivere da una mia amica che viveva da sola. Facevo lavoretti di vario genere,
come mettere volantini nelle buche, per guadagnar qualcosa. In quel periodo i
miei mi hanno detto praticamente “Fai da te”; volevano che andassi fino in
fondo, che mi scontrassi con la realtà perché ritenevano che solo così sarei
maturata. Io, invece, mi sono sentita per l’ennesima volta abbandonata, pensavo
che loro con me avessero voluto chiudere. Una sera che non sapevo dove andare
ho telefonato a loro, che mi hanno ospitato quella notte, ma mi hanno detto che
poi avrei dovuto andarmene. Forse in certi momenti avrei accettato di tornare
da loro ma mi sono trovata davanti un muro. Ed allora io cercavo di punirli
facendo perdere le mie tracce per interi periodi. Ricordo che per fare loro
male una volta ho detto a mio padre che mi sarei ripresa il cognome della mia
famiglia d’origine. Volevo dimostrargli che potevo fare a meno di loro perché
mi ero sentita rifiutata.
«Mi sono sposata con un ragazzo la cui famiglia
nel quartiere godeva di una pessima reputazione e da cui ho avuto due figli. Mi
sono trovata in situazioni disastrose tanto che venivo aiutata dalla San
Vincenzo. Adesso so per certo che erano i miei genitori ad aiutarmi attraverso
loro. So che mi hanno sempre seguita a distanza, che non volevano interferire
con le mie decisioni, perché le avrei vissute come un’intrusione. So di averli
fatti soffrire molto e me ne dispiace, ma allora nella mia testa c’era la
convinzione che era inutile ricorrere a loro che ormai anche loro non mi
volevano, che nessuno mi aveva mai veramente voluto. Non ho mai avuto il
coraggio di dire loro apertamente: “Torno da voi, ho bisogno del vostro aiuto
perché non sono pronta per la vita”. Così siamo vissuti in questa ambiguità
reciproca; forse ognuno di noi aspettava che l’altro facesse il primo passo. In
realtà penso che abbia contato molto che io sia stata adottata troppo tardi,
con alle spalle delle esperienze troppo negative».
Ma quasi
sempre la nostra vita in casa ha ricalcato tratti simili a quelli di ogni
famiglia, come risulta dai ricordi di Francesco: «Mia madre ha un carattere molto forte ed è molto severa. Quando
parlava lei: avanti Savoia! Gestire una famiglia con quattro figli era dura. Ci
metteva tutti in riga. “Mamma, devo uscire” le diceva qualcuno di noi. “Uscire
la domenica mattina, non se ne parla neanche. Si dà una mano in casa”. E noi
pronti come un esercito, ognuno con il suo incarico. Chi doveva passare
l’aspirapolvere, chi pulire i vetri, chi apparecchiare la tavola, fare i
letti... Insomma tutto era organizzato e guai a sgarrare. Se non facevamo i
letti ce ne chiedeva la ragione e ce li mandava a fare di corsa. Conduceva la
famiglia con tanta energia, ma anche con tanto affetto. Ci teneva molto alla
famiglia, al punto tale di non aver mai voluto la televisione in casa. O si
leggeva, o si studiava, o si chiacchierava del più e del meno. La televisione è
entrata in casa nostra quando sono andato giù in Irpinia a fare il volontario
per i terremotati nel 1981. Papà ha voluto la televisione per seguire le cose
come andavano. E questo è successo quando eravamo già tutti grandi. A mia madre
continuava a dare fastidio, si alzava e andava in studio a leggere e a
scrivere. Per me è stata una scelta forse un po’ rigida, ma che a conti fatti è
stata importantissima. Noi non abbiamo mai smesso di parlare tra di noi, di
trovare altri interessi. Troppa gente oggi invece di dialogare si mette davanti
a quel cassettone... Quando mi proibiva qualcosa, sul momento ci rimanevo male,
ma col tempo ho sempre capito le sue posizioni e le sue decisioni e molte le ho
condivise. Era severa, ma ha sempre rispettato le nostre esigenze, quelle più
vere, le nostre diverse personalità, non ci ha mai imposto di essere quello che
non eravamo».
Non si pensi
però che qui si voglia dare un’immagine edulcorata dell’adozione. Quello che ci
preme sottolineare è che malgrado i conflitti, le difficoltà, le
incomprensioni, i grandi litigi, all’interno delle famiglie abbiamo tutti
trovato sempre dei genitori veri anche se sappiamo che, il più delle volte, non
siamo stati dei figli facili. Qualcuno di noi è anche arrivato a scontrarsi
duramente e irrimediabilmente con loro soprattutto negli anni dell’adolescenza
rinfacciando il proprio essere figlio adottivo. Rileggendo però questi fatti a
distanza di alcuni anni ognuno di noi riconosce di aver vissuto una vera
esperienza familiare segnata da momenti belli e brutti, da periodi di serenità
come da giorni problematici. A volte qualche incomprensione è sorta anche con
gli altri parenti. Graziella racconta: «Ho
sempre percepito che i miei nonni mi sentivano diversa dagli altri loro nipoti.
Erano tanti piccoli comportamenti che mi facevano soffrire. Quando andavamo da
loro insieme, mi salutavano affettuosamente, ma non mi abbracciavano con lo
stesso calore e partecipazione riservato ai miei cugini. Mi faceva male, poi,
che parlassero sempre delle somiglianze. Luca era uguale al nonno. Giorgio a
mia nonna e così via. Io, era logico, non assomigliavo a nessuno. Mio nonno,
poi, diceva sempre a Giorgio “Sei intelligente come tuo padre” (il fratello di
mia mamma), e, riferendosi a Luca “Tu, invece, sei testone come tua nonna”. Mi
feriva l’insistenza con cui si soffermavano su questi particolari. Io mi
sentivo tagliata fuori dai loro discorsi, ma in quei momenti anche dalla
famiglia. Allora mi appartavo e, quasi sempre, veniva mia madre a parlare con
me. Vedevo che anche lei ne soffriva, ma non diceva niente, semplicemente
cercava di cambiare discorso. La casa era poi piena di fotografie dei miei
cugini a tutte le età e in tutte le pose e le stagioni. Di mia madre ce n’era
una nella camera degli ospiti. Io, quando la vedevo, ricordo che la giravo in
modo che non si vedesse affatto».
I rapporti
con i parenti alcune volte non hanno fatto altro che riflettere il comune
sentire delle persone che poi abbiamo incontrato nei cortili, a scuola, sul
lavoro: «Un giorno quando frequentavo la
terza media dissi ai miei compagni che ero un figlio adottivo. Si parlava delle
somiglianze tra genitori e figli e mi venne spontaneo raccontare la mia storia.
Mi sembrava una cosa molto bella e naturale, ma mi accorsi che per i miei
compagni non era così. Ci restai un poco male anche perché qualcuno mi prese in
giro. Anche per qualche insegnante le cose cambiarono. Aveva trovato una
risposta per giustificare i miei problemi scolastici, in particolare la mia
vivacità. Credo che l’adozione non debba essere né esibita e neppure occultata,
ma vada presentata quando ci fa piacere, ci sembra utile e ci fa sentire
orgogliosi. C’è solo un caso nel quale mi presento sempre come figlio adottivo:
quando incontro delle persone che hanno dei pregiudizi nei confronti
dell’adozione».
Purtroppo di
queste persone ne esistono ancora. Sono quelle che ti ricordano che il sangue
non è acqua, che di mamma ce n’è una sola, che buon sangue non mente. Sono
questi gli individui che giudicano l’adozione come uno strumento che permette
ad una coppia senza figli di avere dei figli; dunque la lettura che fanno del
problema è sempre di parte e la parte è quella del più forte: quella
dell’adulto. I diritti dei bambini vengono dopo. L’ottica è di privilegiare chi
vuole avere un figlio. È da idee di questo tipo che prendono il via le proposte
di legge che prevedono di allargare il diritto di adottare ai single, alle
coppie omosessuali o a quelle anziane.
Come figli
adottivi rifiutiamo questa prospettiva. Proveniamo già da una situazione
iniziale di abbandono, almeno ci sia concesso di avere due genitori e non uno,
un papà e una mamma, non due simpatici vecchietti. Sia chiaro, anche queste
soluzioni sarebbero preferibili al non aver nessun genitore, ma visto che
possiamo scegliere (il rapporto tra domande di adozione e bambini adottabili in
Italia è di 20 a 1) e volenti o nolenti gli attori principali dell’adozione
siamo noi, che ci sia dato il meglio!
Con questa
riflessione termina il nostro breve contributo. Molti sono gli aspetti che non
abbiamo neppure sfiorato. Penso, ad esempio, al rapporto tra figli adottivi e
biologici, alle difficoltà di inserimento dei bambini provenienti da altri
Paesi, alle esperienze della vita adulta, ma quello che ci pareva importante
era dare un’angolatura nuova al dibattito. Contava lasciare un segno, una
testimonianza per tutti, ma in particolare per i giovani figli adottivi e per i
loro genitori. È quindi a loro che va il nostro saluto finale, un saluto che
ricorda ai genitori come “l’amore sia la capacità di avvertire il simile nel
dissimile” e ai figli che “sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza
provocare in risposta la forza” (1).
In fondo era
forse questa la cosa più importante che, nella nostra semplicità, volevamo
poter dire.
(*) Relazione tenuta da un gruppo di figli
adottivi al convegno “Bambini senza famiglia e adozione: esigenze e diritti -
Legislazioni ed esperienze europee a confronto” (Milano, 15 e 16 maggio 1997)
organizzato da: Istituto italiano di medicina sociale, Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie, Scuola dei diritti “Daniela Sessano”
dell’ULCES, Prospettive assistenziali.
(1) T.W. Adorno, Minima
moralia, Torino, Einaudi, 1974, p. 184.
www.fondazionepromozionesociale.it