Prospettive assistenziali, n. 122, aprile-giugno 1998

 

 

LA FAMIGLIA D’ORIGINE DURANTE L’AFFIDAMENTO FAMILIARE: IL RUOLO DEI SERVIZI

DONATELLA FIOCCHI (*)

 

 

Queste pagine nascono da una lezione tenuta ad un corso di formazione e aggiornamento sull’affido familiare e conservano quindi, con qualche naturale correzione, la struttura e il linguaggio con il quale sono nate.

La decisione di non trasformare l’intervento in un saggio teorico più complesso risponde al desiderio di poter comunicare a tutti i colleghi che lo leggeranno, oltre alle riflessioni che l’esperienza di dieci anni nell’Ufficio Affidi mi ha spinto a fare, anche l’emozione e il coinvolgimento che trascina con sé questo lavoro. Emozione e coinvolgimento che, come ho imparato nel tempo, per chiunque si trovi a lavorare con le persone, oltre ad essere naturali compagni devono diventare indispensabili strumenti di lavoro.

Ritengo importante mettere in evidenza qui, e perdonatemi se si tratta di cose note, questo aspetto tecnico della nostra professione che non è mai abbastanza sottolineato in quanto per la complessità dei nostri interventi tende spesso a sfuggire alla nostra attenzione, lo viviamo, ce lo sentiamo sulla pelle ma non sempre siamo consapevoli che si tratta e deve diventare un vero e proprio strumento.

Nel nostro lavoro con le famiglie multiproblematiche veniamo in contatto con situazioni così profondamente dolorose, con esiti di così pesante e grave deterioramento che una grossa ansia, un continuo senso di emergenza e una costante preoccupazione sono le nostre difficili compagne abituali.

A tali condizioni ognuno di noi reagisce in maniera differente e personale, spesso collegata inconsapevolmente ad avvenimenti lontani della nostra vita di figli.

È fondamentale perciò imparare a capire ogni volta quali siano le proiezioni e le reazioni personali e quali le reali esigenze dell’intervento. I sentimenti che proviamo ci raccontano qualcosa su quello che succede fra noi e la persona, o la situazione che abbiamo di fronte, ma dobbiamo imparare a capire con chiarezza qual è il messaggio per poterlo usare e non disfarcene invece perché troppo doloroso e difficile attraverso un comportamento qualsiasi che assolve al solo compito di liberarci dal peso.

Se quando costruiamo il quadro di una situazione familiare per formulare un progetto di intervento spinti dal dolore che ci comunicano il padre o la madre e dal desiderio di aiutarli, non ci accorgiamo di identificarci totalmente con loro e con i loro sentimenti; sarà poi estremamente difficile percepire anche le reali esigenze loro o dei loro figli.

Ugualmente se ci saremo totalmente identificati con i sentimenti ed i bisogni del bambino, sarà impossibile rendersi conto e comprendere certe reazioni o posizioni dei genitori.

Nel primo caso si tenderanno a prendere decisioni che subordinano il benessere del bambino a quello di uno dei due genitori. Per esempio una madre ci parla della sua storia di bambina abbandonata e sola e questo è ancora così vivo dentro di lei e la rende tuttora tanto addolorata e triste da non permetterle di occuparsi di altri che di se stessa. Si attacca ai suoi figli in maniera adesiva cercando di consolare dentro di loro la bambina che è stata.

Se non ci accorgiamo di quanto accade dentro di noi e ci identifichiamo totalmente con lei aspetteremo a prendere qualunque decisione riguardante i suoi figli per non ferire ancora quella bambina già provata, non riusciremo così mai a pensare di allontanare i suoi figli, nel caso ovviamente in cui questa fosse la soluzione utile per loro, perché ci sentiremo facilmente uguali ai suoi “cattivi” genitori che non le hanno mai dato nulla di buono. In questo caso i figli non beneficeranno certo di questa nostra posizione.

Se, invece, siamo completamente catturati da quello che al bambino manca e dal desiderio di mettere fine alla sua sofferenza, i suoi genitori ci appariranno come intollerabilmente cattivi, da allontanare per sempre. Questo non ci permetterà di pensare e valutare una loro possibilità di recupero e di formulare un progetto che tenda a questo scopo, cosa ugualmente grave perché se il legame fra i bambini che allontaniamo e i loro genitori è costruito e importante creeremo delle lacerazioni difficili da risanare.

Di contro nessuna famiglia affidataria ci parrà abbastanza adeguata per riparare i diritti lesi di quel bambino con il risultato però che non riusciremo ad attuare invece nessun affido.

Infatti, come avrete già sentito altrove, è illusorio pensare che intervenire solo sul bambino, allontanandolo, gli consenta di affrontare un cammino di evoluzione positiva. Se non facciamo anche contemporaneamente un lavoro di comprensione delle dinamiche familiari, non facciamo un lavoro di tutela corretta del bambino. Come diceva una collega del CBM (1) di Milano in un caso analogo «avremo spento l’incendio, ma ciò che è successo e il perché, rimarrà una cosa oscura nella testa del bambino» e la sua crescita ne sarà impedita o comunque danneggiata.

Le due conseguenze più immediate di quanto detto sono in genere un collocamento del bambino in istituto, senza che sia avviato alcun progetto per un lavoro con la famiglia e una impossibilità a decidere per una famiglia affidataria reale con un prolungamento dei tempi di ricovero sicuramente dannoso.

Quindi, prima di tutto, il compito degli operatori dei servizi sociali di territorio deve essere quello di capire in ogni momento dell’intervento cosa si sta facendo e perché. Ognuno deve essere in grado, durante tutta la presa in carico di un caso e lo svolgimento del progetto di affido, di rispondere a questa breve domanda “Che cosa sto facendo in questo momento e con che obiettivi?”.

Soltanto questo atteggiamento permette di aprire lo spazio ad una verifica di quel che si sta realizzando, con tutte le possibilità di modificazioni che l’andamento del caso può comportare.

Da non sottovalutare poi un altro aspetto particolarmente importante: il fattore tempo. Dal momento che l’ansia e l’angoscia che si sollevano nei casi che seguiamo sono particolarmente elevate, è tendenza quasi naturale lasciare scorrere il tempo attuando mille interventi di sostegno sui quali l’accordo con la famiglia è totale nella inconsapevole speranza che prima o poi “tutto si aggiusti”.

Purtroppo, invece, questo si sposa con la tendenza della famiglia a negare che esista un problema, nello stesso tentativo di eludere o diminuire la sofferenza. Si crea allora una situazione di blocco che può durare anche anni.

Per il bambino però questi mesi o anni sono fondamentali per sviluppare tutte le caratteristiche e le capacità di un individuo sano. Dunque, durante tutto questo tempo in solitudine e abbandono, anche se non sempre ne decifriamo i segnali, si ribella, reagisce, ma se i suoi richiami e le sue richieste di aiuto restano inascoltate si spengono; la sua fiducia nel fatto che i grandi possano soddisfarlo e soccorrerlo svanisce. Impara che può fidarsi solo di se stesso, si arrangia come può negando i propri bisogni, la propria fragilità e debolezza, chiude i contatti con la realtà e si difende con i mezzi a sua disposizione.

Per un bambino arrivato in fondo a questo cammino sarà molto più difficile e a volte impossibile riaprire tutte queste porte, affezionarsi agli “adulti” che tanto a lungo lo hanno tradito, riconoscere e apprezzare quel che di buono gli viene offerto dopo tanta sofferenza e tanto veleno.

Quindi per il buon successo di un affido è fondamentale il momento in cui esso parte rispetto al momento in cui nasce il disagio del bambino.

Le doti prime perciò degli operatori di un servizio che possa davvero intervenire in maniera utile sono: una sempre maggiore capacità di leggere correttamente i propri sentimenti e reazioni per non farli interferire con le decisioni ritenute necessarie alla luce di una attenta analisi, e un preciso progetto di intervento che magari si possa modificare nel tempo secondo la necessità ma che sia il più completo e tempestivo possibile.

Perché e come tutto questo entra nella conduzione e nel ruolo successivo che il servizio svolgerà nei confronti della famiglia?

Se nella fase della presa in carico e della rilevazione della situazione abbiamo aderito troppo alle richieste della famiglia distinguendo poco e male i nostri sentimenti dai loro, avremo stabilito con essi un rapporto apparentemente di fiducia e di sostegno, ma basato solo su una condivisione dei loro sentimenti di abbandono e di tristezza e su un tacito accordo a non parlare di quello che non va.

Nel momento però in cui interverremo in maniera più normativa per l’attuazione di un progetto o comunicheremo loro la necessità di ricorrere al tribunale per i minorenni (TM), si sentiranno traditi e il rapporto si spezzerà con estrema facilità rendendo impossibile o estremamente difficile una successiva collaborazione. Oppure la lettura dei loro comportamenti e la spiegazione che di essi avremo dato in comune, verrà così rafforzata dal nostro iniziale consenso da costituire, in seguito, una difesa fortissima che servirà a non prendere coscienza degli aspetti più dolorosi e sarà impossibile qualunque lavoro o collaborazione.

Vediamo un caso concreto: la famiglia Rossi. Il marito giardiniere, buon lavoratore ma persona molto semplice e modesta, ancora estremamente infantile per il quale non esistono differenze reali fra adulti e bambini. La moglie, inserviente di una struttura ospedaliera, donna adeguata al suo compito senza troppe autonomie, in realtà con gravi difficoltà personali di rapporto soprattutto nello svolgere la funzione materna essendo cresciuta in istituto dai 3 ai 18 anni. Un primo figlio di 5 anni e una bambina di uno.

Si crea una situazione di crisi e di grave rischio per il maschietto che cresce curato e accudito fisicamente ma abbandonato a se stesso per tutto il resto al punto che da quando ha 5 anni esce di casa a suo piacimento, viene riportato indietro da qualche vicino che lo incontra a tarda sera per strada e comincia a frequentare una banda di zingarelli.

È vivace, arrogante, disubbidiente, irrispettoso, prepotente e gelosissimo della sorellina. Questi comportamenti nascono e si innestano su una profonda mancanza all’esterno, e quindi anche all’interno, di figure genitoriali con cui confrontarsi e da cui attingere aiuto. Per i due genitori ancora bambini comunque un peso notevole superiore alle loro forze.

Il servizio, puntando sulla stanchezza dei due genitori nell’accudirlo, allontana il bambino convenendo con loro che si tratta di un bambino difficile da accudire, per ottenre più rapidamente il consenso.

Durante la permanenza del piccolo in comunità, il servizio formula un progetto di affido e avendo nel frattempo fatto una prognosi negativa rispetto alle capacità di recupero di un ruolo adulto dei due genitori chiede al TM un affido fino alla maggiore età.

In attesa del decreto del TM, gli operatori segnalano alla famiglia la decisione di affido senza comunicare la valutazione fatta su di loro per impedire reazioni negative che ostacolino il progetto. Inoltre, sul momento nessuno vuole prendere in considerazione la seconda bambina «perché troppo piccola» e per l’impossibilità non meglio definita «di toglierli di casa tutti e due».

La famiglia accetta un affido consensuale e così pur senza che nessuno lo dica apertamente si stigmatizza che Riccardo è “cattivo”.

Nella famiglia affidataria Riccardo migliora, diventa meno ribelle e rabbioso tanto che la mamma stessa se ne accorge. Qualche volta la sorellina va a trovarlo dagli affidatari, e comincia a mandare segnali che gli operatori attentamente colgono e progettano un affido anche per lei.

Quando lo comunicano ai genitori questi rifiutano violentemente il nuovo intervento che li obbligherebbe a prendere coscienza di essere loro gli “inadatti”. Troncano i rapporti di collaborazione con il servizio, non si recano più agli incontri. Fanno muro intorno alla piccola, colpevolizzando sempre più intensamente il grande che deve dimostrare di essere il colpevole.

Il Servizio, per proteggere Riccardo, perché la pressione su di lui è veramente troppo negativa, deve così arrivare a diradare i suoi ritorni a casa proprio nel momento in cui invece il bambino li desidera ardentemente. Per la piccola diventa quasi impossibile qualunque intervento. È successo il contrario di quanto si sarebbe voluto raggiungere.

Perciò, e cito sempre le parole della collega Bertotti del CBM, il rapporto con la famiglia d’origine da parte degli operatori deve avvenire all’insegna della massima trasparenza, della assoluta sincerità relativamente alla situazione nella quale si trova il bambino o alle sue possibili cause.

I genitori hanno il diritto di sapere quali sono gli elementi che gli operatori hanno rilevato su cui si chiede alla famiglia un cambiamento. Se i genitori non ne sono informati è illusorio pensare che possano cambiare.

I signori Rossi avrebbero potuto forse capire cosa non andava bene nel loro modo di fare i genitori e mobilitare delle risorse di cambiamento, magari chiedendo più aiuto, se fosse stata loro comunicata la totale verità.

Come vedete, il modo iniziale di costruire la relazione determina quasi totalmente il successivo andamento ed è quasi sempre la causa prima di una possibilità di successo o di insuccesso.

Si parte, è vero, da un momento di sofferenza: la presa di coscienza di una “mancanza”, di un possibile danno passato o futuro; ma se il servizio si pone non come spalla su cui piangere una irreparabile perdita, ma come capacità adulta di guardare insieme al danno, di pensare e di realizzare insieme delle soluzioni, allora è davvero un sostegno e un aiuto. Non per cancellare e negare onnipotentemente una sofferenza ma per riuscire a superarla e a ricostruire insieme.

Dove questo insieme non significa non procedere, non fare nulla, salvo sporadici e quindi inutili colloqui, fino a quando la famiglia non è d’accordo con il nostro intervento, ma significa prevedere nel progetto una parte anche per il genitore proprio perché, se sbaglia, ha, come e forse più del proprio figlio, bisogno di aiuto.

La famiglia a cui il servizio si rivolge sente che, se gli operatori spiegano loro con chiarezza ogni cosa, ciò significa che li ritengono in grado di cambiare.

La sofferenza così, attraverso la consapevolezza e il rispetto, può diventare speranza. La consapevolezza dei comportamenti errati e dannosi e il rispetto delle qualità umane che le persone possono anche mobilitare per raggiungere un obiettivo ritenuto buono può trasformare la sofferenza in speranza di poter riparare il danno, di poter far cessare la sofferenza.

È importantissimo prestare attenzione e saper capire i segnali non verbali che le famiglie ci mandano, ma anche imparare a leggere il significato di quelli che noi mandiamo loro.

Il primo affido realizzato all’interno del servizio nel quale lavoravo nel 1985 sembrava iniziare con delle pesanti premesse. Il padre rimasto solo a casa con tre bambini di 7, 6 e 2 anni era favorevole al loro collocamento in affido. La madre, ricoverata per un periodo di nove pesi per polinevrite da alcool e fortemente invalidata dalla malattia, minacciava il suicifio se l’affido si fosse realizzato.

I tre bambini, già molto fragili, erano a rischio grave di malattia mentale. L’affido venne realizzato ugualmente spiegando alla signora i motivi per cui era utile sia ai bambini che a lei e a suo marito.

Non solo non ci fu nessun suicidio ma durante l’affido la signora stessa ci fu di grande aiuto con le sue osservazioni per capire in quale caso il figlio stava meglio e in quale stava peggio. La signora, liberata dal peso materiale e “morale” di svolgere un compito per il quale si sentiva incapace, poté, con l’aiuto dell’assistente sociale, pensare meglio a se stessa e ai problemi che le impedivano di vivere meglio e riuscì a chiedere e a beneficiare di cure fisiche e psicologiche che le permisero molti passi avanti.

In tutta la realizzazione dell’affido il servizio ha una funzione essenziale e ineliminabile, quella di adulto pensante, filtro obbligatorio e regolatore dei rapporti di tutti i soggetti, mente che raccoglie gli elementi e li ricostruisce in una unità perché il bambino, che è il beneficiario principale di questo intervento, è uno solo.

A mio parere, quello che tanto spaventa tutti nel realizzare l’affido è il senso di vuoto e di perdita, la rottura di un legame all’interno di uno dei rapporti più profondi per l’essere umano le cui radici hanno una base genetica. Credo proprio, però, che si debba sottolineare quanto questa rottura non nasce e si realizza nella famiglia del bambino quando viene fatto l’affido.

Questo momento va spostato indietro prima dell’intervento: il senso di perdita già presente nei fatti e percepito inconsciamente da tutti i componenti della famiglia si concretizza e si svela quando l’affido si progetta e si comunica. In quel momento, nell’immagine interiore mentale, emotiva, forse anche cognitiva della famiglia si crea un vuoto e un senso di perdita che riempie di panico, che non si sa come riempire.

Vorrei sottolineare che questo senso di perdita non si crea solamente nei genitori del bambino, ma negli operatori stessi e in tutti coloro che di queste storie sentono solamente parlare e vedono soltanto l’atto estremo dell’allontanamento, perché questo mette in pericolo la base stessa dell’identità basata proprio sul legame genitori-figli.

Per questo, per gli operatori è spesso così difficile da realizzare, per questo su vicende per lo più sconosciute nella loro interezza si mobilitano città intere. Questa è quindi la fase in cui bisogna fare particolare attenzione.

Ritengo però che, una volta esaminati bene i nostri sentimenti, queste reazioni non ci debbano spaventare. Possiamo sentire che quello di volerli a tutti i costi, invece, è uno dei pochi regali che famiglie come queste, per altri versi fortemente incapaci, possono fare ai loro bambini. Faccio questa osservazione sorridendo ma per la tenerezza e senza ironia: per un bambino, sentire che il proprio genitore lo vuole a qualunque costo e non accetta di abbandonarlo, è una grande forza per la vita.

Una collega assistente sociale in un servizio affidi vicino al mio, mi riferiva le parole di una madre semplice e spontanea che, in occasione della comunicazione del progetto di affido, aveva esclamato «io però qualcosa devo fare per i miei figli! Allora mi oppongo al decreto!». Non è stato difficile aiutare questa signora a capire quello che poteva veramente fare per i suoi figli: permettere ai servizi sociali di aiutarli, d’accordo con lei, per costruire loro un migliore futuro.Così, a mio parere, non sono da leggere negativamente i dati che con sempre maggiore allarme vengono diffusi rispetto al modo in cui gli affidi possono partire.

Come ho avuto occasione di accennare alla conferenza regionale “Affidamento e dintorni” svoltasi a Milano nel novembre 1997, il fatto che in Lombardia il 75% degli affidi sia  giudiziale, di per sé non è un elemento da leggere negativamente. Sulla linea di quanto ho appena affermato infatti questo indica solamente quanto queste famiglie, per altri versi pur fortemente inadeguate, siano legate ai propri figli e quanto desiderino essere genitori nell’unico modo possibile a loro disposizione: volerli a tutti i costi.

Questo dato non va sottovalutato e il progetto deve tenerne conto; tutti gli operatori che lavorano in questo settore ben sanno che, insieme a questo, dai genitori di questo tipo arrivano anche altri segnali, meno immediatamente decifrabili da chi a questo mestiere è estraneo, attraverso i quali le persone chiedono disperatamente aiuto nello svolgere un compito che sentono impari per le proprie forze. Perciò il dato cui accennavo più sopra, per dare una informazione più realistica sull’andamento dell’affido, dovrebbe essere messo in relazione con quanto succede dopo il decreto del TM e forse avremmo la sorpresa di scoprire che uno degli aspetti desiderati e richiesti dalla legge per la realizzazione di questo strumento, la consensualità della famiglia d’origine, è una utopia più che una condizione indispensabile.

Molto spesso, infatti, in tutti questi casi di genitori fortemente inadeguati o maltrattanti, quando infine il bambino viene allontanato veramente non resta un buco, perché come persona, con le sue esigenze, il suo carattere, le sue qualità o difetti il bambino reale non c’è: sovente non è ancora riuscito a costruirsi, quindi non manca.

Anzi i genitori, che prima percepivano con grande disagio e senso di colpa la propria inadeguatezza e tentavano di nasconderla perché non sapevano come farvi fronte o se ne sentivano schiacciati, sono ora spesso più tranquilli e si accorgono sia del beneficio che i loro figli ricevono, sia che non li perdono in quanto continuano a vederli a sufficienza per quel che possono loro dare.

Per chi come me ha ormai 13 anni di esperienza non è più una novità che famiglie, inizialmente anche molto contrarie al punto da arrivare con le opposizioni fino alla Corte d’appello, oppure violentemente minacciose al punto da suggerire che «dove si è ammazzato una volta si ammazza due», abbiano alla fine dichiarato candidamente dopo qualche anno. «Se sapevo che l’affido era questo avrei mandato anche tutti i miei altri otto figli».

Naturalmente, perché questo si realizzi sono però indispensabili alcune condizioni. Di una di esse si è parlato sopra e consiste nel rapporto corretto e chiaro, fin dall’inizio, con la famiglia d’origine; un’altra, di importanza non secondaria, costituisce uno degli spettri più frequenti nella realizzazione dell’affido ed è quello della rivalità fra le due famiglie.

La nostra esperienza ci dice, oltre alla teoria, che questa non si crea o è confinata solamente ai casi di grave malattia mentale dei genitori del bambino, situazione che prevede una organizzazione differente, quando, come prima indicato, sono chiari fin dall’inizio tutti i termini del rapporto e il servizio si pone come perno di tutto l’intervento.

Se questa condizione è mantenuta costantemente con rispetto e attenzione ai bisogni di ogni soggetto, crea di fatto una situazione di parità fra le due famiglie che viene percepita da tutti. Non sono più la famiglia cattiva e quella brava che si contendono il bambino, ma sono due famiglie che ubbidiscono entrambe al servizio seguendo un progetto perché il bambino si possa sviluppare bene. Questo permette di indirizzare le eventuali conflittualità verso il servizio decisore che però può affrontarle utilizzando gli strumenti a sua disposizione e così risolverle senza che questo porti ulteriore danno al bambino. Mentre il rapporto fra le due famiglie rimane quello di uno scambio di cui il bambino è l’elemento principale.

Il primo atto di questa collaborazione è sempre, tutte le volte che è possibile, una conoscenza fra le due coppie; questo attenua molte paure reciproche e permette ad entrambi, al di là delle parole, di capire. Infatti i genitori senza volto che si portano via nostro figlio e con ciò simbolicamente la nostra capacità di procreare fanno parte dei fantasmi più primitivi della nostra evoluzione: le streghe, le regine altezzose, gli orchi delle antiche favole ce ne parlavano abbondantemente. Invece, se chi si occuperà di mio figlio, è quella signora bionda un po’ grassoccia con l’aria gentile o quel signore coi baffi che sembra il mio postino così simpatico tutto appare più chiaro e accettabile.

Dicevo in apertura che il comportamento della famiglia d’origine durante l’affido dipende anche dall’adeguatezza e realizzabilità del progetto. Pren­diamo in esame il primo punto.

Se il mio progetto terrà conto solamente del bambino e non di tutti i membri del suo ambiente familiare e delle interazioni fra loro e con lui, si aprono dei grossi rischi per la sua realizzabilità.

Infatti, all’interno della famiglia di cui ci occupiamo, il livello di carenza e di bisogno è così diffuso e ampio che nel momento in cui si apre una prospettiva di aiuto inconsapevolmente si apre per tutti una speranza. I genitori del bambino sono altrettanto e forse più danneggiati e bisognosi del figlio; se dunque non inizia anche per loro un percorso di aiuto, possono desiderare e tentare di essere anche loro “un po’ figli di quei due signori così affettuosi”.

A volte i servizi stessi, nel vuoto assoluto in cui si trovano, ipotizzano questa come soluzione ottimale e cercano famiglie che accolgano il bambino ma offrono appoggio anche alla famiglia per aiutarla a crescere.

Se fosse realizzabile, non c’è dubbio che si tratterebbe della risposta ideale, ma, eccetto casi rari, le famiglie che si offrono di tenere un bambino non hanno le risorse di tempo e di preparazione necessarie per affrontare un compito così complesso e difficile che esula dalle normali capacità di una famiglia. Permetterlo, perciò, significa rischiare di creare una situazione squilibrata di peso eccessivo per la famiglia affidataria e di speranze frustrate per i genitori del bambino che potrebbero esprimere poi la loro rabbia attaccando il servizio, l’affido stesso e creando continue complicazioni e pressioni sul bambino.

Bisogna quindi che, nel loro progetto, gli operatori prevedano, contemporaneamente alla partenza dell’affido, uno spazio e un intervento qualificato per i genitori del bambino perché possano venire raccolti il dolore per l’allontanamento e le loro difficoltà riguardo all’affido, ma anche più in generale i problemi concreti o il senso di abbandono e solitudine che queste persone spesso portano dentro di sé fin dalla propria infanzia.

Se poi il progetto di affido prevede un recupero di una o entrambe le figure dei genitori, allora l’intervento offerto deve essere più completo e mirato al raggiungimento dell’obiettivo previsto.

I genitori del bambino in affido non sono gli unici che possono creare delle interferenze; dicevo prima che si apre una speranza per tutti e quindi non bisogna trascurare la posizione di tutti i fratelli e sorelle.

Di solito, la massa di problemi che ci sovrasta in questi casi ci spinge a non considerare tutti gli aspetti possibili o a sottovalutarli; ci troviamo così inspiegabilmente dopo poco tempo di fronte a un fratello o una sorella grande che ritenevamo ormai fuori dalle necessità della tutela e che non si erano mai particolarmente interessati dei fratelli più piccoli i quali protestano contro l’allontanamento, sobillano i genitori, lavorano contro l’intervento che mettiamo in atto.

È vero che non sempre possiamo offrire qualcosa a tutti i membri soprattutto se e quando questi si sottraggono. Però, possiamo, anzi dobbiamo, intuire e comprendere i legami esistenti e tenere un contatto chiaro con tutti i membri del nucleo, prevedendo come e quanto i loro eventuali comportamenti potrebbero interferire per impedirlo.

Questo vale anche per i fratelli più piccoli o per altri fratelli che contemporaneamente vengono allontanati (sia per un affido che per una collocazione in istituto), perché la loro sorte può esercitare pressioni più o meno consapevoli e attive sull’andamento del nostro affido e creare complicazioni anche gravi.

Ricordo una situazione in cui due sorelle erano state mandate in affido presso due famiglie diverse senza che nessun operatore avesse capito a fondo il legame un po’ perverso di soggezione della seconda nei confronti della prima, creatosi negli anni di convivenza familiare. Purtroppo questa sottovalutazione portò alla brusca interruzione dell’affido della seconda sorella, che pure stava svolgendosi in maniera soddisfacente, una volta che, per motivi forse di cattiva scelta della famiglia affidataria, l’affido della prima era terminato.

Oppure, riprendendo il caso dei signori Rossi, Riccardo il bambino in affido, dopo un primo miglioramento si impediva una ulteriore evoluzione e appiattiva il suo comportamento, ormai più consapevole e maturo, su quello totalmente deviato del fratello che era rimasto a casa nella speranza che questo modo di comportarsi lo aiutasse a recuperare quel legame coi genitori che sentiva perduto.

Un altro aspetto cui ho più sopra fatto cenno come fattore non secondario per un buon successo dell’affido è la realizzabilità del progetto, ma non abbiamo qui il tempo di vedere nei dettagli cosa questo può significare e perciò lo lascio alla vostra riflessione e, se si presenterà, ad un’altra occasione.

Consapevole però della difficoltà e della fatica che devono affrontare tutti i colleghi che si misurano, pur con entusiasmo e dedizione, con questo difficile compito di aiutare seriamente e profondamente le famiglie a costruirsi, e sapendo quanti momenti di sconforto si attraversano quando sembra che tutto quanto facciamo sia inutile o privo di significato di fronte all’enorme sofferenza di chi ci chiede aiuto, chiudo queste pagine con un breve racconto orientale che mi ha aiutato a capire.

 

Ognuno di noi può cambiare le cose

«Un giovane stava camminando lungo la spiaggia quando vide davanti a sé un vecchio che raccoglieva, una a una, le stelle marine rimaste proprio sulla battigia e le ributtava in acqua.

Lo osservò a lungo e alla fine rivolgendosi a lui gli chiese: “Perché lo fai?”.

Il vecchio gli spiegò che, una volta sopraggiunto il tramonto, le stelle marine rimaste abbandonate sulla battigia sarebbero morte.

“Ma – esclamò il giovane – la spiaggia è lunga più di mille miglia e ci sono milioni di stelle marine sulla battigia. I tuoi sforzi, per quanto grandi siano, che importanza possono avere?”.

Il vecchio guardò la piccola stella marina nelle sue mani e la gettò in mezzo alle onde, poi rispose: “Per lei sono sicuramente importanti!”».

 

 

 

(*) Psicoterapeuta infantile - Responsabile Ufficio zonale affidi di Monza ex USSL 64. Relazione tenuta il 10 novembre 1997 al corso di aggiornamento sull’affido familiare organizzato dall’Amministrazione provinciale di Oristano e dall’ANFAA.

(1)     Centro del bambino maltrattato.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it