LA
FAMIGLIA D’ORIGINE DURANTE L’AFFIDAMENTO FAMILIARE: IL RUOLO DEI SERVIZI
DONATELLA FIOCCHI (*)
Queste
pagine nascono da una lezione tenuta ad un corso di formazione e aggiornamento
sull’affido familiare e conservano quindi, con qualche naturale correzione, la
struttura e il linguaggio con il quale sono nate.
La decisione
di non trasformare l’intervento in un saggio teorico più complesso risponde al
desiderio di poter comunicare a tutti i colleghi che lo leggeranno, oltre alle
riflessioni che l’esperienza di dieci anni nell’Ufficio Affidi mi ha spinto a
fare, anche l’emozione e il coinvolgimento che trascina con sé questo lavoro.
Emozione e coinvolgimento che, come ho imparato nel tempo, per chiunque si
trovi a lavorare con le persone, oltre ad essere naturali compagni devono
diventare indispensabili strumenti di lavoro.
Ritengo
importante mettere in evidenza qui, e perdonatemi se si tratta di cose note,
questo aspetto tecnico della nostra professione che non è mai abbastanza
sottolineato in quanto per la complessità dei nostri interventi tende spesso a
sfuggire alla nostra attenzione, lo viviamo, ce lo sentiamo sulla pelle ma non
sempre siamo consapevoli che si tratta e deve diventare un vero e proprio
strumento.
Nel nostro
lavoro con le famiglie multiproblematiche veniamo in contatto con situazioni
così profondamente dolorose, con esiti di così pesante e grave deterioramento
che una grossa ansia, un continuo senso di emergenza e una costante
preoccupazione sono le nostre difficili compagne abituali.
A tali
condizioni ognuno di noi reagisce in maniera differente e personale, spesso
collegata inconsapevolmente ad avvenimenti lontani della nostra vita di figli.
È
fondamentale perciò imparare a capire ogni volta quali siano le proiezioni e le
reazioni personali e quali le reali esigenze dell’intervento. I sentimenti che
proviamo ci raccontano qualcosa su quello che succede fra noi e la persona, o
la situazione che abbiamo di fronte, ma dobbiamo imparare a capire con
chiarezza qual è il messaggio per poterlo usare e non disfarcene invece perché
troppo doloroso e difficile attraverso un comportamento qualsiasi che assolve
al solo compito di liberarci dal peso.
Se quando
costruiamo il quadro di una situazione familiare per formulare un progetto di
intervento spinti dal dolore che ci comunicano il padre o la madre e dal
desiderio di aiutarli, non ci accorgiamo di identificarci totalmente con loro e
con i loro sentimenti; sarà poi estremamente difficile percepire anche le reali
esigenze loro o dei loro figli.
Ugualmente
se ci saremo totalmente identificati con i sentimenti ed i bisogni del bambino,
sarà impossibile rendersi conto e comprendere certe reazioni o posizioni dei
genitori.
Nel primo
caso si tenderanno a prendere decisioni che subordinano il benessere del bambino
a quello di uno dei due genitori. Per esempio una madre ci parla della sua
storia di bambina abbandonata e sola e questo è ancora così vivo dentro di lei
e la rende tuttora tanto addolorata e triste da non permetterle di occuparsi di
altri che di se stessa. Si attacca ai suoi figli in maniera adesiva cercando di
consolare dentro di loro la bambina che è stata.
Se non ci
accorgiamo di quanto accade dentro di noi e ci identifichiamo totalmente con
lei aspetteremo a prendere qualunque decisione riguardante i suoi figli per non
ferire ancora quella bambina già provata, non riusciremo così mai a pensare di
allontanare i suoi figli, nel caso ovviamente in cui questa fosse la soluzione
utile per loro, perché ci sentiremo facilmente uguali ai suoi “cattivi” genitori
che non le hanno mai dato nulla di buono. In questo caso i figli non
beneficeranno certo di questa nostra posizione.
Se, invece,
siamo completamente catturati da quello che al bambino manca e dal desiderio di
mettere fine alla sua sofferenza, i suoi genitori ci appariranno come
intollerabilmente cattivi, da allontanare per sempre. Questo non ci permetterà
di pensare e valutare una loro possibilità di recupero e di formulare un
progetto che tenda a questo scopo, cosa ugualmente grave perché se il legame
fra i bambini che allontaniamo e i loro genitori è costruito e importante
creeremo delle lacerazioni difficili da risanare.
Di contro
nessuna famiglia affidataria ci parrà abbastanza adeguata per riparare i
diritti lesi di quel bambino con il risultato però che non riusciremo ad
attuare invece nessun affido.
Infatti,
come avrete già sentito altrove, è illusorio pensare che intervenire solo sul
bambino, allontanandolo, gli consenta di affrontare un cammino di evoluzione
positiva. Se non facciamo anche contemporaneamente un lavoro di comprensione
delle dinamiche familiari, non facciamo un lavoro di tutela corretta del
bambino. Come diceva una collega del CBM (1) di Milano in un caso analogo
«avremo spento l’incendio, ma ciò che è successo e il perché, rimarrà una cosa
oscura nella testa del bambino» e la sua crescita ne sarà impedita o comunque
danneggiata.
Le due
conseguenze più immediate di quanto detto sono in genere un collocamento del
bambino in istituto, senza che sia avviato alcun progetto per un lavoro con la
famiglia e una impossibilità a decidere per una famiglia affidataria reale con
un prolungamento dei tempi di ricovero sicuramente dannoso.
Quindi,
prima di tutto, il compito degli operatori dei servizi sociali di territorio
deve essere quello di capire in ogni momento dell’intervento cosa si sta
facendo e perché. Ognuno deve essere in grado, durante tutta la presa in carico
di un caso e lo svolgimento del progetto di affido, di rispondere a questa
breve domanda “Che cosa sto facendo in questo momento e con che obiettivi?”.
Soltanto
questo atteggiamento permette di aprire lo spazio ad una verifica di quel che
si sta realizzando, con tutte le possibilità di modificazioni che l’andamento
del caso può comportare.
Da non
sottovalutare poi un altro aspetto particolarmente importante: il fattore
tempo. Dal momento che l’ansia e l’angoscia che si sollevano nei casi che
seguiamo sono particolarmente elevate, è tendenza quasi naturale lasciare
scorrere il tempo attuando mille interventi di sostegno sui quali l’accordo con
la famiglia è totale nella inconsapevole speranza che prima o poi “tutto si
aggiusti”.
Purtroppo,
invece, questo si sposa con la tendenza della famiglia a negare che esista un
problema, nello stesso tentativo di eludere o diminuire la sofferenza. Si crea
allora una situazione di blocco che può durare anche anni.
Per il
bambino però questi mesi o anni sono fondamentali per sviluppare tutte le
caratteristiche e le capacità di un individuo sano. Dunque, durante tutto
questo tempo in solitudine e abbandono, anche se non sempre ne decifriamo i
segnali, si ribella, reagisce, ma se i suoi richiami e le sue richieste di
aiuto restano inascoltate si spengono; la sua fiducia nel fatto che i grandi
possano soddisfarlo e soccorrerlo svanisce. Impara che può fidarsi solo di se
stesso, si arrangia come può negando i propri bisogni, la propria fragilità e
debolezza, chiude i contatti con la realtà e si difende con i mezzi a sua
disposizione.
Per un
bambino arrivato in fondo a questo cammino sarà molto più difficile e a volte
impossibile riaprire tutte queste porte, affezionarsi agli “adulti” che tanto a
lungo lo hanno tradito, riconoscere e apprezzare quel che di buono gli viene
offerto dopo tanta sofferenza e tanto veleno.
Quindi per
il buon successo di un affido è fondamentale il momento in cui esso parte
rispetto al momento in cui nasce il disagio del bambino.
Le doti prime perciò degli operatori di un
servizio che possa davvero intervenire in maniera utile sono: una sempre
maggiore capacità di leggere correttamente i propri sentimenti e reazioni per
non farli interferire con le decisioni ritenute necessarie alla luce di una
attenta analisi, e un preciso progetto di intervento che magari si possa
modificare nel tempo secondo la necessità ma che sia il più completo e
tempestivo possibile.
Perché e
come tutto questo entra nella conduzione e nel ruolo successivo che il servizio
svolgerà nei confronti della famiglia?
Se nella
fase della presa in carico e della rilevazione della situazione abbiamo aderito
troppo alle richieste della famiglia distinguendo poco e male i nostri
sentimenti dai loro, avremo stabilito con essi un rapporto apparentemente di
fiducia e di sostegno, ma basato solo su una condivisione dei loro sentimenti
di abbandono e di tristezza e su un tacito accordo a non parlare di quello che
non va.
Nel momento
però in cui interverremo in maniera più normativa per l’attuazione di un
progetto o comunicheremo loro la necessità di ricorrere al tribunale per i
minorenni (TM), si sentiranno traditi e il rapporto si spezzerà con estrema
facilità rendendo impossibile o estremamente difficile una successiva
collaborazione. Oppure la lettura dei loro comportamenti e la spiegazione che
di essi avremo dato in comune, verrà così rafforzata dal nostro iniziale
consenso da costituire, in seguito, una difesa fortissima che servirà a non
prendere coscienza degli aspetti più dolorosi e sarà impossibile qualunque
lavoro o collaborazione.
Vediamo un
caso concreto: la famiglia Rossi. Il marito giardiniere, buon lavoratore ma persona
molto semplice e modesta, ancora estremamente infantile per il quale non
esistono differenze reali fra adulti e bambini. La moglie, inserviente di una
struttura ospedaliera, donna adeguata al suo compito senza troppe autonomie, in
realtà con gravi difficoltà personali di rapporto soprattutto nello svolgere la
funzione materna essendo cresciuta in istituto dai 3 ai 18 anni. Un primo
figlio di 5 anni e una bambina di uno.
Si crea una
situazione di crisi e di grave rischio per il maschietto che cresce curato e
accudito fisicamente ma abbandonato a se stesso per tutto il resto al punto che
da quando ha 5 anni esce di casa a suo piacimento, viene riportato indietro da
qualche vicino che lo incontra a tarda sera per strada e comincia a frequentare
una banda di zingarelli.
È vivace,
arrogante, disubbidiente, irrispettoso, prepotente e gelosissimo della
sorellina. Questi comportamenti nascono e si innestano su una profonda mancanza
all’esterno, e quindi anche all’interno, di figure genitoriali con cui
confrontarsi e da cui attingere aiuto. Per i due genitori ancora bambini
comunque un peso notevole superiore alle loro forze.
Il servizio,
puntando sulla stanchezza dei due genitori nell’accudirlo, allontana il bambino
convenendo con loro che si tratta di un bambino difficile da accudire, per
ottenre più rapidamente il consenso.
Durante la
permanenza del piccolo in comunità, il servizio formula un progetto di affido e
avendo nel frattempo fatto una prognosi negativa rispetto alle capacità di
recupero di un ruolo adulto dei due genitori chiede al TM un affido fino alla
maggiore età.
In attesa
del decreto del TM, gli operatori segnalano alla famiglia la decisione di
affido senza comunicare la valutazione fatta su di loro per impedire reazioni
negative che ostacolino il progetto. Inoltre, sul momento nessuno vuole
prendere in considerazione la seconda bambina «perché troppo piccola» e per
l’impossibilità non meglio definita «di toglierli di casa tutti e due».
La famiglia
accetta un affido consensuale e così pur senza che nessuno lo dica apertamente
si stigmatizza che Riccardo è “cattivo”.
Nella
famiglia affidataria Riccardo migliora, diventa meno ribelle e rabbioso tanto
che la mamma stessa se ne accorge. Qualche volta la sorellina va a trovarlo
dagli affidatari, e comincia a mandare segnali che gli operatori attentamente
colgono e progettano un affido anche per lei.
Quando lo
comunicano ai genitori questi rifiutano violentemente il nuovo intervento che
li obbligherebbe a prendere coscienza di essere loro gli “inadatti”. Troncano i
rapporti di collaborazione con il servizio, non si recano più agli incontri.
Fanno muro intorno alla piccola, colpevolizzando sempre più intensamente il
grande che deve dimostrare di essere il colpevole.
Il Servizio,
per proteggere Riccardo, perché la pressione su di lui è veramente troppo
negativa, deve così arrivare a diradare i suoi ritorni a casa proprio nel
momento in cui invece il bambino li desidera ardentemente. Per la piccola
diventa quasi impossibile qualunque intervento. È successo il contrario di
quanto si sarebbe voluto raggiungere.
Perciò, e
cito sempre le parole della collega Bertotti del CBM, il rapporto con la
famiglia d’origine da parte degli operatori deve avvenire all’insegna della
massima trasparenza, della assoluta sincerità relativamente alla situazione
nella quale si trova il bambino o alle sue possibili cause.
I genitori
hanno il diritto di sapere quali sono gli elementi che gli operatori hanno
rilevato su cui si chiede alla famiglia un cambiamento. Se i genitori non ne
sono informati è illusorio pensare che possano cambiare.
I signori
Rossi avrebbero potuto forse capire cosa non andava bene nel loro modo di fare
i genitori e mobilitare delle risorse di cambiamento, magari chiedendo più
aiuto, se fosse stata loro comunicata la totale verità.
Come vedete,
il modo iniziale di costruire la relazione determina quasi totalmente il
successivo andamento ed è quasi sempre la causa prima di una possibilità di
successo o di insuccesso.
Si parte, è
vero, da un momento di sofferenza: la presa di coscienza di una “mancanza”, di
un possibile danno passato o futuro; ma se il servizio si pone non come spalla
su cui piangere una irreparabile perdita, ma come capacità adulta di guardare
insieme al danno, di pensare e di realizzare insieme delle soluzioni, allora è
davvero un sostegno e un aiuto. Non per cancellare e negare onnipotentemente
una sofferenza ma per riuscire a superarla e a ricostruire insieme.
Dove questo insieme non significa non procedere, non
fare nulla, salvo sporadici e quindi inutili colloqui, fino a quando la
famiglia non è d’accordo con il nostro intervento, ma significa prevedere nel
progetto una parte anche per il genitore proprio perché, se sbaglia, ha, come e
forse più del proprio figlio, bisogno di aiuto.
La famiglia
a cui il servizio si rivolge sente che, se gli operatori spiegano loro con
chiarezza ogni cosa, ciò significa che li ritengono in grado di cambiare.
La
sofferenza così, attraverso la consapevolezza e il rispetto, può diventare
speranza. La consapevolezza dei comportamenti errati e dannosi e il rispetto
delle qualità umane che le persone possono anche mobilitare per raggiungere un
obiettivo ritenuto buono può trasformare la sofferenza in speranza di poter
riparare il danno, di poter far cessare la sofferenza.
È importantissimo
prestare attenzione e saper capire i segnali non verbali che le famiglie ci
mandano, ma anche imparare a leggere il significato di quelli che noi mandiamo
loro.
Il primo
affido realizzato all’interno del servizio nel quale lavoravo nel 1985 sembrava
iniziare con delle pesanti premesse. Il padre rimasto solo a casa con tre
bambini di 7, 6 e 2 anni era favorevole al loro collocamento in affido. La
madre, ricoverata per un periodo di nove pesi per polinevrite da alcool e
fortemente invalidata dalla malattia, minacciava il suicifio se l’affido si
fosse realizzato.
I tre
bambini, già molto fragili, erano a rischio grave di malattia mentale. L’affido
venne realizzato ugualmente spiegando alla signora i motivi per cui era utile
sia ai bambini che a lei e a suo marito.
Non solo non
ci fu nessun suicidio ma durante l’affido la signora stessa ci fu di grande
aiuto con le sue osservazioni per capire in quale caso il figlio stava meglio e
in quale stava peggio. La signora, liberata dal peso materiale e “morale” di
svolgere un compito per il quale si sentiva incapace, poté, con l’aiuto
dell’assistente sociale, pensare meglio a se stessa e ai problemi che le
impedivano di vivere meglio e riuscì a chiedere e a beneficiare di cure fisiche
e psicologiche che le permisero molti passi avanti.
In tutta la
realizzazione dell’affido il servizio ha una funzione essenziale e
ineliminabile, quella di adulto pensante, filtro obbligatorio e regolatore dei
rapporti di tutti i soggetti, mente che raccoglie gli elementi e li
ricostruisce in una unità perché il bambino, che è il beneficiario principale
di questo intervento, è uno solo.
A mio
parere, quello che tanto spaventa tutti nel realizzare l’affido è il senso di
vuoto e di perdita, la rottura di un legame all’interno di uno dei rapporti più
profondi per l’essere umano le cui radici hanno una base genetica. Credo
proprio, però, che si debba sottolineare quanto questa rottura non nasce e si
realizza nella famiglia del bambino quando viene fatto l’affido.
Questo
momento va spostato indietro prima dell’intervento: il senso di perdita già
presente nei fatti e percepito inconsciamente da tutti i componenti della
famiglia si concretizza e si svela quando l’affido si progetta e si comunica.
In quel momento, nell’immagine interiore mentale, emotiva, forse anche
cognitiva della famiglia si crea un vuoto e un senso di perdita che riempie di
panico, che non si sa come riempire.
Vorrei
sottolineare che questo senso di perdita non si crea solamente nei genitori del
bambino, ma negli operatori stessi e in tutti coloro che di queste storie
sentono solamente parlare e vedono soltanto l’atto estremo dell’allontanamento,
perché questo mette in pericolo la base stessa dell’identità basata proprio sul
legame genitori-figli.
Per questo,
per gli operatori è spesso così difficile da realizzare, per questo su vicende
per lo più sconosciute nella loro interezza si mobilitano città intere. Questa
è quindi la fase in cui bisogna fare particolare attenzione.
Ritengo però
che, una volta esaminati bene i nostri sentimenti, queste reazioni non ci
debbano spaventare. Possiamo sentire che quello di volerli a tutti i costi,
invece, è uno dei pochi regali che famiglie come queste, per altri versi
fortemente incapaci, possono fare ai loro bambini. Faccio questa osservazione
sorridendo ma per la tenerezza e senza ironia: per un bambino, sentire che il
proprio genitore lo vuole a qualunque costo e non accetta di abbandonarlo, è
una grande forza per la vita.
Una collega
assistente sociale in un servizio affidi vicino al mio, mi riferiva le parole
di una madre semplice e spontanea che, in occasione della comunicazione del
progetto di affido, aveva esclamato «io però qualcosa devo fare per i miei
figli! Allora mi oppongo al decreto!». Non è stato difficile aiutare questa
signora a capire quello che poteva veramente fare per i suoi figli: permettere
ai servizi sociali di aiutarli, d’accordo con lei, per costruire loro un
migliore futuro.Così, a mio parere, non sono da leggere negativamente i dati
che con sempre maggiore allarme vengono diffusi rispetto al modo in cui gli
affidi possono partire.
Come ho
avuto occasione di accennare alla conferenza regionale “Affidamento e dintorni”
svoltasi a Milano nel novembre 1997, il fatto che in Lombardia il 75% degli
affidi sia giudiziale, di per sé non è
un elemento da leggere negativamente. Sulla linea di quanto ho appena affermato
infatti questo indica solamente quanto queste famiglie, per altri versi pur
fortemente inadeguate, siano legate ai propri figli e quanto desiderino essere
genitori nell’unico modo possibile a loro disposizione: volerli a tutti i
costi.
Questo dato
non va sottovalutato e il progetto deve tenerne conto; tutti gli operatori che
lavorano in questo settore ben sanno che, insieme a questo, dai genitori di
questo tipo arrivano anche altri segnali, meno immediatamente decifrabili da
chi a questo mestiere è estraneo, attraverso i quali le persone chiedono
disperatamente aiuto nello svolgere un compito che sentono impari per le
proprie forze. Perciò il dato cui accennavo più sopra, per dare una
informazione più realistica sull’andamento dell’affido, dovrebbe essere messo
in relazione con quanto succede dopo il decreto del TM e forse avremmo la
sorpresa di scoprire che uno degli aspetti desiderati e richiesti dalla legge
per la realizzazione di questo strumento, la consensualità della famiglia
d’origine, è una utopia più che una condizione indispensabile.
Molto
spesso, infatti, in tutti questi casi di genitori fortemente inadeguati o
maltrattanti, quando infine il bambino viene allontanato veramente non resta un
buco, perché come persona, con le sue esigenze, il suo carattere, le sue
qualità o difetti il bambino reale non c’è: sovente non è ancora riuscito a
costruirsi, quindi non manca.
Anzi i
genitori, che prima percepivano con grande disagio e senso di colpa la propria
inadeguatezza e tentavano di nasconderla perché non sapevano come farvi fronte
o se ne sentivano schiacciati, sono ora spesso più tranquilli e si accorgono
sia del beneficio che i loro figli ricevono, sia che non li perdono in quanto
continuano a vederli a sufficienza per quel che possono loro dare.
Per chi come
me ha ormai 13 anni di esperienza non è più una novità che famiglie,
inizialmente anche molto contrarie al punto da arrivare con le opposizioni fino
alla Corte d’appello, oppure violentemente minacciose al punto da suggerire che
«dove si è ammazzato una volta si ammazza
due», abbiano alla fine dichiarato candidamente dopo qualche anno. «Se sapevo che l’affido era questo avrei
mandato anche tutti i miei altri otto figli».
Naturalmente,
perché questo si realizzi sono però indispensabili alcune condizioni. Di una di
esse si è parlato sopra e consiste nel rapporto corretto e chiaro, fin
dall’inizio, con la famiglia d’origine; un’altra, di importanza non secondaria,
costituisce uno degli spettri più frequenti nella realizzazione dell’affido ed
è quello della rivalità fra le due famiglie.
La nostra
esperienza ci dice, oltre alla teoria, che questa non si crea o è confinata
solamente ai casi di grave malattia mentale dei genitori del bambino,
situazione che prevede una organizzazione differente, quando, come prima
indicato, sono chiari fin dall’inizio tutti i termini del rapporto e il
servizio si pone come perno di tutto l’intervento.
Se questa
condizione è mantenuta costantemente con rispetto e attenzione ai bisogni di
ogni soggetto, crea di fatto una situazione di parità fra le due famiglie che
viene percepita da tutti. Non sono più la famiglia cattiva e quella brava che
si contendono il bambino, ma sono due famiglie che ubbidiscono entrambe al
servizio seguendo un progetto perché il bambino si possa sviluppare bene.
Questo permette di indirizzare le eventuali conflittualità verso il servizio
decisore che però può affrontarle utilizzando gli strumenti a sua disposizione
e così risolverle senza che questo porti ulteriore danno al bambino. Mentre il
rapporto fra le due famiglie rimane quello di uno scambio di cui il bambino è
l’elemento principale.
Il primo
atto di questa collaborazione è sempre, tutte le volte che è possibile, una
conoscenza fra le due coppie; questo attenua molte paure reciproche e permette
ad entrambi, al di là delle parole, di capire. Infatti i genitori senza volto
che si portano via nostro figlio e con ciò simbolicamente la nostra capacità di
procreare fanno parte dei fantasmi più primitivi della nostra evoluzione: le
streghe, le regine altezzose, gli orchi delle antiche favole ce ne parlavano
abbondantemente. Invece, se chi si occuperà di mio figlio, è quella signora
bionda un po’ grassoccia con l’aria gentile o quel signore coi baffi che sembra
il mio postino così simpatico tutto appare più chiaro e accettabile.
Dicevo in
apertura che il comportamento della famiglia d’origine durante l’affido dipende
anche dall’adeguatezza e realizzabilità del progetto. Prendiamo in esame il
primo punto.
Se il mio
progetto terrà conto solamente del bambino e non di tutti i membri del suo
ambiente familiare e delle interazioni fra loro e con lui, si aprono dei grossi
rischi per la sua realizzabilità.
Infatti,
all’interno della famiglia di cui ci occupiamo, il livello di carenza e di
bisogno è così diffuso e ampio che nel momento in cui si apre una prospettiva
di aiuto inconsapevolmente si apre per tutti una speranza. I genitori del
bambino sono altrettanto e forse più danneggiati e bisognosi del figlio; se
dunque non inizia anche per loro un percorso di aiuto, possono desiderare e
tentare di essere anche loro “un po’ figli di quei due signori così
affettuosi”.
A volte i
servizi stessi, nel vuoto assoluto in cui si trovano, ipotizzano questa come
soluzione ottimale e cercano famiglie che accolgano il bambino ma offrono
appoggio anche alla famiglia per aiutarla a crescere.
Se fosse
realizzabile, non c’è dubbio che si tratterebbe della risposta ideale, ma,
eccetto casi rari, le famiglie che si offrono di tenere un bambino non hanno le
risorse di tempo e di preparazione necessarie per affrontare un compito così
complesso e difficile che esula dalle normali capacità di una famiglia.
Permetterlo, perciò, significa rischiare di creare una situazione squilibrata
di peso eccessivo per la famiglia affidataria e di speranze frustrate per i
genitori del bambino che potrebbero esprimere poi la loro rabbia attaccando il
servizio, l’affido stesso e creando continue complicazioni e pressioni sul
bambino.
Bisogna
quindi che, nel loro progetto, gli operatori prevedano, contemporaneamente alla
partenza dell’affido, uno spazio e un intervento qualificato per i genitori del
bambino perché possano venire raccolti il dolore per l’allontanamento e le loro
difficoltà riguardo all’affido, ma anche più in generale i problemi concreti o
il senso di abbandono e solitudine che queste persone spesso portano dentro di
sé fin dalla propria infanzia.
Se poi il
progetto di affido prevede un recupero di una o entrambe le figure dei
genitori, allora l’intervento offerto deve essere più completo e mirato al
raggiungimento dell’obiettivo previsto.
I genitori
del bambino in affido non sono gli unici che possono creare delle interferenze;
dicevo prima che si apre una speranza per tutti e quindi non bisogna trascurare
la posizione di tutti i fratelli e sorelle.
Di solito,
la massa di problemi che ci sovrasta in questi casi ci spinge a non considerare
tutti gli aspetti possibili o a sottovalutarli; ci troviamo così
inspiegabilmente dopo poco tempo di fronte a un fratello o una sorella grande
che ritenevamo ormai fuori dalle necessità della tutela e che non si erano mai
particolarmente interessati dei fratelli più piccoli i quali protestano contro
l’allontanamento, sobillano i genitori, lavorano contro l’intervento che
mettiamo in atto.
È vero che
non sempre possiamo offrire qualcosa a tutti i membri soprattutto se e quando
questi si sottraggono. Però, possiamo, anzi dobbiamo, intuire e comprendere i
legami esistenti e tenere un contatto chiaro con tutti i membri del nucleo,
prevedendo come e quanto i loro eventuali comportamenti potrebbero interferire
per impedirlo.
Questo vale
anche per i fratelli più piccoli o per altri fratelli che contemporaneamente
vengono allontanati (sia per un affido che per una collocazione in istituto),
perché la loro sorte può esercitare pressioni più o meno consapevoli e attive
sull’andamento del nostro affido e creare complicazioni anche gravi.
Ricordo una
situazione in cui due sorelle erano state mandate in affido presso due famiglie
diverse senza che nessun operatore avesse capito a fondo il legame un po’
perverso di soggezione della seconda nei confronti della prima, creatosi negli
anni di convivenza familiare. Purtroppo questa sottovalutazione portò alla
brusca interruzione dell’affido della seconda sorella, che pure stava
svolgendosi in maniera soddisfacente, una volta che, per motivi forse di
cattiva scelta della famiglia affidataria, l’affido della prima era terminato.
Oppure, riprendendo
il caso dei signori Rossi, Riccardo il bambino in affido, dopo un primo
miglioramento si impediva una ulteriore evoluzione e appiattiva il suo
comportamento, ormai più consapevole e maturo, su quello totalmente deviato del
fratello che era rimasto a casa nella speranza che questo modo di comportarsi
lo aiutasse a recuperare quel legame coi genitori che sentiva perduto.
Un altro
aspetto cui ho più sopra fatto cenno come fattore non secondario per un buon
successo dell’affido è la realizzabilità del progetto, ma non abbiamo qui il
tempo di vedere nei dettagli cosa questo può significare e perciò lo lascio
alla vostra riflessione e, se si presenterà, ad un’altra occasione.
Consapevole
però della difficoltà e della fatica che devono affrontare tutti i colleghi che
si misurano, pur con entusiasmo e dedizione, con questo difficile compito di
aiutare seriamente e profondamente le famiglie a costruirsi, e sapendo quanti
momenti di sconforto si attraversano quando sembra che tutto quanto facciamo
sia inutile o privo di significato di fronte all’enorme sofferenza di chi ci
chiede aiuto, chiudo queste pagine con un breve racconto orientale che mi ha
aiutato a capire.
Ognuno di noi può cambiare le cose
«Un giovane stava camminando
lungo la spiaggia quando vide davanti a sé un vecchio che raccoglieva, una a
una, le stelle marine rimaste proprio sulla battigia e le ributtava in acqua.
Lo osservò a lungo e alla fine
rivolgendosi a lui gli chiese: “Perché lo fai?”.
Il vecchio gli spiegò che, una
volta sopraggiunto il tramonto, le stelle marine rimaste abbandonate sulla
battigia sarebbero morte.
“Ma – esclamò il giovane
– la spiaggia è lunga più di mille miglia e ci sono milioni di stelle
marine sulla battigia. I tuoi sforzi, per quanto grandi siano, che importanza possono
avere?”.
Il vecchio guardò la piccola
stella marina nelle sue mani e la gettò in mezzo alle onde, poi rispose: “Per
lei sono sicuramente importanti!”».
(*) Psicoterapeuta infantile - Responsabile Ufficio
zonale affidi di Monza ex USSL 64. Relazione tenuta il 10 novembre 1997 al
corso di aggiornamento sull’affido familiare organizzato dall’Amministrazione
provinciale di Oristano e dall’ANFAA.
(1)
Centro del bambino
maltrattato.
www.fondazionepromozionesociale.it