Prospettive
assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998
IL
DIRITTO ALLE CURE SANITARIE: L’ALTERNATIVA ALL’EUTANASIA DA ABBANDONO (*)
GIANNINO PIANA (**)
Vorrei subito precisare che il perno attorno a cui ruotano gli spunti di
analisi che cercherò di offrire è costituito dal diritto del malato alla cura,
con riferimento soprattutto ad alcune categorie di malati: i malati cronici
inguaribili, i quali vivono in situazioni particolarmente drammatiche e di
grande sofferenza. È facile collegare questo tema con la riflessione sulla
cosiddetta eutanasia da abbandono, che rappresenta l’altro polo – quello
negativo – presente nel titolo della relazione che mi è stata assegnata.
Prima di entrare nel vivo della riflessione, vorrei fare dunque una breve
premessa. La domanda eutanasica sta oggi sempre più crescendo all’interno della
nostra società come richiesta di legalizzazione dell’eutanasia non soltanto a
causa di una maggiore esigenza di autodeterminazione rispetto alla morte, ma
anche per altre motivazioni che sono strettamente connesse con le disfunzioni
della medicina nella nostra società. Infatti si hanno talvolta situazioni
drammatiche di malattie inguaribili, soprattutto in fase terminale, che vengono
lasciate a se stesse, senza alcun impegno curativo, mentre, d’altra parte, le
possibilità sempre maggiori offerte dalla tecnologia danno luogo a forme di
accanimento terapeutico, cioè a prolungamenti artificiali della vita, che
finiscono per dequalificarla penalizzandola nella sua dignità umana.
Tra le diverse motivazioni che ho sottolineato, vorrei soprattutto fermare l’attenzione
che spesso affiora, in modo insistito, come conseguenza dell’essere
abbandonati, cioè dall’assenza di cure, specialmente quando si vivono certe
tipologie di malattia. Gli spunti di riflessione che offrirò, sui quali il
dibattito consentirà di sviluppare ulteriori approfondimenti, saranno
articolati in tre momenti. Il primo sarà dedicato anzitutto a mettere a fuoco
le ragioni dell’abbandono di alcune categorie di malati nella società di oggi,
ragioni che spingono ad invocare l’eutanasia piuttosto che vedersi costretti a
vivere in condizioni umanamente inaccettabili.
Successivamente affronterò il tema del diritto alle cure, insistendo sulle
modalità secondo le quali va esercitato tale diritto, cioè in termini più
precisi sulla tipologia delle cure che devono essere fornite a coloro che
vivono in situazione di inguaribilità, e spesso nella condizione di
terminalità.
Al termine mi sforzerò di individuare alcune prospettive orientate alla
umanizzazione di questi stati di malattia. Il discorso sui diritti è infatti
fondamentale, ma non si può dimenticare che occorre andare al di là di essi, se
si vogliono offrire prospettive di futuro, sia pure limitate, sul piano umano a
soggetti che subiscono drammaticamente queste situazioni.
Le ragioni dell’abbandono
Il pericolo che, nella nostra società, si faccia strada la tendenza
all’abbandono di alcune categorie di malati è legato a molte ragioni.
La prima, e più fondamentale, è anzitutto una ragione di ordine culturale,
che non può non essere richiamata. Essa consiste nel fatto che la società di
oggi è largamente dominata da criteri di efficienza e di produttività, che
vengono fatti propri dalla stessa cultura, dando luogo a logiche di tipo
utilitaristico, che finiscono per creare situazioni di marginalità per alcune
categorie di persone. È indubbio che laddove i parametri di valutazione della
realtà sono di questo tipo si addivenga ad una vera e propria discriminazione
tra vita e vita, tra una vita che vale la pena di essere vissuta, protetta,
aiutata a crescere ed una vita che invece si considera ormai carente di
significato, e dunque viene abbandonata a se stessa trascurando di fornirle
quelle cure, che sono invece un diritto fondamentale di tutte le persone in
qualsiasi condizione di vita. La società odierna è carica al riguardo di
contraddizioni:
– per un verso viene affermandosi in maniera sempre più radicale il diritto
di tutti, in particolare di alcune categorie meno protette;
– ogni anno l’ONU promuove campagne a favore dei diritti dei bambini, degli
handicappati, dei malati, cioè di soggetti che vivono in condizione di
particolare precarietà;
– per altro verso, vengono invece sistematicamente negati nei fatti questi
stessi diritti.
D’altronde il nostro stesso modo di pensare è spesso segnato dalle logiche
utilitaristiche di cui parlavo, le quali fanno sì che la discriminazione nasca
dal profondo della nostra coscienza. Siamo tutti molto più disponibili a
fornire le cure a soggetti che hanno davanti a sé un futuro, piuttosto che a
soggetti giudicati inutili, perché non più produttivi, o addirittura tendenti
ad accollare alla società un peso non solo economico ma anche sociale.
A fronte della proclamazione astratta di forme sempre più allargate di
solidarietà, si fa strada oggi la tendenza a chiudersi entro prospettive di
vita individualistiche guidate dalla ricerca di interessi corporativi, al punto
che la società in cui viviamo è sempre più antisolidale.
In questo contesto va inserito un fenomeno che più direttamente tocca la
conduzione del sistema “salute” nel nostro paese; la tendenza alla
aziendalizzazione del sistema sanitario. Ho personalmente qualche difficoltà ad
accettare termini come azienda, manager, ecc. in questo settore, anche se so
che dietro ad essi si nascondono anche aspetti di valore; è giusto infatti che
il sistema sanitario si sviluppi secondo logiche meno clientelari e
caratterizzate da sprechi, di quanto non sia avvenuto in passato, se si vuole
secondo logiche più efficienti. Tuttavia la aziendalizzazione implica anche
grossi rischi, primo fra tutti quello di scelte ispirate esclusivamente a
logiche di efficienza e di produttività, guidate da criteri puramente
utilitaristici. Vi è, in altre parole, il rischio che il rapporto
costi/benefici, che nell’ambito della medicina ha sempre occupato un ruolo
centrale, venga interpretato in chiave rigidamente economicistica, anziché in
un quadro più allargato di attenzione ai reali valori umani.
Questo porta inevitabilmente a selezionare i malati, a rifiutare le cure ad
alcune categorie come quelle dei malati cronici non autosufficienti e non
guaribili, soprattutto se in fase terminale, che vengono spesso scaricati anche
dagli ospedali e abbandonati al proprio destino.
Si deve aggiungere – ed è questo un dato da non sottovalutare –
l’inadeguatezza della struttura ospedaliera, anche quando funziona secondo
criteri non puramente economicistici, ad accompagnare i malati inguaribili
soprattutto se terminali. Ciò è dovuto anzitutto alla mancanza di una
preparazione umana e psicologica del personale medico e paramedico a
fronteggiare situazioni complesse, come la tendenza conseguente a scaricare
questa tipologia di malati per la difficoltà ad accostarsi ai loro problemi, a
prendere seriamente in considerazione, in termini curativi, la loro condizione.
A questo si accompagna poi l’assenza di spazi adeguati a favorire un tipo
di accompagnamento del tutto particolare qual è quello che occorre realizzare
nei confronti di soggetti che vivono in uno stato di inguaribilità, e sono
pertanto oggetto di particolari situazioni di angoscia o sono incamminati verso
l’ultima frontiera, quella della morte. Si pensi soltanto alla dispersione
degli ospedali, alle forme di socializzazione coatta, alla condizione di
segregazione che inevitabilmente l’ospedale determina, alle forme di isolamento
prodotte da strutture molto ampie come quelle delle attuali realtà sanitarie.
Il diritto alla cura e il suo esercizio
Se questa è la situazione, come all’interno di essa deve essere
riaffermato, risignificato e rifondato il diritto alle cure? E ancora: quali
cure predisporre?
Credo sia importante, anzitutto, per radicare correttamente tale diritto,
tenere in considerazione la fondamentale distinzione tra inguaribilità e
incurabilità. Esistono senza dubbio malati inguaribili, i quali cioè possono
essere considerati clinicamente senza alcuna speranza di recupero della salute,
e che quindi vanno inesorabilmente incontro alla morte siano essi in fase
terminale o meno, ma non si hanno invece malati incurabili!
Ogni malato è passibile di cura. Di qui ha origine il diritto alle cure
come diritto fondamentale che va rispettato e promosso in tutte le situazioni,
in tutte le età, in tutti gli stadi di sviluppo della malattia, fino alla
morte. Questo diritto diventa ovviamente un dovere, non soltanto dei medici e
del personale paramedico, ma della intera società: un dovere perciò delle
strutture che hanno come compito il servizio nei confronti della salute, uno
dei beni fondamentali garantiti anche dalla nostra Costituzione, nella sua
prima parte. Lo stato sociale è infatti connotato
dalla salvaguardia di alcuni diritti, tra i quali primaria importanza riveste
il diritto alla salute. Curare è quindi sempre un dovere; ed è un dovere della
società in quanto tale attraverso le sue istituzioni.
Ma come questo diritto, che deve essere riconosciuto anche al malato
inguaribile, deve svilupparsi?
Ciò che contemporaneamente va tutelato, soprattutto nelle situazioni di
inguaribilità, è un doppio diritto; il diritto alla vita da una parte e il
diritto ad andare incontro ad una morte dignitosa, dall’altra. La cura deve
muoversi entro questo orizzonte, deve rispettare questa duplice esigenza, che
risponde, in ultima analisi, al bisogno di essere trattati come persona, e non
come “caso clinico” o come oggetto di compassione. Il che comporta che venga
preso seriamente in considerazione il valore della vita nei suoi aspetti sia
quantitativi, sia biologici, che soprattutto qualitativi: il problema non è
infatti soltanto di quantità ma di qualità della vita, la quale include anche
il rispetto della dignità del morire.
Il diritto alla vita e il diritto a morire dignitosamente come due diritti
che vanno tra loro combinati, devono stare alla base della scelta delle cure:
dal loro rispetto nasce infatti il parallelo rifiuto sia dell’eutanasia che
dell’accanimento terapeutico.
Il diritto alle cure diventa così diritto ad alcune forme di cure. Nei
confronti dei malati inguaribili grande rilievo assumono, al riguardo, le
cosiddette cure palliative, che hanno come obiettivo il rispetto della qualità
della vita del paziente, che tendono cioè ad assicurare possibilità di vita il
più possibile umane. Esse si ispirano al concetto olistico di medicina, che
implica attenzione alla persona e non solo al corpo, e suppone la
collaborazione tra medico, psicologo, assistente sociale e così via. Esse si
propongono soprattutto di alleviare, attraverso le terapie analgesiche, lo
stato di dolore per mettere il malato in condizione di vivere il tempo di vita
che ancora gli rimane nel modo migliore.
È questo in sintesi, il modo in cui deve estrinsecarsi il diritto alla cura
nelle situazioni alle quali è rivolta l’attenzione del convegno di oggi.
Prospettive per l’umanizzazione della vita
Al di là delle cure, che costituiscono un diritto irrinunciabile, che va
rivendicato, e promosso, esistono due cammini che devono essere percorsi per
giungere ad una vera umanizzazione delle situazioni cui si è ripetutamente
accennato.
Il primo cammino è costituito dalla restituzione di significato alla
malattia e alla morte. Sappiamo bene quanto malattia, morte, sofferenza sono
nella nostra società rimosse e quanto proprio questa rimozione suscita
conflitti e paure. C’è una sorta di circolo vizioso tra la rimozione e la
crescita della paura, nel senso che la rimozione alimenta la paura ma, al tempo
stesso, la paura provoca tentativi sempre più ampi di rimozione. Non dobbiamo,
in proposito, sottovalutare l’ambivalenza della sofferenza, la quale, per poter
essere riscattata, esige anzitutto di essere fatta oggetto di una azione di
resistenza. Guai ad indulgere verso una mistica della sofferenza, talora
affiorante anche nell’ambito del mondo dei credenti: essa dimentica che la
sofferenza può condurre ad una involuzione profonda della persona e che il
compito fondamentale dell’uomo deve essere quello di combatterla. Solo laddove
la si è combattuta fino in fondo, usando tutti gli strumenti a disposizione, si
può parlare di riscatto del suo significato umano; si può cioè far emergere la
possibilità di trasformare la sofferenza, e perfino la morte, in un momento di
autentica crescita interiore della persona, di riflessione su ciò che davvero
conta.
Questo aspetto del riscatto non può certo essere dimenticato soprattutto
all’interno della nostra società che sembra misurare tutto in termini di
benessere superficiale.
La morte rimane un’esperienza negativa, di scacco, anche per i credenti; lo
è stata per lo stesso Gesù Cristo, che ha gridato sulla croce: “Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?”. Ma la morte è anche possibilità di autocompimento.
Vivendo in una società e in una cultura molto lontana dalla natura e dai
suoi cicli, noi difficilmente riusciamo a capire esperienze come quelle che si
sono verificate in altre culture nelle quali l’anziano andava a lasciarsi
morire, non perché rifiutava la vita, ma perché riteneva che la vita avesse una
parabola, che ci fosse un momento di definitività.
Dobbiamo recuperare questa visione come per altro dobbiamo recuperare,
nella prospettiva più specificamente cristiana per chi è tale, il significato
della morte come evento penultimo, che apre ad un’ulteriorità. Non intendo
entrare in un’analisi più dettagliata, ma soltanto segnalare l’importanza che
ha la restituzione di significato a queste situazioni e la necessità di
elaborarle correttamente anche da parte di chi vive a contatto con coloro che
stanno facendo tali esperienze.
Il secondo cammino è rappresentato dalla creazione di condizioni per uno
sviluppo più umano dell’accompagnamento.
Si pensi all’importanza che assumono forme di ospedalizzazione più mirate a
far fronte alle problematiche specifiche di chi vive in situazione di
inguaribilità o di terminalità, mediante la produzione di trattamenti che siano
in grado di contenere certi stati di angoscia di fronte alla verità della
situazione.
Grande rilievo deve poi essere dato alle cure a domicilio, sia pure
integrate nel contesto di un discorso istituzionale più allargato. Non si
tratta di rifiutare l’ospedalizzazione, ma di accompagnare il malato, quando è
possibile, lasciandolo entro la propria casa, e consentendogli pertanto un
pieno sviluppo della qualità della vita.
Il contesto dentro il quale si è vissuti non è soltanto una struttura
muraria, ma un luogo di memorie, di affetti, di relazioni interpersonali. Ciò
suppone ovviamente l’offerta di un adeguato sostegno alle famiglie, perché
vincano lo stato di impotenza, che molto spesso si traduce o nella negazione
della verità oppure, inversamente, in un ipercoinvolgimento che impedisce
l’articolarsi di un rapporto sereno con il malato.
La creazione di spazi comunicativi è legata anche alla presenza del
volontariato, come presenza silenziosa, incentrata sulla testimonianza resa a
valori fondamentali come la gratuità, la compassione nel senso del patire con,
la solidarietà, la condivisione, che non è mai un sostituirsi all’altro, ma un
vivere accanto, un accompagnare appunto.
Il diritto alla cura diviene così la vera alternativa all’eutanasia da
abbandono: la messa in atto di queste prospettive è infatti la strada per il
superamento della tentazione al ricorso dell’eutanasia.
(*) Relazione tenuta al convegno “Inguaribilità e
incurabilità: il diritto alle cure sanitarie delle persone con malattie
croniche” (Torino, 7 novembre 1997) organizzato dal Collegio IPASVI di Torino,
dal CESPI - Centro studi delle professioni infermieristiche, dalla Scuola dei
diritti “Daniela Sessano” dell’ULCES, dal CSA - Comitato per la difesa dei
diritti degli assistiti e da Prospettive
assistenziali.
(**) Teologo.
www.fondazionepromozionesociale.it