la cassazione ed i contributi richiesti ai parenti dei
ricoverati
MASSIMO
DOGLIOTTI
Con una
motivazione assai lacunosa, la Corte di Cassazione affronta un argomento come
quello del pagamento delle rette di ricovero e della (presunta) rivalsa nei
confronti dei parenti “obbligati” (a che cosa e da chi?), che avrebbe meritato
ben altro approfondimento.
Il caso è
quello, assai frequente, del Comune che si rivolge ai parenti (nella specie, le
figlie) di un ricoverato povero, ed ottiene l’ingiunzione di pagamento. Il
giudice di primo grado accoglie le opposizioni dei parenti, sostenendo che il
Comune aveva indebitamente intrapreso un’azione alimentare. La Corte d’appello
riforma la sentenza, ritenendo che il Comune legittimamente abbia promosso
l’azione di rivalsa, che troverebbe la propria fonte in una legge regionale del
Piemonte, “mera specificazione” di leggi nazionali, come quella sulle IPAB (n.
6972 del 1890), sui ricoveri manicomiali (n. 36 del 1954) e sulle spese di
spedalità (n. 1580 del 1931): la rivalsa – a parere della Corte di merito – non
avrebbe natura alimentare, ma di diritto pubblico, «essendo il riferimento agli
obbligati di cui all’art. 433 del codice civile rilevante solo per la loro
individuazione».
La Suprema
Corte, pur ridimensionando alcune delle affermazioni della Corte di merito,
finisce per mantenere la sostanza della decisione impugnata. Si parte dalla
considerazione – ed è constatazione del tutto ovvia – che l’ente locale ha
corrisposto le rette di degenza all’istituto, «in precisa attuazione» della
funzione socio assistenziale, in relazione alla legge n. 372 del 1975 e al DPR
616 del 1977, che ha trasferito agli enti locali tutte le funzioni
amministrative statali nei servizi di assistenza e beneficenza (ivi compresa
anche l’attività di erogazione di servizi a pagamento). Si diffonde poi la
Cassazione in un’analisi della normativa regionale piemontese che, proprio su
tale base, introdurrebbe il principio della concorrenza da parte degli utenti
dei servizi sui relativi costi. Ma, con un salto logico, si giustifica, come
fosse coerente con tale principio (e non lo è affatto), «l’azione di rivalsa»
nei confronti dei soggetti obbligati. Ovviamente, nella legge 362 e nel DPR
616, non vi è il ben che minimo riferimento ad una possibilità di rivalsa nei
confronti dei parenti dei ricoverati.
Del resto,
si parla di una legge regionale, la n. 12 del 1988 (e meno male che la
Cassazione se ne avvede!) che si vorrebbe... rendere retroattiva, così da
disciplinare anche rapporti sorti e sostanzialmente conclusi prima della sua
entrata in vigore. Non è affatto pacifico – come sembra ai giudici della
Cassazione – che la suindicata legge regionale introduca una forma di
rivalsa nei confronti dei parenti degli assistiti, a favore del Comune. Si afferma,
come si diceva, che gli utenti sono chiamati a concorrere ai relativi costi e
che gli enti onerati possono promuovere l’azione di... rivalsa nei confronti
dei soggetti obbligati. Affermazione assai ambigua, che sembra riferirsi agli
utenti più che ai soggetti tenuti agli alimenti (la norma parla di soggetti
obbligati, e tali sono sicuramente gli utenti dei servizi: affermare che i
soggetti obbligati siano quelli tenuti agli alimenti è, ancora una volta, un
salto logico che la Cassazione non giustifica affermando del tutto
apoditticamente che «secondo una lettura sistematica e testuale» dell’art. 32
della legge regionale n. 12 (che essa peraltro non esplicita) i soggetti
obbligati non sono gli utenti. Ma perché dovrebbero essere i parenti tenuti
agli alimenti? Se così fosse, si potrebbe ipotizzare una questione di
legittimità costituzionale: la materia così delicata del rapporto tra utente e
parenti tenuti agli alimenti – perché è di questo che si tratta –
richiederebbe un intervento del legislatore nazionale, e non regionale.
Ma torniamo
alla riconosciuta «irretroattività» della legge regionale del 1988. La
Cassazione – e si deve evidenziare un ulteriore salto logico, assolutamente non
motivato – afferma che comunque tale legge si inserisce «nel quadro di norme» che
già prevedono una ripartizione degli oneri tra ente obbligato e utente nonché
la rivalsa verso soggetti diversi. Si indicano... a sproposito la legge 6972
del 1890 (l’art. 78 prevede soltanto il recupero delle spese a carico del
ricoverato risultato non indigente) e l’art. 1 della legge n. 1580 del 1931,
che regola (o meglio regolava) la rivalsa delle spese (non di ricovero, come
afferma la Cassazione) ma di spedalità. Tale disposizione – secondo la
Suprema Corte – è ancora in vigore; ma la sentenza in esame non spende una
parola per giustificare tale assunto, che appare estremamente rilevante ai fini
della decisione. Si indicano, nella pronuncia, alcuni precedenti, tutti
anteriori alla legge n. 833 del 1978, introduttiva del Servizio sanitario
nazionale, tranne uno (Cass. n. 11209 del 1992), ma anche in tal caso... la
Cassazione affermava la vigenza della norma senza minimamente giustificare tale
affermazione (senza contare che, nella specie, il rapporto dedotto in giudizio
– rivalsa nei confronti dei figli di un’anziana donna ricoverata – si era
interamente svolto prima della legge n. 833). Si deve invece ribadire che tale
normativa appare in netto contrasto con la logica e le caratteristiche del
sistema sanitario nazionale, introdotto dalla riforma del 1978. Va, a tale
proposito, ricordato che, secondo un’altra sentenza della Suprema Corte (Cass.
n. 7989 del 1994), il recupero delle spese di spedalità era disciplinato dalla
legge n. 1580 del 1931, anteriormente alla legge n. 833, ed oggi dall’art. 69 di
questa legge (ma tale articolo, com’è noto, si limita a precisare che tra le
entrate del Fondo sanitario nazionale si collocano anche i «recuperi a titolo di rivalsa», senza minimamente indicare chi
siano i soggetti tenuti).
Ma se si
dovesse considerare vigente la norma del 1931, non sarebbe comunque
giustificabile l’interpretazione ingiustamente estensiva che dà la Cassazione
delle spese di spedalità (e dunque delle spese di degenza in ospedale o in
strutture differenti, ma sempre comunque collegate ad una prestazione
sanitaria) fino a ricomprendervi spese socio-assistenziali che sarebbero,
secondo la pronuncia, le uniche a presentare un “indubbio” (?) margine di
applicabilità: venuto meno il
presupposto originario (spese di degenza in ospedale o strutture equiparate)...
la legge vivrebbe ancora in virtù di un’applicazione a rapporti (quelli
socio-assistenziali) cui il legislatore del 1931 non intendeva assolutamente
riferirsi.
Senza
contare che la legge del 1931 non potrebbe sottrarsi a dubbi di costituzionalità
(tale profilo non è mai stato preso in esame dalla Consulta), indicando i
parenti, tenuti agli alimenti, dei soggetti ricoverati: com’è noto, in materia
alimentare il soggetto è tenuto a corrispondere una somma periodica, in quanto
vi sia una pronuncia del giudice, che abbia valutato i presupposti
dell’obbligazione (e dunque lo stato di bisogno dell’alimentando e le
condizioni economiche del soggetto tenuto). Si attribuirebbe così un
ingiustificato privilegio alla Pubblica amministrazione che potrebbe agire
verso i parenti tenuti, senza considerare le loro condizioni economiche (e
comunque senza necessità di un provvedimento giurisdizionale).
Emerge,
dunque, da quanto si è osservato, la contraddittorietà del ragionamento della
Suprema Corte e la quantità di profili e problemi che essa avrebbe comunque
dovuto prendere in considerazione.
Va quindi
precisato che, allo stato della nostra legislazione, una norma di rivalsa verso
i parenti che legittimi una sostituzione processuale dell’assistito da parte degli
enti erogatori, appare assolutamente inesistente. Al di là di quanto si è detto
sulla legge n. 1580 del 1931, sembrano del tutto privi di fondamento anche gli
altri tentativi di giustificare un potere di sostituzione processuale dell’ente
erogatore: ove quest’ultimo chiamasse in giudizio il parente tenuto agli
alimenti, la domanda non potrebbe che essere respinta. Non si potrebbe far
riferimento all’art. 7 della legge n. 6872 del 1890, per cui spetta alla
congregazione di carità (poi ECA, oggi Comune) la cura degli interessi dei
poveri e la loro rappresentanza legale dinanzi all’autorità amministrativa e a
quella giudiziaria: in realtà, tale norma è da intendersi come previsione di
salvaguardia e protezione verso i “poveri” visti come collettività, e non nei
confronti del singolo individuo. Non possono esservi eccezioni: o l’individuo è
capace e allora agisce da sé, o è incapace, e allora agisce in sua vece il
rappresentante legale, il tutore nominato dal giudice; altre possibilità non
sono date. Né può richiamarsi l’art. 2041 del codice civile: l’azione di
ingiustificato arricchimento, per cui chi senza giusta causa si è arricchito a
danno di una altra persona, è tenuto ad indennizzare quest’ultima della
correlativa diminuzione patrimoniale. Il riferimento è del tutto errato: non si
potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il parente tenuto agli
alimenti finché questi non siano richiesti dal beneficiario. Ad analogo
risultato conduce l’esame dell’art. 155 del testo unico della pubblica sicurezza.
È vero che la norma prevede una possibilità di diffida, da parte dell’autorità,
ai congiunti di un mendicante, inabile al lavoro e privo di mezzi, tenuti per
legge agli alimenti, ma il rapporto si costituisce tra parente e povero
direttamente, e non nei confronti dell’istituto di ricovero. Riprova di ciò è
data dal contenuto del secondo comma della norma: decorso il termine della
diffida, l’inabile al lavoro è ammesso di diritto al beneficio del gratuito
patrocinio per promuovere il giudizio degli alimenti; ancora una volta non è
prevista alcuna sostituzione processuale da parte dell’ente erogatore.
Nulla è
perduto dunque se non purtroppo per i protagonisti (i soggetti “obbligati”) (sic!) di questa vicenda. Per il futuro
la Cassazione, come si spera e si auspica, potrebbe (e dovrebbe) cambiare
opinione.
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