Prospettive assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998

 

 

MEDICINA E INGUARIBILITÀ: UNA PROSPETTIVA STORICA (*)

GIORGIO COSMACINI (**)

 

 

Medicina e inguaribilità hanno come denominatore comune la nozione di salute. Medicina è infatti, da secoli, l’arte-scienza della cura e della guarigione, cioè della tutela della salute e del suo ricupero. Inguaribilità è, anch’essa da secoli, la categoria medica ed esistenziale che caratterizza la salute negata o perduta.

La salute, dal canto suo, è una costante naturale e una variabile storica. Come costante naturale, essa comporta una continuità, ripetitività, ritmicità, regolarità di funzioni dell’organismo che rendono biologicamente simili fra loro l’uomo greco antico e l’uomo d’oggi. Come variabile storica, essa comporta invece una mutazione di fatti e d’idee, di concetti e di valori, che crea tra l’uno e l’altro uomo una dissimiglianza o discontinuità percepibile in termini socioeconomici, culturali, mentali. La menopausa, ad esempio, cade oggi in una età non molto diversa da quella in cui cadeva nell'antica Grecia o nell’antica Roma. La vera differenza è che allora non era facile arrivarci: le donne che ci arrivavano erano poche, avevano buone speranze di continuare a vivere ancora, ma erano una minoranza. La maggior parte moriva prima, molte in età neonatale o infantile come i maschi, molte per complicazioni della gravidanza e del parto, molte come i maschi per malattia. Nei maschi le fatiche della schiavitù e le guerre facevano le veci delle gestosi e dei parti distocici. Diventar vecchi, insomma, voleva dire, soprattutto, essere fortunati.

Per un termine di riferimento biologico invariante, variati invece, e di molto, sono i riferimenti d’ordine sociale e ideologico. Oggi, nei paesi economicamente avanzati, diventar vecchi è considerato un diritto, che comprende il diritto alla tutela della salute e dell’ambiente di vita, il diritto all’assistenza contro gli eventi morbosi, il diritto all’assistenza e alla vita protetta, il diritto alla sicurezza, il diritto – ma qui le opinioni non sono concordi – alla scelta di come affrontare la fase terminale di una malattia inguaribile. Tutto ciò, ovviamente, non tocca le popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, da cui ci divide non tanto lo spazio geografico, quanto il tempo che intercorre tra noi e il Medioevo.

Questa storicizzazione della salute e della malattia può – deve – essere applicata anche alla salute perduta e alla malattia non guaribile.

Partiamo da lontano. Nel mondo di Omero non c’era posto che per i morti o per i vivi, questi ultimi viventi di vita piena e pertanto tutti valorosi o validi. In quel mondo di eroi non c’era posto per gli invalidi e i malati cronici. I vivi o erano sani o erano risanati, guariti. La cura mediata dai phàrmaka, prestata da Podalirio e Macàone, gli asclepiadi guaritori, era sinonimo di guarigione. Il curante o era guaritore o non era. Le malattie inguaribili certo esistevano; quel che non esisteva era il concetto di inguaribilità.

Ma nel mondo di Esiodo, nella stessa realtà ellenica, il concetto si affermava, in parallelo al mutare del concetto di malattia. Nel mito esiodeo di Pandora, questa era colei che, come dice il suo nome, possedeva “tutti i doni” e li elargiva: anche quelli malvagi, contenuti con quelli benefici nel vaso che portava con sé. Era dall’orcio di Pandora che fuoriuscivano tutti i beni e tutti i mali dell’umanità. Fra i doni malvagi c’erano i dèmoni della malattia e della morte, della fatica e della vecchiaia, degli affanni e del dolore. Fino allora, dice Esiodo:

«viveva sulla terra, lontana dai mali, la stirpe

mortale, senza la sfibrante fatica e senza il morbo

crudele che trae gli uomini alla morte: rapidamente

infatti, invecchiano gli uomini nel dolore. Ma la

donna, levando di sua mano il grande coperchio

dell’orcio, disperse i mali, preparando agli uomini

affanni luttuosi».

Tra questi affanni c’era l’inguaribilità dei mali e, quel che più conta, c’era il concetto dell’inguaribilità come problema esistenziale dell’uomo.

Facciamo, per necessaria brevità espositiva, un salto di secoli. In quel consistente raggruppamento di secoli che la storiografia tradizionalista, fino a qualche decennio fa, ci tramandava con l’etichetta di “secoli bui”, una molteplicità di pia loca e poi di loca hospitalia – luoghi dell’ospitalità devota e caritatevole – aprivano le loro porte non solo ai pellegrini e ai viandanti, ma anche e soprattutto a quei viandanti precari sulla via della vita, dall’alba al tramonto, che erano i bambini senza famiglia, i vecchi senza risorse e, in special modo, gli infirmi, cioè coloro che pativano – pazienti – e sopportavano – pazientemente – una condizione di vita invalidante. La loro invalidità si contrapponeva, nelle parole e nei fatti, alla valetudo, intesa come autosufficienza e come salute corporale. Privi dell’una e dell’altra erano tutti coloro che vivevano là dove la malattia, la sofferenza, la mancanza, il bisogno erano prodotti dalle stesse precarie condizioni di esistenza, erano le scadenze ineluttabili di un triste destino, necessitato dalle scorrettezze della natura e dalle sregolatezze della società.

Il nome e il concetto di infirmus era strettamente legato, o addirittura identificato, con il nome e il concetto di pauper. I due nomi e concetti venivano giustapposti, citati in un sol fiato nella locuzione ricorrente: pauperes infirmi. Tra i due si realizzava uno scambio reciproco di significati, facendo dell’uno e dell’altro, alternativamente, un attributo e un sostantivo: l’infermo povero e il povero infermo. Essi esprimevano una categoria composita, senza troppa distinzione tra indigenza economica ed emergenza sanitaria, con inclusi i vagabondi, i mendicanti, i pezzenti, ma anche gli storpi, i ciechi, i folli, i vecchi non autosufficienti e i cronici, piagati, “lazarosi”, “cancherosi”: la folla, in una parola, dei malati inguaribili.

Un ulteriore salto secolare ci porta dai “secoli bui” a quella età solare che la storiografia designa con il nome di “rinascimento”. In un’Europa cinquecentesca, diversa da prima anche perché al Vecchio Mondo si è aggiunto il Nuovo Mondo, da quest’ultimo giungeva inatteso il male inguaribile per antonomasia, però etichettato non come tale, ma come “male incurabile”, a proposito del quale un distico del tempo diceva:

«ch’il cura? ogn’uom;

chi lo guarisce? morte».

Era l’inguaribile “mal franzese” o sifilide, una malattia mai vista prima né udita – letteralmente “inaudita” – giunta improvvisa e inattesa a scompigliare difese organiche impreparate e reti concettuali inadeguate. Prima acuta e poi cronica, essa veniva accolta in appositi nosocomi, denominati ospedali degli incurabili, così detti per significare che si trattava di malati inguaribili, e in Italia istituiti a Genova, nel 1499, a Savona e Bologna, nel 1513, a Roma, nel 1515, a Napoli, nel 1517, a Vicenza, nel 1518, a Verona, nel 1519, a Brescia, nel 1520, a Firenze, nel 1522, a Padova, nel 1526.

Nella funzione di ricovero e cura dei malati “infranciosati” questi ospedali per inguaribili sostituivano i vecchi lebbrosari. Come il lebbroso dell’Alto Medioevo, e diversamente dall’appestato del Basso Medio Evo, l’“infranciosato” del Rinascimento era un malato inveterato, inguaribile, convivente più o meno a lungo con la propria malattia invalidante, cioè vivente di salute residua, di vita a termine.

A Milano, in una relazione – la prima a stampa – sul funzionamento di un grande nosocomio, l’Ospedale Maggiore, si scriveva nel 1508 che essendo le malattie «o cronice o de qualità che presto son terminate vel con salute vel con morte», quelle «de presta terminatione son designate al hospitale grande»; invece i «mali de altra qualità, quali vogliono tempo» – e cioè i malati «brossolosi» (cioè sifilitici), «infecti da cancrene [e cancheri]», «debilitati per vechieza» o che «de cervello manchino sive sono furiosi» – «hanno la receptione sua separata».

È detto esplicitamente che tra i malati, a prescindere dal fatto che tutti dovevano essere premurosamente assistiti, quelli suscettibili di guarigione dovevano essere ricoverati all’Ospedale Maggiore, mentre quelli la cui salute piena non poteva essere ricuperata o la cui salute residua necessitava di assistenza più o meno prolungata dovevano essere ricoverati altrove, in altri ospedali a ciò espressamente destinati. Per esempio, «li infirmi de la egritudine scoperta in questa nostra etate, chiamate de brossole» (cioè i malati affetti dall’inguaribile sifilide), dovevano essere «particularmente designati come in loco più capace al hospitale de Brolio», cioè nell’ospedale satellite, contiguo al Maggiore, sito nel luogo dell’odierna piazza di San Nazaro in Brolo.

Facciamo un altro salto di secoli, ed è l’ultimo. Nella realtà patologica e sanitaria dell’Ottocento, quando ancora non s’era compiuta la “rivoluzione medico-scientifica” legata ai nomi di Virchow, di Claude Bernard, di Pasteur e di Koch, che avrebbe portato la medicina verso la tecnoscienza di oggi, in un Discorso della morale del medico, pubblicato a Milano nel 1852, il medico Giuseppe Del Chiappa, docente a Pavia, prescriveva ai più giovani colleghi come norma deontologica ed etica il «volar ne’ ricetti sacri al dolore, e addurvi, secondo che più lice, sanitade, speranza, consolazione». Scriveva a chiare lettere che il medico deve «palliare, ove il guarir non ha luogo».

Curare non vuol dire guarire. Lo sa il paziente; e il vero curante sa che non esistono mali incurabili, perché di ogni paziente bisogna prendersi cura. Esistono invece mali inguaribili. Ebbene, nei tempi lunghi o brevi di questi mali, il mestiere di medico è chiamato a esercitarsi tra scienza e valori umani: tanto più nei momenti brevi o lunghi del morire. Chiosava il suo “galateo medico” il Del Chiappa: «Pochi uomini sanno morire. Anche più pochi sanno in qual modo deesi regolare la morte degli altri».

Siamo a noi. Il medico d’oggi è certamente un tecnico. Ma non può essere medico vero – scrive nel libro sull’«agire medico», pubblicato dieci anni or sono, Anschütz – senza «appartenere a quel folto gruppo per il quale i problemi degli anziani, dei malati di cancro, delle guarigioni impossibili, dei pazienti cronici [di tutte le età], di coloro che muoiono in casa [o in ospedale], di quanti vengono limitati dall’arteriosclerosi, sono all’ordine del giorno».

È il vasto campo dell’inguaribilità, di un quantum  di salute residua da sostenere con le risorse della tecnologia terapeutica e che nella soggettività di ciascun paziente corrisponde alla personale misura di benessere o malessere, più o meno colma a seconda delle risorse dell’antropologia curativa, del rapporto interumano. Medico curante, dice ancora Anschütz, è colui «che affronta il compito di annunciare una fine ormai prossima [...] e che in tal modo partecipa con la massima emozione al rapporto».

Il rapporto è quello interpersonale tra il medico e il paziente, un rapporto per il quale – nella pòlis greca cui siamo debitori della nostra civiltà occidentale (la città di Ippocrate, di Socrate e di Pericle) – la lingua scritta e parlata contemplava un caso verbale intermedio tra il “singolare” e il “plurale” – il “duale” – adeguato a esprimere il rapporto a due, di amicizia, e l’azione emotiva inerente a tale rapporto, un’azione massimizzata nel tempo del morire. «L’uomo», diceva il grande clinico Ludolf Krehl sottolineando l’importanza dell’esperienza emozionale proprio nel tempo della vita a termine, «diviene medico solo quando sa compiere questa azione». Oggi le contraddizioni del vivere quotidiano – tra opulenza e miseria, affollamento e solitudine, competizione ed emarginazione, disoccupazione e stress – comportano un grande numero di fattori di rischio responsabili di situazioni morbose che si chiamano incidenti, disadattamenti, disabilità, conflittualità, alienazione individuale, emarginazione sociale.

C’è un fattore di rischio in più, costituito dalla longevità relativa della popolazione. Alla “rivoluzione terapeutica” dei farmaci e vaccini, alla “rivoluzione tecnologica” delle macchine diagnostiche e terapeutiche guidate dalla mano e dalla mente dell’uomo, si aggiunge, nei paesi a sviluppo avanzato, la rivoluzione anagrafica, dovuta in buona parte a quegli stessi farmaci e vaccini e a quelle stesse macchine.

Nel breve volgere di due generazioni si passa da un’attesa di vita alla nascita non molto diversa da quella dei primi anni del secolo a quella di fine Novecento che prevede 75 anni per gli uomini e 85 anni per le donne. Si profila inoltre un sorpasso epocale: il numero dei “vecchi” di età superiore ai sessantacinque anni che sorpassa il numero dei “giovani” di età inferiore ai quindici anni.

La longevità, accompagnata da una “salute residua” vissuta con più o meno buona qualità di vita, deve non poco alla farmacologia e alla tecnologia medica. Però mette in crisi la stessa medicina. La capacità di quest’ultima di bloccare il fattore selettivo della malattia – quello che opera nelle società animali selezionando il più forte ed eliminando il più debole – sposta sempre più in avanti la scadenza della vita, generando in molti, anche in molti medici, la convinzione scientista e tecnicista della longevità garantita in condizioni di salute ottimali o quanto meno accettabili.

Di fatto la farmacologia e la tecnologia medica creano un tempo di vita in più che solo alcuni vivono nella quasi pienezza delle proprie risorse psicofisiche, mentre altri, sempre più numerosi, vivono in una multiforme condizione di malessere segnata da molte emergenze morbose che può giungere fino alla perdita dell’autonomia e della coscienza vigile, moltiplicando le situazioni di disabilità e di disagio ed esigendo in pari tempo un maggior impegno umano e sociale sul fronte dell’assistenza e della cura.

Questa quota di popolazione vive solo se le energie perdute dal singolo, anziché sopraffatte come nell’economia biologica delle società animali diverse da quella umana, vengono surrogate e fornite da una rete medico-sanitaria e socio-sanitaria a maglie strette. Le società sviluppate fanno oggi i conti con una situazione nuova che emerge come un grande iceberg: è una vasta terra emersa popolata da longevi e da sopravviventi di tutte le età che incarnano un complesso di bisogni ­– individuali e sociali, tecnici e umani – tanto onerosi sul piano dell’economia sanitaria quanto impellenti sul piano della bioetica.

Etica ed economia sono oggi due facce della stessa pregiata moneta da investire nella cura globale della persona umana. La bioetica definisce l’area dei concetti e dei valori entro cui si disegnano i problemi morali delle scienze della vita; e inerisce al fine di indicare che ogni presente e futuro acquisto scientifico-tecnico dev’essere utilizzato per migliorare la qualità della vita umana. Essa concerne “questioni di vita” poste non solo all’inizio della vita ­– come lo statuto dell’embrione umano e le tecniche di riproduzione assistita – ma anche alla fine della vita – come l’accanimento diagnostico e terapeutico, l’eutanasia e la cacotanasia – oppure seminate lungo il vivere quotidiano, quali le relazioni tra medico e paziente, tra curante e curato, tra “efficienza” delle cure intesa come rendimento (rapporto costi-benefici) ed “efficacia” delle cure medesime intesa come incremento degli indici di salute e come diminuzione della disuguaglianza di fronte alla malattia.

In questo ambito fra economia ed etica, fra etica e scienza, fra scienza e valori umani, ha grande rilevanza – una rilevanza ben maggiore che nell’Ottocento – il “palliare dove il guarir non ha luogo”, cioè la cultura delle cure palliative, supportata dalla coscienza dei limiti della scienza e dei limiti del proprio corpo.

 

 

(*) Relazione tenuta al convegno “Inguaribilità e incurabilità: il diritto alle cure sanitarie delle persone con malattie croniche” (Torino, 7 novembre 1997) organizzato dal Collegio IPASVI di Torino, dal CESPI - Centro studi delle professioni infermieristiche, dalla Scuola dei diritti “Daniela Sessano” dell’ULCES, dal CSA - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti e da Prospettive assistenziali.

(**) Medico, storico e scrittore.

 

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