sono un immorale: per i più deboli ho chiesto il rispetto
delle leggi vigenti
FRANCESCO SANTANERA
Sono pentito. Riconosco di essere
stato e di essere una persona immorale. Ho compiuto attentati gravissimi contro
i valori fondamentali della famiglia e dello Stato. Sono, inoltre, uno
spudorato difensore dei benestanti.
Veniamo ai fatti, e cioè alla
confessione dei miei misfatti.
1. Una sentenza valida
Nel n. 2/1997 di Politiche sociali, rivista edita dalla
Fondazione Zancan con la collaborazione della Caritas italiana, Nicoletta
Volpin illustra correttamente la sentenza emessa dal Tribunale di Verona in
data 14 marzo 1996, che aveva preso in esame la questione riguardante due
coniugi anziani, colpiti da patologie croniche, ricoverati in una casa di
riposo.
Le spese relative erano state
sostenute dal Comune di Verona che aveva chiesto alla magistratura di
condannare un figlio e tre nipoti al pagamento di una parte della retta.
Il Tribunale di Verona aveva
respinto l’istanza sostenendo che «l’obbligo
alimentare risponde a un dovere solidaristico ancora attuale nell’ambito
familiare, ma soggetto al criterio della facoltà dell’avente diritto di valersi
o meno del suo diritto nei confronti dei congiunti, diritto che per la sua
connotazione personalistica non può essere oggetto di esercizio da parte di
terzi» (1).
2. Il giudizio negativo di Filippo Lorenzi
Sul n. 3, 1998 di Politiche sociali esce un commento alla
suddetta sentenza di Filippo Lorenzi che, fra l’altro, sostiene quanto segue:
a) «il dovere pubblico alla diagnosi e alle cure (in base alla legge n.
833 del 1978) di per sé non esonera né l’utente né i suoi familiari, in
relazione alle loro possibilità, dal concorrere alle relative spese, con
eventuale integrazione da parte dei Comuni per le persone o famiglie non
abbienti. Né dal dettato costituzionale, né dalla successiva normativa si
evince che i relativi oneri siano interamente a carico della finanza pubblica,
che ha l’obbligo di “fare”, non quello di “sostenere interamente gli oneri”»;
b) «mi sembra opportuno che l’utente (nel caso, l’anziano non
autosufficiente) venga distinto in relazione al tipo e alla durata del
trattamento, deputando gli interventi acuti alla sanità e quelli cronici
all’assistenza: distinzione che, di massima, appare funzionale (fatto salva
l’integrazione tra assistenza sanitaria e sociale)»;
c) «ritengo frutto di un equivoco affermare che il servizio sanitario
tenda a “scaricare i costi relativi alla cura dell’anziano sulla famiglia o sul
sistema assistenziale”. Il principio di sussidiarietà impone di partire proprio
dagli utenti e dai familiari, se essi ne hanno la possibilità. Per gli
indigenti provvede il Comune. Non si comprende perché la collettività dovrebbe
assumere il relativo onere anche per le persone o le famiglie abbienti, o
escludere l’apporto (pur parziale) dell’utente e dei suoi familiari, salvo
l’apporto dei Comuni. Questo è “attribuire”, non “scaricare”»;
d) «le Regioni hanno il compito di programmare gli interventi (per acuti,
convalescenti, cronici, lungodegenti); ciò non significa affatto che esse
debbano provvedervi in proprio, né tanto meno che il relativo onere in ogni
caso debba ricadere sulla sanità».
3. La mia temeraria replica
Di fronte alle affermazioni del
Lorenzi (2) mi sono permesso (fatto gravissimo e imperdonabile) di esporre (3)
il pensiero del CSA e mio sulla questione dei contributi richiesti ai parenti
degli assistiti maggiorenni osservando che «la
legislazione vigente distingue tra sfera pubblica e sfera privata e attribuisce
esclusivamente ai componenti di ciascuna famiglia la facoltà (non l’obbligo!)
di richiedere gli alimenti agli appartenenti al suo stesso nucleo». Al
riguardo, mi sono spinto a precisare che il primo comma dell’art. 438 del
codice civile così si esprime: «Gli
alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è
in grado di provvedere al proprio mantenimento».
Da quanto sopra descritto ho
anche dedotto in modo sconsiderato che «spetta
alla persona interessata decidere se chiedere o meno gli alimenti, valutando se
l’iniziativa può comportare conseguenze negative», e stoltamente ho
aggiunto che «ad esempio, compete al
nonno scegliere se richiedere al proprio figlio gli alimenti o non farlo per il
timore di essere poi impedito a visitare la nipotina».
A causa dei disastri che ho
provocato nella mia purtroppo lunga attività di volontariato a tempo pieno (36
anni), quando ho affrontato la questione dei nuclei familiari (e non solo –
ahimè – delle famiglie costituite sul matrimonio), ho sempre fatto riferimento,
fra l’altro, a quell’asino (la mia cultura mi consente a stento di andare oltre
a questo animale) che, troppo oberato dalle cose caricate sul suo groppone,
invece di andare avanti, era stramazzato al suolo e non si era più mosso.
Ahi! Ahi! Ho anche creduto di
operare a favore dei diritti dei più deboli e, sciaguratamente, non ho mai
pensato ai vantaggi enormi del volontariato della sofferenza.
Dunque, bisogna attribuire nuovi
carichi ai nuclei familiari in omaggio ai “valori perenni” da me mai conosciuti
e occorre pretendere che i suoi componenti non solo paghino in base al criterio
della progressività (art. 53 della Costituzione) le tasse, comprese quelle
riguardanti la tutela della salute, ma anche che «se ne hanno la possibilità», come scrive il Lorenzi, sopportino
tutte le spese relative alle prestazioni sanitarie fornite ai componenti del
nucleo stesso.
Devo ammettere la mia pigrizia
mentale! Non avevo mai pensato che si potessero raddoppiare i versamenti allo
Stato da parte delle stesse persone per le medesime prestazioni. Anzi, adesso
che rifletto, il pagamento potrebbe essere anche triplicato, tenuto conto dei
contributi assicurativi versati dagli stessi soggetti come lavoratori
dipendenti.
Fatte le debite ammende per
essermi lasciato trascinare ancora una volta nelle mie sconsiderate divagazioni
sulla giustizia umana e sociale, devo anche confessare che nella mia
spericolata replica all’articolo di Filippo Lorenzi ho fatto il possibile per
menare zizzania fra il livello centrale e periferico delle istituzioni e, in
piena crisi di raziocinio, ho scelto quello più lontano dai cittadini per
osservare provocatoriamente che «le
provvidenze sono erogate dallo Stato alle persone singole e ai coniugi in
difficoltà (assegno e pensione sociale, integrazione al minimo delle pensioni
Inps, pensioni per gli invalidi civili, i ciechi ed i sordomuti) senza tenere
in alcuna considerazione la situazione economica dei parenti tenuti agli
alimenti».
Nonostante che il mio riferimento
sia provocatorio (il Ministro Bassanini mai mi perdonerà di aver criticato gli
organi decentrati della Repubblica italiana), Filippo Lorenzi non mi rivolge
nessuna accusa al che mi viene il sospetto – arma mai trascurata dagli immorali
– che il mio fustigatore sia un potente funzionario, forse promotore di
delibere dirette a costringere le famiglie degli anziani malati cronici non
autosufficienti a sottoscrivere il pagamento di contributi economici (magari
molto salati) per il ricovero dei loro congiunti nelle (illegali) strutture
dell’assistenza/beneficenza.
Pertanto, nella mia risposta al
Lorenzi, dopo aver scelto una strada in folle discesa, non mi fermo più ed ho
anche l’ardire di scrivere che «purtroppo
sono ancora numerosi gli enti pubblici (Regioni, Comuni, Province, Usl,
Comunità montane, ecc.) che pretendono contributi economici dai parenti di
assistiti maggiorenni».
Preso dal vortice della
stoltezza, ho rilevato, altresì, che nel richiedere i contributi dai parenti
degli assistiti maggiorenni «l’ente
pubblico non solo si arroga un diritto che non ha, ma pretende anche di
determinare l’importo che dovrebbe essere versato dai congiunti, arrivando
addirittura a sostituirsi al giudice». Al riguardo, ho la dabbenaggine di
ricordare che «il 3° comma dell’art. 441
del codice civile stabilisce quanto segue: “Se gli obbligati non sono concordi
sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli
alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze”».
Ancora insoddisfatto ho aggiunto
che «nel dare attuazione alle illegittime
richieste degli enti pubblici di cui sopra (fatto che comporta per i cittadini
ignari dei loro diritti l’esborso anche di parecchi milioni per il periodo di
ricovero del loro congiunto), gli operatori richiedono informazioni sui
congiunti degli assistiti, violando in tal modo le disposizioni della legge 31
dicembre 1996 n. 675, che vieta la richiesta, la conservazione e l’uso dei dati
personali non indispensabili allo svolgimento delle attività della pubblica
amministrazione, prevedendo anche sanzioni penali».
Ho quindi la sfacciataggine di
citare le note del direttore generale del Ministero dell’interno del 27
dicembre 1993, prot. 12287/70 e del capo dell’Ufficio legislativo del
dipartimento degli affari sociali alla presidenza del Consiglio dei Ministri
del 15 aprile 1994, prot. Das (Dipartimento affari sociali) 4390/1/H/795, del
28 ottobre 1995, prot. Das/13811/1/H/795 e del 29 luglio 1997, prot.
Das/247/UL/1/H/795, il parere fornito in data 18 settembre 1996, prot.
2667/1.3.16 dal direttore del servizio degli affari giuridici della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia, la risposta fornita dall’assessore
all’assistenza della Regione Piemonte in data 7 marzo 1996 ad una
interrogazione, i provvedimenti assunti dal Coreco di Torino in data 13 dicembre
1995 n. 36002, 1 agosto 1996, n. 11004/96 bis e 31 luglio 1997 n. 9152/97 bis,
nonché la già ricordata sentenza del Tribunale di Verona del 16 marzo 1996.
Ho concluso le mie elucubrazioni
asserendo quanto segue: «Mentre è
certamente illegale la richiesta di contributi ai parenti di assistiti
maggiorenni da parte degli enti pubblici, non si comprende per quali motivi gli
stessi enti pubblici non tengano conto non soltanto dei redditi, ma anche (anzi
soprattutto) dei patrimoni immobiliari e mobiliari, posseduti dalle persone che
richiedono assistenza o altri interventi (ad esempio la frequenza di asili nido
e scuole materne, la partecipazione ai soggiorni per minori e per anziani).
Rilevanti sono le somme versate dallo Stato senza tenere minimamente conto dei
beni di proprietà dei beneficiari. I dati relativi al 1995 sono:
– lire 29 mila 163 miliardi per l’integrazione al minimo delle pensioni
Inps;
– lire 3.482 miliardi per le pensioni e gli assegni sociali;
– lire 6.774 miliardi per le pensioni agli invalidi civili, escluse le
indennità di accompagnamento;
– lire 1.724 miliardi per le pensioni ai ciechi e ai sordomuti» (4).
4. Le bacchettate di Filippo Lorenzi
Solo su un altro aspetto delle
mie elucubrazioni, Filippo Lorenzi concorda: «Le prestazioni sociali devono essere commisurate non solo al reddito,
ma anche al patrimonio».
Ma poi il mio Cerbero mi mena
colpi terribili: mentre io miserello mi preoccupo di tutelare i «diritti degli assistiti (per meglio dire –
precisa il Lorenzi – un “diritto” dei
familiari benestanti di porre a carico dell’assistenza pubblica il mantenimento
dei parenti anziani»), mi mette KO asserendo che i suoi argomenti, a
differenza dei miei, sono fondati «sui
valori perenni».
Povero me. Mi ha smascherato.
Sono rovinato. Il mio fustigatore è una roccia quando osserva che non vede
alcuna utilità in quel che ho scritto poiché «l’opinione degli italiani è tanto immersa nella rivendicazione dei
“diritti” (o presunti tali), e nella tutela dei garantiti, quanto insofferente
dei “doveri” ed ancor più dell’obbligo morale di contrastare l’emarginazione e
di mettersi dalla parte degli emarginati».
E poi giù un’altra randellata: «Volpin e Santanera rispecchiano un
atteggiamento diffuso: non entrare nel merito degli imperativi morali, e di
farlo su questa rivista, che dovrebbe sostenerli, a vantaggio dei più deboli».
Ma non basta! Mi preoccupo anche
di «salvaguardare il quieto vivere dei
benestanti».
Stramazzo per terra! Incomincio a
pentirmi. È vero. Dal 1962, a tempo pieno mi sono occupato dei bambini
benestanti ricoverati in istituto e ben 85 mila dal 1967 ad oggi sono andati ad
accrescere la ricchezza delle famiglie adottive con gravissimi danni sociali ed
economici per il nostro Paese. Mi sono anche dato da fare perché agli
handicappati intellettivi (una categoria notoriamente facoltosa) venissero
forniti i servizi necessari alla crescita del loro patrimonio materiale e
morale. E poi – confesso anche questo – ho fatto tutto il possibile perché
venissero sottratte alla bramosia dei parenti la diagnosi e la cura degli
inguaribili e affinché gli oneri relativi venissero attribuiti al Servizio
sanitario nazionale. Ecco quindi confermato anche il mio attentato alla
sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini.
Ammetto, altresì, sperando
soprattutto in un adeguato sconto della pena che mi verrà giustamente inflitta,
di essere un complice (pentito) del gruppo di infami che hanno imparato dai
libri giuridici che «il diritto è un
interesse tutelato dalla legge».
Difendere i diritti dei più
deboli è da sempre il mio comodo alibi (adesso smascherato) per consentire ai
benestanti di accumulare ricchezze.
Fra le migliaia di casi, penso
all’agiato rampollo di Genova, dipendente dell’AMT, figlio unico della signora
A.R., che ha avuto la spudoratezza di lamentarsi perché per curare sua madre
gravemente malata, e quindi avente diritto (prima del mio pentimento) a tutte
le prestazioni gratuite, ha solamente sostenuto «spese per ricoveri per un totale di Lire 91.710.000, richiesto
prestiti per 41 milioni che diventano 56 milioni con gli interessi» e che,
per una vendita prevista per pagare le rette e non realizzata, ci ha rimesso
altri 24 milioni (5).
Mi vengono alla mente altre
migliaia di parenti che, per non danneggiare lo Stato (che ha introitato i
contributi assicurativi dei loro congiunti!) hanno versato e versano anche 2-3
milioni al mese ai Comuni che non possono pretenderli in base alle leggi
vigenti, ma che lo fanno per l’affermazione dei “valori perenni” enunciati da Filippo Lorenzi.
Rifletto anche su una famiglia di
un Comune lombardo: lui un ricco operaio con uno stipendio di due milioni al
mese, lei una parassita sempre malata, un figlio cerebropatico grave.
I genitori vogliono mandare in
malora il Comune pretendendo la frequenza gratuita del loro figlio presso un
centro diurno in alternativa al ricovero in istituto.
Il Comune, ispirandosi anche in
questo caso ai “valori perenni” vuole che essi versino la somma di 380 mila
lire al mese e li chiama in giudizio, instaurando in tal modo una iniziativa
provvidenziale, poiché sono migliaia le famiglie di handicappati non
autosufficienti che succhiano la linfa vitale degli Enti locali e delle USL, e
si arricchiscono sotto tutti i profili continuando ad accogliere i loro
congiunti anche di 40-50 anni.
Più penso a quello che ho fatto
per l’accumulazione del denaro da parte di questi vampiri, più mi vergogno di
me stesso: sono proprio un immorale.
* * *
Caro Lorenzi, aiutami a ritornare
al più presto sulla retta via!
Chiedo anche un forte sostegno a
Gino Faustini, che nello stesso numero di Politiche
sociali, confonde l’abbandono degli anziani da parte dei familiari (fatto
che è un grave reato, giustamente punito dalle leggi vigenti) con il rifiuto
quotidiano da parte del Servizio sanitario nazionale di intervenire nei confronti
dei vecchi malati inguaribili nelle stesse forme in cui provvede ai giovani ed
agli adulti aventi le medesime patologie. Infatti, se non sono rincitrullito
completamente, i parenti non hanno alcun obbligo di provvedere alla diagnosi,
cura e riabilitazione dei loro congiunti malati.
Chiedo, quindi, a Faustini: «Il comportamento degli addetti ai servizi
sanitari, quando scaricano un anziano malato, non è un reato gravissimo ed
anche una violazione dei diritti fondamentali della persona?».
È troppo disonesto chiedere che i
responsabili vengano perseguiti e, soprattutto, che la sanità curi anche le
persone inguaribili?
(1) La
sentenza è stata pubblicata su Famiglia e
diritto con un commento estremamente favorevole di Anna Ansaldo; inoltre è
stata riportata nel n. 2/1997 di Il
diritto di famiglia e delle persone.
(2) Mi
ero proposto di predisporre un secondo articolo in merito alle fantasiose
asserzioni di Filippo Lorenzi concernenti:
– la sua
proposta di attribuire «gli interventi
acuti alla sanità e quelli cronici all’assistenza» con la conseguenza, fra
l’altro, per i malati nello stesso tempo acuti e cronici di avere due diversi
organi istituzionali a cui riferirsi;
–
l’interpretazione data al principio di sussidiarietà in materia di cure
sanitarie ai malati acuti, convalescenti, cronici e lungodegenti secondo cui le
famiglie dei malati dovrebbero assumere le stesse funzioni svolte dal Servizio
sanitario nazionale;
–
l’obbligo del Servizio sanitario nazionale di predisporre gli interventi
diagnostici, curativi e riabilitativi, ma non quello di sostenere i relativi
oneri.
Fra
l’altro, nessuna delle suddette prese di posizione del Lorenzi è suffragata da
principi costituzionali o da norme di legge.
Tuttavia,
viste le sue reazioni, mi sono pentito anche per il pericolo di ricevere dal
Lorenzi altre randellate; ho quindi scelto di obbedirgli tacendo e rinunciando
all’articolo.
(3) La
mia replica è stata integralmente riportata sul n. 3/1998 di Politiche sociali.
(4) Al
riguardo, presentavo il seguente esempio, a mio avviso estremamente
significativo: «Un ex lavoratore ha
acquisito nel 1995 il diritto alla pensione di vecchiaia di lire 250.000
mensili, avendo svolto per un lungo periodo un’attività imprenditoriale in
proprio. È proprietario dell’alloggio in cui abita, il cui valore è stimato in
300 milioni. Poiché i redditi suoi e della moglie (esclusi quelli
dell’abitazione) ammontano a lire 33 milioni annui, lo Stato lo considera una
persona da assistere e ha versato nel 1997 l’intero importo della pensione minima.
Il sussidio è stato dunque di lire 435.400 (685.400 – 250.000) per 13 mesi e
cioè lire 5.660.200. Da notare che il suddetto contributo annuo statale di lire
5.660.200 è maggiore dell’assegno di invalidità corrisposto a coloro che sono
totalmente privi di reddito e pertanto costretti a vivere con lire 390.600 al
mese!».
(5) Cfr.
“La drammatica esperienza del figlio di una anziana malata cronica non
autosufficiente”, Prospettive
assistenziali, n. 119, luglio-settembre 1997.
www.fondazionepromozionesociale.it