Prospettive assistenziali, n. 123, luglio-settembre 1998

 

 

sulla dignità del morire e l’eutanasia

 

Con il titolo “Sulla dignità del morire - Una difesa della libera scelta” è uscito un volume, molto importante (1), di Hans Küng, famoso teologo cattolico, e di Walter Jens, noto saggista.

Il libro ruota intorno alle seguenti questioni:

– l’uomo può disporre della propria vita e scegliere quando e come morire?;

– nella prospettiva cristiana, la scelta spetta esclusivamente a chi gliel’ha donata, e cioè al Creatore?;

– è venuto il momento in cui le società moderne devono riconoscere la liceità dell’eutanasia?

I due Autori iniziano l’analisi del problema chiedendo a loro stessi ed ai lettori se sia «lecito negare l’alimentazione artificiale a una donna di 72 anni in coma da tre anni che, a causa di un arresto cardiaco, ha subito danni irreversibili al cervello, in modo che possa finalmente riposare in pace».

Il figlio e il medico curante ritenevano di sì, ma il giudice è stato di parere contrario. «Il risultato fu che l’alimentazione artificiale continuò. Così questa donna, priva di ogni possibilità di comunicare, rimase in coma per altri nove mesi, prima di poter finalmente morire».

Küng e Jens sono convinti, e ciò costituisce il presupposto delle loro riflessioni, «che milioni e milioni di uomini non abbiano la minima possibilità né di scegliere né di morire in maniera degna dell’uomo».

Al riguardo, precisano: «Ogni giorno i mass media ci presentano immagini di uomini, e spesso persino di masse di uomini, seviziati a morte e uccisi, in guerra o in fuga, a causa di catastrofi naturali, di carestie o di epidemie. Muoiono in maniera indegna».

Secondo Hans Küng occorre operare affinché la dignità delle persone sia salvaguardata anche nella fase terminale della vita. Ma non si può ignorare che «senza una vita dignitosa non è possibile una morte dignitosa».

Ricorda «quanto sia importante per il malato incurabile (2) una dedizione umana che duri fino alla fine; la dedizione umana del medico, degli infermieri e delle infermiere, una dedizione che non è sovvenzionata dalla mutua, né è acquistabile dal paziente, ma che è più preziosa di molti medicinali assai costosi» (...). «Non è possibile che proprio una medicina altamente tecnologizzata, con le sue terapie automatizzate, condanni il malato terminale all’isolamento»; sostiene inoltre che «donare pazientemente del tempo al malato terminale è forse l’ultimo più grande dono che gli possiamo fare; donargli del tempo per ascoltare le sue insicurezze, le sue ansie, le sue angosce, per dargli un poco di conforto, e anche per dire con lui una preghiera. Oggi sappiamo che anche un malato terminale ormai incapace di parlare può ancora ascoltare; sappiamo che il contatto corporeo può comunicargli conforto spirituale, anche quando egli non è più in grado di muoversi».

 

Forme ammesse di eutanasia

Entrando nel merito della questione dell’eutanasia, Hans Küng afferma in primo luogo che «è fuori discussione l’illiceità morale di ogni eutanasia imposta per costrizione».

Nello stesso tempo «è fuori discussione la liceità etica dell’eutanasia nel senso di tentativo di rendere “buona” la morte senza per questo accorciare la vita: quella cioè in cui il medico si limita a somministrare sedativi per ridurre il dolore. Ed è in armonia con l’ideale di un morire degno dell’uomo il tentativo di ridurre il più possibile i dolori fisici e, nelle ultime fasi della vita, di sostenere la mente mediante psicofarmaci. Un’eutanasia di questo tipo non pone problemi giuridici, è eticamente responsabile e doverosa dal punto di vista medico. Il mantenimento in vita del paziente deve andare di pari passo con la riduzione dei suoi dolori e il sostegno della sua libertà. Non è lecito che la conservazione della vita divenga un semplice differimento della morte».

È, altresì, pienamente riconosciuta la «liceità etica dell’eutanasia passiva, dove la morte è effetto collaterale, cioè un’eutanasia indiretta conseguita mediante l’interruzione dei mezzi di sostentamento artificiale della vita. Che l’uomo non abbia l’obbligo di conservarsi in vita attraverso mezzi eccezionali è un classico assioma della teologia morale. Nessun paziente in ogni caso ha il dovere etico di sottoporsi a qualsiasi terapia e a qualsiasi operazione che prolunghi la sua vita. Sta al paziente, non al medico, decidere, dopo essersi adeguatamente informato, se farsi operare ancora una volta, morendo più tardi ma forse in maniera più dolorosa, oppure non farsi operare morendo forse prima ma in maniera meno dolorosa. È diritto dei pazienti decidere liberamente se sottoporsi o meno a determinate cure mediche. Nessun medico ha il dovere di prolungare a ogni costo la vita umana, andando così incontro a una prolungata agonia».

 

L’eutanasia attiva

Per quanto riguarda l’eutanasia attiva, Küng precisa innanzitutto che «è falso che ogni forma di eutanasia attiva sia di per sé un “omicidio”, come se essa non fosse un atto volontario, un atto di pietà, liberamente chiesto dal paziente, bensì un atto di violenza impostagli contro la sua volontà».

Al riguardo ricorda che nessuna delle organizzazioni che rivendicano il “diritto di morire” (3) chiede «la legalizzazione dell’eutanasia attiva senza esigere anche, al contempo, il rispetto di restrittive istanze mediche di controllo. In ogni caso è richiesta una dichiarazione, convalidata da un notaio, che stabilisca chiaramente le condizioni – in senso stretto o in senso lato – in cui si vorrebbe usufruire dell’eutanasia attiva; se, per esempio, solo nel caso di una malattia incurabile e mortale, oppure anche in caso di pesanti e dolorose menomazioni corporee (per esempio, paralisi respiratoria), ancorché non mortali, oppure, infine, anche nel caso di danni irreparabili o malattie irreversibili al cervello».

A questo punto Hans Küng pone l’interrogativo: «Rientra nel concetto di morte degna dell’uomo il fatto che l’uomo stesso possa determinare – per quanto gli è possibile – quando e come morire?».

La domanda «è posta non in relazione all’uomo psicofisicamente sano ma in relazione al malato terminale che desidera morire (...). Questo discorso non vale, per esempio, per uno che sia afflitto dal tedio di vivere, o il cui primo amore sia fallito o che abbia subito uno scacco nello studio o nella carriera professionale».

Hans Küng, dopo aver premesso che «l’inizio della vita umana è stato posto da Dio in mano alla responsabilità dell’uomo», chiede: «Non sarebbe allora logico assumere che anche la fine della vita umana sia stata posta da Dio stesso, oggi più che mai, sotto la responsabilità dell’uomo?».

Risponde affermando in primo luogo che Dio «non vuole che gli attribuiamo una responsabilità che pos­siamo e dobbiamo portare a noi stessi. Con la libertà Dio ha dato all’uomo anche il diritto alla totale autodeterminazione, che non significa affatto arbitrio ma libertà di coscienza. L’autodeterminazione comporta sempre la responsabilità personale, e quest’ultima ha sempre, oltre alla componente individuale, anche una componente sociale (il rispetto per gli altri). Non sarebbe responsabilità, ma sconsideratezza e arbitrio, se un uomo, per un fallimento o per l’insuccesso della sua carriera, senza preoccuparsi minimamente della moglie e dei figli, domandasse l’eutanasia attiva. Ma sarebbe altrettanto arbitrario che un uomo, che ha diligentemente lavorato per tutta la vita e ha operato per gli altri, cui alla fine fosse diagnosticato con certezza un tumore – oppure una lunga e completa demenza senile –, chiedesse l’eutanasia, volendo congedarsi, dalla sua famiglia in piena consapevolezza e con dignità?».

Pertanto Hans Küng sostiene: «Un atteggiamento diverso da quello del rispetto della coscienza del paziente mi sembrerebbe solo un anacronistico paternalismo medico. Però vale anche il contrario: nessun medico può essere obbligato a compiere alcuna pratica medica che vada contro la sua coscienza».

Dopo aver citato la situazione di due persone gravemente ustionate e tenute in vita nonostante le acute sofferenze, ricorda che attualmente «molti uomini abbiano paura, non soltanto delle sofferenze e dei dolori, ma anche di cadere prigionieri del sistema supertecnologico della medicina di oggi, di cadere in una totale dipendenza e di perdere completamente il controllo del proprio io; hanno paura di essere imbottiti di antidolorifici e di cadere in semicoscienza, storditi, senza più pensare, bere, sentire la vita».

Certamente, precisa Küng, se qualcuno vuole «conservare più a lungo possibile la sua vita, deve essere rispettato e aiutato con ogni mezzo».

Viceversa «nessun uomo deve essere costretto a continuare a vivere a ogni costo. Il diritto di continuare a vivere non può diventare un dovere, il diritto alla vita non equivale a una coercizione a vivere (...). Ci sono tanti casi terribili, in cui è ben comprensibile che il malato arrivi a dire: “La mia condizione è intollerabile. Il mio desiderio più grande è quello di poter morire...”. Come può, in tali casi, un uomo arrogarsi il diritto di decidere della vita e della morte di un altro, costringendolo a continuare a vivere e a soffrire? Certamente tale desiderio di morire da parte del paziente costituisce per il medico solo la condizione necessaria, ma non sufficiente, per motivare un’eutanasia attiva: il motivo fondamentale deve essere solo il “bene” del paziente, così come egli stesso (e non il medico o un’altra persona) lo concepisce».

Per quanto riguarda le condizioni da porre a garanzia dell’eutanasia attiva, Hans Küng afferma di condividere quelle formulate dal teologo riformato Harry M. Kuitert e cioè le seguenti:

«1) la richiesta della morte deve venire dal malato stesso, non dai parenti né dal personale ospedaliero, e deve essere stata ben valutata e discussa in presenza del medico;

«2) l’intollerabile (o vissuta come intollerabile?) condizione di dolore del paziente deve giustificare tale richiesta;

«3) la pratica dell’eutanasia spetta esclusivamente al medico, che è in grado di procurare al paziente una morte serena, non infelice né dolorosa;

«4) il medico deve consigliarsi con un collega (esterno? e i parenti più stretti?) circa la serietà della richiesta, la correttezza della valutazione della condizione del paziente e il responsabile compimento delle pratiche mediche terminali;

«5) il medico deve redigere un resoconto delle sue osservazioni (secondo la nuova legge olandese occorre indirizzare un rapporto all’ufficio statale competente, che normalmente evita al medico di incappare in eventuali sanzioni)».

In conclusione, secondo Hans Küng: «elaborare le linee concrete per l’eliminazione della evidente incertezza giuridica esistente in materia di eutanasia è compito, in primo luogo, dei medici e dei giuristi. L’esempio olandese mostra che la cosa può funzionare. Chiare disposizioni giuridiche in materia di eutanasia potrebbero contribuire anche altrove al superamento delle angosce esistenziali di molti uomini ed eviterebbero ai medici molti conflitti di coscienza» (4).

 

L’eutanasia da abbandono

Secondo Hans Küng «la medicina oggi sarebbe farmacologicamente in grado di fare di tutto per non far nascere il desiderio della morte».

Questa affermazione è esatta; infatti, è vero, ai malati, compresi quelli nella fase terminale della loro vita, potrebbero essere assicurate le prestazioni occorrenti per eliminare il dolore o per ridurlo in tutta la misura del possibile.

Purtroppo, nel nostro Paese non solo non vengono sempre predisposti i necessari interventi curativi, ma viene praticata in modo massiccio l’eutanasia da abbandono che «è la morte lenta, la morte per abbandono, la morte per sottrazione delle cure (non quelle fondamentali legate ad una macchina che ti tiene in vita), ma quelle ugualmente importanti per poter terminare in modo, il più possibile indolore, l’esistenza» (5).

Da anni su Prospettive assistenziali documentiamo le violenze spesso disumane subite dagli anziani (6), senza che le autorità preposte abbiano finora assunto iniziative di rilievo. Continua, infatti, a non essere nemmeno riconosciuto lo stato di malattia degli anziani malati cronici non autosufficienti (circa un milione di persone)

Se le istituzioni, i sindacati dei lavoratori in primo luogo quelli dei pensionati, i centri culturali, le associazioni di tutela, il volontariato e le altre organizzazioni laiche e religiose, volessero veramente evitare la morte procurata contro la volontà degli interessati e dei loro congiunti, dovrebbero innanzitutto agire per eliminare ogni forma di eutanasia da abbandono, punendo severamente i colpevoli.

In secondo luogo, per eliminare e, al limite, ridurre la portata dell’eutanasia attiva e passiva non servono le semplici (e spesso semplicistiche) affermazioni di principio.

Occorre, invece, che ai malati, compresi ovviamente quelli colpiti da malattie inguaribili e da non autosufficienza e coloro che sono nella fase terminale della vita, siano assicurate tutte le necessarie cure medico-infermieristiche e tutte le prestazioni socio-relazionali sia nei casi di ricovero in strutture sanitarie (quelle dell’assistenza/beneficenza non solo sono illegali, ma quasi sempre anche assolutamente inidonee), sia quando il malato vive a casa sua o presso i suoi congiunti.

 

 

 

(1) Edizioni Rizzoli, Milano.

(2) Nel volume è riportata l’espressione “incurabile”. Con­fidiamo che il traduttore abbia confuso fra “incurabile” e “inguaribile”.

(3) Nell’agosto 1976 ha avuto luogo a Tokyo la prima conferenza mondiale delle organizzazioni che operano a favore del “diritto di morire”, con l’approvazione delle seguenti posizioni programmatiche:

1) ogni persona deve decidere da sé della propria vita e della propria morte;

2) le ultime volontà dei pazienti sono da riconoscere come diritti della persona e devono essere equiparate a documenti legali.

(4) Abbiamo riportato le parti a nostro avviso più significative del volume “Sulla dignità del morire - Una difesa della libera scelta”. Nel libro di Hans Küng e Walter Jens sono contenute numerose altre istruttive riflessioni.

(5) Cfr. Maria Grazia Breda, “Eutanasia attiva, passiva e da ab­bandono”, Prospettive assistenziali, n. 101, gennaio-marzo 1993.

(6) Si vedano, in particolare, i volumi di F. Santanera e M. Grazia Breda, Vecchi da morire - Libro bianco sui diritti violati degli anziani malati cronici, Rosenberg & Sellier, 1987; Per non morire d’abbandono - Manuale di autodifesa per pazienti, familiari, operatori e volontari, Rosenberg & Sellier, 1990; Anziani malati cronici: i diritti negati, UTET Libreria, 1994.

 

 

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