Prospettive
assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998
www.fondazionepromozionesociale.it
abbandono di anziani
malati cronici non autosufficienti e minacce contro i familiari: profili penali
elena
brugnone
La situazione degli anziani
malati cronici non autosufficienti è grave: questa rivista lo ripete
instancabilmente da molti anni. Si susseguono le dimissioni dagli ospedali di
malati veri, in maggioranza ultraottantenni, affetti da malattie
cronico-degenerative e incapaci di provvedere autonomamente a se stessi se non
con l’aiuto totale, continuo e permanente di altre persone (1).
Questi malati hanno bisogno di
cure prolungate nel tempo che dovrebbero essere garantite prioritariamente a
casa mediante interventi domiciliari medico-infermierisitici e di
riabilitazione. Ma rimangono rari i servizi domiciliari di cura che consentano
di attuare una effettiva continuità terapeutica, anche in alternativa al
ricovero ospedaliero (2).
La legge prevede il diritto alla
cura in strutture sanitarie, occorrendo anche in ospedale, senza limiti di
durata, e stabilisce che le USL hanno l’obbligo di provvedere alla tutela della
salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni
che possono concorrere alla loro emarginazione (3). Ma sono molti gli anziani
malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali e costretti a
ricoveri in istituti di assistenza non idonei alle loro esigenze.
La realtà è drammatica
soprattutto per i malati anziani che diventano vittime di gravi reati.
L’emarginazione sociale costituisce, purtroppo, un terreno particolarmente
fertile per la crescita di un terribile fenomeno di criminalità contro gli
anziani più deboli e indifesi. La stampa quotidiana lo conferma, specialmente
con notizie di reati commessi contro ricoverati in “ospizi lager” (4).
Nella situazione descritta, il
reato di abbandono di persone incapaci previsto dall’articolo 591 del codice
penale (5) è uno dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale che
interessa più diffusamente gli anziani malati cronici non autosufficienti. Ciò
in quanto, per la sussistenza di questo delitto, non è necessario che si
verifichi un danno (6) ma basta che, in conseguenza dell’abbandono, si
verifichi un pericolo per la incolumità personale del soggetto incapace che
viene abbandonato da chi ne ha la custodia o ne debba avere cura (7).
L’articolo 591 del codice penale
stabilisce che il soggetto passivo di abbandono può essere: «un minore degli anni 14, ovvero una persona
incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa,
di provvedere a se stessa».
Autore del reato in questione è
la persona che ha in custodia (anche in via occasionale e temporanea) o deve
avere cura di un soggetto incapace e che in forza di detta relazione ha il
dovere di non abbandonarlo. Se lo abbandona, con la coscienza e consapevolezza
di lasciarlo in una situazione di pericolo, è penalmente responsabile.
La Corte di Cassazione ha
chiarito che la condotta criminosa di abbandono di incapace «consiste nel lasciare la persona in balia
di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua
custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo, in modo tale che
derivi un pericolo per la incolumità personale» (8).
Con riferimento specifico
all’abbandono di anziani malati cronici non autosufficienti è significativo
rilevare che, in varie occasioni, la Corte di Cassazione ha confermato la
condanna di imputati per il reato previsto dall’articolo 591 del codice penale
in casi di abbandono di ricoverati presso istituti di assistenza, specialmente
a causa della mancanza di personale idoneo e della insufficienza di cure. Al
riguardo, si segnalano alcune sentenze:
– sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 9 maggio 1986,
relativamente ad un caso di repentino allontanamento di tutte le assistenti di
una casa di ricovero per anziani. La Suprema Corte ha ritenuto che non era
rilevante la presenza nella stessa casa di ricovero di inservienti perché si
trattava di personale inidoneo quantitativamente e qualitativamente alla
necessaria assistenza infermieristico-sanitaria, né erano rilevanti le
successive circostanze che avevano consentito di evitare l’aggravamento dei
ricoverati (9);
– sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989, che
ha confermato la condanna di una coppia di coniugi amministratori di varie case
di riposo ove i ricoverati erano lasciati in pessime condizioni igieniche e
sanitarie. La Suprema Corte, riportandosi alla sentenza di condanna impugnata
dagli imputati, ha osservato che «i
ricoverati, quasi tutti abbisognevoli di cure mediche e paramediche, erano
affidati a personale assolutamente inadeguato, perché costituito da generici
inservienti che svolgevano anche attività tecniche senza alcun titolo
specifico, ridotto durante la notte ad una sola unità mentre l’assistenza
medica era solo occasionale, saltuaria e superficiale, per non dire inesistente
(tanto che nessuno si era accorto che alcuni dei pazienti erano portatori di
catetere in permanenza), esponendo i ricoverati a pericolo per la loro
incolumità» evidenziata da alcuni tragici incidenti, come la morte di tre
ricoverati (10);
– sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 28 marzo 1990, che ha
confermato la condanna di un infermiere, in servizio presso un istituto per
anziani, il quale in più occasioni non aveva fornito ai ricoverati le
prestazioni assistenziali e terapeutiche cui era tenuto, esponendo così a
rischio la loro salute (11);
– sentenza della Corte di Cassazione, sez. V, 21 ottobre 1992, che ha
confermato la condanna dell’imputato D., amministratore unico di una società
che gestiva un istituto ove erano ricoverati 292 anziani, in gran parte non
autosufficienti. Riportandosi alla sentenza di condanna impugnata
dall’imputato, la Corte di Cassazione ha osservato che «i carabinieri, nel corso dell’accesso sul posto, avevano trovato
appena nove persone di guardia per il turno di notte, delle quali un medico ed
un infermiere, cinque assistenti ai letti e due inservienti. Facendo il
rapporto tra assistenti e degenti, ne derivava l’apprezzamento di un sussidio
poco più che simbolico, che restava confermato avendo di vista anche l’organico
del gerontocomio, considerando – ovviamente – la presenza del personale nei
vari turni lavorativi» ed «emergeva
l’impossibilità che fosse assicurata, nell’istituto, un’igiene appena decente
dei locali e delle persone e che si badasse adeguatamente a queste ultime,
senza lasciare in balia di se stesse quelle meno autosufficienti».
Nella sentenza di condanna si
rileva che le omissioni a carico dell’imputato D. risultavano comprovate e che «delle relative conseguenze il D. non poteva
non essere consapevole, essendo colui che ordinava i pasti... dirigeva il
personale, percepiva le rette, disponeva le spese» (12);
– sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 28 novembre 1997, che
ha richiamato in motivazione l’anzidetta sentenza in riferimento al caso di
abbandono di un anziano malato cronico non autosufficiente che era stato
lasciato in una situazione di particolare degrado personale nella struttura
dove era ricoverato (13).
Alcune
considerazioni
Le note descrittive del reato
previsto dall’articolo 591 codice penale e le sopra riportate sentenze di
condanna per abbandono di malati anziani nell’ambito di istituti di assistenza
fanno riflettere seriamente sulla situazione di pericolo in cui potrebbero
trovarsi molti altri malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali
senza una alternativa di cura adeguata alle loro peculiari condizioni cliniche.
Si tratta di malati totalmente
non autosufficienti, incapaci di difendersi e di denunciare eventuali reati ed
è, quindi, urgente l’esigenza di assicurare una pronta ed effettiva tutela
della loro salute e di prevenire l’abbandono.
Di fronte alla emergenza che può
derivare dalla dimissione ospedaliera di questi malati, è stupefacente che si
giunga, addirittura, ad esercitare una azione intimidatoria nei confronti dei
familiari per costringerli ad accettare la dimissione ospedaliera. Ricordiamo,
al riguardo, la vicenda di R.F., novantenne malata cronica non autosufficiente
dimessa dall’ospedale Fatebenefratelli di Venezia (14). I fatti risalgono a dieci
anni fa ma rimangono emblematici perché richiamano l’attenzione su una
situazione di grave disagio che è ancora attuale per molti malati cronici non
autosufficienti e per i loro congiunti. Precisiamo, allora, che cosa accadde in
particolare. Nel luglio 1988 i figli di R.F. avevano comunicato all’ospedale
Fatebenefratelli di Venezia che non potevano accettare la dimissione
ospedaliera della madre in quanto non erano in grado di curarla e assisterla a
casa e il Fatebenefratelli reagì inviando una segnalazione – incredibile ma
vero – alla Polizia che avviò indagini. L’anziana malata continuò a
rimanere ricoverata in ospedale finché il direttore sanitario dell’ospedale
stesso comunicò ai familiari, con lettera del 3 aprile 1989, la dimissione
della paziente per il 10 aprile precisando che l’eventuale mancato “prelievo”
della congiunta sarebbe stato segnalato alle competenti autorità fra cui
indicava la Questura. Due giorni prima della scadenza intimata con minaccia di
segnalazione anche alla Questura, un figlio di R.F. – per timore – accettò la
dimissione ospedaliera della madre che venne trasferita dall’ospedale
Fatebenefratelli alla casa di riposo IRE di Venezia «in condizioni di gravità e con necessità immediata e continuativa di
assistenza medica ed infermieristica» (15). Inoltre, in conseguenza della
segnalazione del Fatebenefratelli alla Polizia, i figli e due nipoti di R.F.
vennero addirittura processati per reato di abbandono di persona incapace
previsto dall’articolo 591 del codice penale e assolti dal Tribunale di Venezia
con sentenza del 1° giugno 1993 n. 259 «perché
il fatto non sussiste» (16). Il reato di abbandono non poteva sussistere
perché i familiari, rifiutando la dimissione ospedaliera, non avevano lasciato
R.F. in pericolo di vita, dato che la stessa era in ospedale. I familiari non
si trovavano neppure nella condizione richiesta dall’articolo 591 del codice
penale per essere autori del reato di abbandono in quanto non avevano in
custodia la madre. Solamente i sanitari dell’ospedale, avendo in cura la
paziente, si trovavano, eventualmente, nella condizione per potere commettere
l’anzidetto reato (17).
Questo clamoroso caso
giudiziario, dunque, si è concluso con una piena assoluzione dei figli e nipoti
di R.F., ma ciò non ha annullato gli effetti di intimidazione prodotti nei
confronti di tanti familiari di anziani malati cronici non autosufficienti,
considerata anche la risonanza data dai mass
media alla vicenda.
Con riferimento al fatto della
segnalazione del Fatebenefratelli alla Questura, inoltre, ricordiamo che il 5
dicembre 1988 venne presentata una interpellanza, la numero 496, al Consiglio
regionale del Veneto e che dalla anzidetta interpellanza risultò che la pratica
della segnalazione alla Questura era usata non solo dall’ospedale Fatebenefratelli
di Venezia ma anche, ad esempio, da quello di Negrar (Verona), appartenente
all’Opera Don Calabria (18). La risposta che la Giunta Regionale del Veneto
diede il 15 dicembre 1989 (dopo un anno!) fu sconcertante per le seguenti
affermazioni: «Quanto alle minacciate
denunce per abbandono di incapace e alle chiamate dei Commissariati di Polizia,
riferite nei riguardi dei familiari, essi possono considerarsi mezzi di
pressione psicologica, forse alquanto goffi, per accelerare la dimissione.
Altro mezzo, con identica finalità, può considerarsi quello di richiedere
all’interessato o a chi per lui il pagamento della diaria».
Osserviamo che è decisamente
cinica la tesi per cui il fine “di accelerare la dimissione” giustifica “i
mezzi di pressione psicologica” usati nei confronti di familiari di malati
cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale e, al riguardo, rileviamo,
innanzitutto, che la legge penale vieta l’uso di minacce contro una persona al
fine di costringerla a fare qualcosa. L’art. 610 del codice penale (19) prevede
che «chiunque, con violenza o minaccia,
costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa commette il delitto
di violenza privata» (20). Questo delitto è previsto proprio allo scopo di
tutelare la libertà psichica dell’individuo nella sua volontaria esplicazione.
La Corte di Cassazione ha
chiarito che la violenza e la minaccia sono punibili a norma dell’articolo 610
del codice penale anche quando con esse si voglia costringere altri ad
adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente
illecita o immorale (21). A maggior ragione, quindi, la violenza e la minaccia
sono punibili nel caso in cui il familiare di un malato cronico non
autosufficiente venga costretto ad accettare la dimissione ospedaliera del
proprio congiunto, visto che un familiare non ha alcun obbligo giuridico di
accettare l’anzidetta dimissione, e che il suo comportamento non è neppure
moralmente censurabile se il congiunto malato non autosufficiente non può
essere curato ed assistito adeguatamente a domicilio.
In riferimento al significato
penalmente rilevante di “minaccia”, che più interessa in questa sede,
riportiamo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione: «Minaccia è ogni mezzo valevole a limitare
la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione
esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto
passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa
essergli cagionato dal colpevole, o da altri per lui, alla persona o al
patrimonio» (22).
La Suprema Corte ha precisato,
inoltre, che «ai fini del delitto di
violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo
sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto
passivo sia verso altri, idoneo a incutere timore ed a suscitare la
preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale
intimidazione, che il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere
qualcosa» (23).
Alla luce dei rilievi esposti,
quindi, è punibile a norma dell’articolo 610 del codice penale chiunque
costringa un familiare, con violenza o minaccia, ad accettare la dimissione
ospedaliera di un congiunto malato cronico non autosufficiente e ad assumerne
l’assistenza e cura a domicilio. Quando ciò avviene, accanto al dramma degli
anziani malati cronici non autosufficienti fatti segno di pesanti
discriminazioni e vittime di abbandono, si affianca anche il dramma dei
familiari, vittime di violenza privata.
(1) La
condizione sanitaria degli anziani rischia di aggravarsi in età cronologiche
avanzate. Dopo i 75 anni aumenta la suscettibilità alla comparsa di specifici
aspetti sanitari propri dei cosiddetti “pazienti geriatrici”. Oltre gli 85 anni
vi è la più elevata prevalenza di patologie e disabilità (A. Capurso, “Terza
età e qualità della vita”, Federazione
Medica [9], 1992, 33-37; G. Barbagallo Sangiorgi, “Il paziente geriatrico:
approccio clinico e terapeutico”, Federazione
Medica [4], 1993, 17-27). La coesistenza contemporanea di situazioni
patologiche plurime di diversa natura, a carico dei diversi organi
(comorbilità), è una caratteristica clinica quasi costante e comunque la più
frequente nell’anziano. L’associazione di diverse patologie non può che
peggiorare la situazione clinica complessiva del malato, facilitando
l’evoluzione verso situazioni di una gravità maggiore rispetto a quella che le
malattie isolatamente considerate comportano, o addirittura verso severissime
emergenze cliniche (V. Pedone, “Il paziente geriatrico” in D. Cucinotta [a cura
di], Curare l’anziano - principi di
gerontologia e geriatria, Sorbona, Milano, 1992; G. Barbagallo Sangiorgi,
“Il paziente geriatrico: approccio clinico e terapeutico”, Federazione Medica [4], 1993, 17-27).
Gli
eventi patologici acuti si verificano più facilmente nel corso di malattie
croniche, ad esempio l’ictus, l’infarto, la riacutizzazione della bronchite, la
frattura nell’osteoporotico e l’evento anemizzante nel neoplastico (F. Fabris,
“Ridefinizione dei concetti di acuzie e di cronicità”, in AA.VV., Eutanasia da abbandono, Rosenberg &
Sellier, Torino, 1988).
Gli
anziani in età avanzata sono maggiormente soggetti alla comparsa di emergenze
cliniche definite come “scompensi a cascata”. Un evento morboso produce secondo
un meccanismo di ripercussioni consecutive, tutta una serie di complicanze, con
sintomi apparentemente non correlati con l’evento patologico iniziale. Altro
rischio tipico dei pazienti geriatrici è rappresentato dall’insorgenza di
“circoli viziosi” per cui un evento patologico, di per sé poco rilevante, può
acquistare carattere di gravità crescente a causa della successione perversa di
eventi autopotenziati (V. Pedone, “Il paziente geriatrico” in D. Cucinotta [a
cura di], Curare l’anziano - principi di
gerontologia e geriatria, Sorbona, Milano, 1992; G. Barbagallo Sangiorgi,
“Il paziente geriatrico: approccio clinico e terapeutico”, Federazione Medica [4], 1993, 17-27).
(2) Il
servizio di ospedalizzazione a domicilio, istituito nel 1984 dall’USL Torino
VIII, ad esempio, funziona ininterrottamente dal 1985 ed i risultati positivi
sono stati presentati in varie pubblicazioni e convegni.
(3)
L’art. 3 della legge 4 agosto 1955 n. 692 dispone che l’assistenza sanitaria
debba essere fornita senza limiti di durata alle persone colpite da malattie
specifiche della vecchiaia; l’art. 29 della legge 12 febbraio 1968 n. 132
impone alle Regioni di programmare i posti letto degli ospedali tenendo conto
delle esigenze dei malati “acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti”; la
legge 13 maggio 1978 n. 180 stabilisce che le USL devono assicurare a tutti i
cittadini, qualsiasi sia la loro età, i necessari servizi diretti alla
prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali; la legge 23 dicembre
1978 n. 833 istitutiva del Servizio sanitario nazionale obbliga le USL a
provvedere alla “tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire
e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione”
(art. 2, 8, f). Le prestazioni devono essere fornite agli anziani, come a tutti
gli altri cittadini, qualunque siano “le cause, la fenomenologia e la durata”
delle malattie (art. 2, 3).
(4) Una
raccolta di notizie estratte da quotidiani degli anni 1991, 1992 e 1993 è contenuta
nel volume di F. Santanera, M.G. Breda, F. Dalmazio “Anziani malati cronici: i
diritti negati”, UTET Libreria, 1994.
Nella
edizione regionale Umbria del quotidiano La Nazione dell’8 maggio 1998 è
riportata la notizia di un recente intervento dei NAS di Perugia presso “Villa
Valsole” a Trevi: “Ospizio lager - Titolare in cella - Maltrattamenti, lesioni
gravi, tentativo di estorsione e sequestro di persona. Vittime, ancora una
volta gli anziani (...)”.
(5)
L’articolo 591 del codice penale - Abbandono di persone minori e incapaci -
dispone «Chiunque abbandona una persona
minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di
mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa,
e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione
da sei mesi a cinque anni.
«Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano
minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per
ragioni di lavoro.
«La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una
lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.
«Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal
genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o
dall’adottato».
(6)
Qualora la persona abbandonata riporti una lesione personale o muoia il delitto
di abbandono sarà più grave e ciò comporterà un aumento di pena rispetto a
quella prevista in caso di mero pericolo, come stabilisce il terzo comma
dell’art. 591 del codice penale.
(7) La
Corte di Cassazione ha chiarito, in più occasioni, che per la sussistenza di
questo reato basta un pericolo, anche solo potenziale, per la incolumità della
persona incapace. In particolare si veda la sentenza della Corte di Cassazione,
Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Rivista Penale, 1993, 1131.
(8)
Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989 n. 1016 (dep. 20 marzo 1990), Cassazione Penale, 1990, 1349, con nota
di Domenico Carcano. La dottrina concorda. Si segnalano, in particolare, alcune
pubblicazioni: Remo Pannain, “Abbandono di persone minori o incapaci”, Novissimo Digesto Italiano, I, 16; Aldo
Scolozzi, “Sull’abbandono di persone minori o incapaci”, La Giustizia Penale, 1986, parte seconda, 370; Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale - parte speciale,
Giuffrè, 1996, 119.
(9)
Corte di Cassazione, Sez. V, 9 maggio 1986, Cassazione
Penale, 1987, 1094.
(10)
Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989 (dep. 20 marzo 1990) n. 1016, Cassazione Penale, 1990, 1349, con nota
di Domenico Carcano.
(11)
Corte di Cassazione, Sez. V, 28 marzo 1990, Cassazione
Penale, 1992, 614.
(12)
Corte di Cassazione, Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Rivista Penale, 1993, 1131.
(13)
Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989, n. 1016 (dep. 20 marzo 1990), Cassazione Penale, 1990, 1349; Corte di
Cassazione, Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Dramis, Rivista Penale, 1993, 1131; Corte di
Cassazione, Sez. V, 28 novembre 1997 (dep. 24 aprile 1998), Cimino, Gazzetta Giuridica Giuffrè ItaliaOggi
(22), 1998, 30.
(14) “Il
Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alla cura di una anziana cronica
non autosufficiente: la magistratura non processa l’ente ma i familiari”, Prospettive assistenziali, n. 95,
luglio-settembre 1991. “I pareri dei Prof. Rescigno e Dogliotti in merito alla
vicenda del Fatebenefratelli di Venezia”, Prospettive
assistenziali, n. 97, gennaio-marzo 1992.
(15)
Condizioni riferite nella relazione medica del Dott. Luigi Maria Pernigotti,
Aiuto dell’Istituto di Geriatria della Università di Torino. Un estratto della
relazione è pubblicato nell’articolo “Il Fatebenefratelli di Venezia viola il
diritto alla cura di una anziana cronica non autosufficiente: la magistratura
non processa l’ente ma i familiari”, Prospettive
assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991.
(16) In
riferimento alla contestazione del reato di abbandono a familiari di un malato
cronico non autosufficiente dimesso dall’ospedale, altra sentenza di
assoluzione “perché il fatto non sussiste” è stata emessa nel 1953 dal
Tribunale di Ferrara (sentenza del 6 ottobre 1953, Giustizia Penale, 1954, II, p. 370). Nella anzidetta sentenza si
precisa che «non può riscontrarsi
abbandono pericoloso nel rifiuto cosciente da parte dei familiari di una
vecchia paralitica (ricoverata in ospedale), di riprenderla in casa».
(17) Ci
sembra significativo citare, al riguardo, una autorevole opinione dottrinale
secondo cui risponde del delitto di abbandono previsto dall’articolo 591 del codice
penale «il sanitario che rifiuta di continuare ad assistere l’infermo di cui ha
già iniziato la cura, quando manchi la possibilità che si provveda altrimenti»
(Francesco Antolisei, Manuale di diritto
penale - parte speciale, Giuffrè, 1996, pp. 119, 120).
(18) F.
Santanera, M.G. Breda e F. Dalmazio, Anziani
malati cronici: i diritti negati, UTET Libreria, 1994, p. 32.
(19)
L’art. 610 c.p. - Violenza privata - dispone: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare
od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro mani. - La
pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’art. 339 del codice
penale».
(20)
Quando, invece, la costrizione non si verifica ma la violenza o la minaccia è
costituita da atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere altri a
fare tollerare od omettere qualche cosa, il fatto integra il delitto di tentata
violenza privata a norma del combinato disposto degli artt. 56 e 610 del codice
penale.
(21)
Corte di Cassazione, Sez. V, 88/181031, Commentario
breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1570.
(22)
Corte di Cassazione, Sez. V, 86/173578, Commentario
breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1577.
(23)
Corte di Cassazione, Sez. II, 89/182005, Commentario
breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1569.
www.fondazionepromozionesociale.it