Prospettive
assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998
far emergere le potenzialità e le capacità degli
handicappati intellettivi
emanuela buffa (*)
Rappresento il CSA che è un coordinamento di associazioni di volontariato
che si occupano da anni dell’emarginazione di diverse tipologie di soggetti. Si
tratta di persone che, essendo particolarmente deboli, non sempre sono in grado
di portare avanti, da sole, certe rivendicazioni. Hanno quindi bisogno che ci
sia qualcuno che lo faccia per loro, che stia dietro ai politici e agli
amministratori perché garantiscano a loro tutti i diritti che hanno come
cittadini, ma che, troppo spesso, vengono calpestati.
Per questo motivo ringrazio il Gruppo giovani di Rifondazione comunista per
l’opportunità che mi ha dato di parlare sull’emarginazione in questo convegno.
Questa opportunità mi permette di far conoscere realtà di disagio e di
emarginazione che forse pochi conoscono e di cui, anche coloro che pensano di
conoscere, non sempre ne hanno una visione corretta. Qualche volta sbagliano
completamente ed hanno un atteggiamento che, invece di aiutare ad integrare,
allontana ed emargina sempre di più.
Mi riferisco soprattutto ai giovani che hanno un handicap intellettivo, che
può essere più o meno grave. Vorrei spiegarvi chi sono, come vivono, che cosa
fanno e che cosa vorrebbero fare e, inoltre, quanto la società dovrebbe
permettere loro di fare. Anch’essi fanno parte del popolo dei giovani, ma,
rispetto ai ragazzi normali, hanno maggiori difficoltà a farsi sentire.
Gli individui con handicap intellettivo sono persone che, solitamente,
hanno una compromissione a livello cerebrale che può essere, a seconda dei
casi, più o meno grave e che quindi porta, come conseguenza, a capacità e
potenzialità intellettive più o meno limitate. Sono però potenzialità e
capacità che esistono e che, quindi, devono essere utilizzate al meglio.
Come dice il neurologo Oliver Sacs, si può vedere una stessa persona come
irrimediabilmente menomata o, invece, ricca di promesse e di potenzialità.
Sono quindi due differenti modi di pensare: ne scaturiscono due diversi
atteggiamenti. Uno parte da una visione negativa del problema e porrà
necessariamente obiettivi negativi, poco costruttivi, in partenza, rinunciatari
e, se tutto va bene, puramente assistenziali.
L’altro, invece, parte da una visione più positiva, tende a sottolineare le
potenzialità, le capacità di queste persone e quindi si pone obiettivi più
positivi, di recupero; vuol far emergere le capacità latenti e che attendono
solo di essere portate alla luce, valorizzate, riconosciute, anche se sono
minime.
Ecco, questi due modi di pensare sono emblematici del modo in cui una
persona handicappata intellettivamente può venire considerata dalla nostra
società.
È inutile dire che, fino a poco tempo fa, il modo di trattare queste
persone era esclusivamente del primo tipo. La mentalità sta cambiando a favore
del secondo modo di pensare e di agire, ma gli ostacoli continuano ad essere
molto grandi; una certa mentalità pietistica e assistenziale continua
imperterrita a regnare. Noi lottiamo, appunto, perché vada avanti, invece, la
concezione che vede nella persona con handicap un cittadino pieno di risorse e
di potenzialità, che può dar molto alla società e che dalla società deve
ottenere ciò che di diritto gli spetta comunque: la dignità di persona.
Riconoscere ed accettare la propria diversità non deve voler dire,
necessariamente, essere etichettati, emarginati, appartenere ad una categoria
che non conosce, al suo interno, differenziazioni, che non permette la
costruzione di una propria identità, di una propria soggettività, che mette
necessariamente chi è definito tale in un ruolo di subordinazione, dove sono
sempre i cosiddetti normali a decidere, a stabilire dove e come può avvenire il
suo accesso alla vita.
Accettare il proprio handicap, significa riconoscere i propri limiti, ma
anche poterli affrontare e poter scoprire le proprie potenzialità. Per far
questo bisogna che ci sia qualcuno, nel cosiddetto mondo dei normali, che ti dà
questa possibilità di metterti alla prova, di dimostrare a te stesso e agli altri
ciò che sai fare, di darti la possibilità di essere utile alla società e non di
peso.
Queste persone non vogliono essere assistite, vogliono partecipare, come
tutte le altre.
Questo è ciò che chiedono, appunto, gli handicappati intellettivi, quelli che
sono meno gravi, ai quali vengono riconosciute anche dalle istituzioni delle
potenzialità. Per i ragazzi, per esempio, con handicap intellettivo medio-lieve
possono e devono essere messe in atto tutta una serie di opportunità
scolastiche, di formazione professionale pre-lavorativa, di tirocini e di stage in aziende. Esse non devono però
concludersi miseramente, appena terminati gli anni della scuola o le
borse-lavoro o i tirocini. Tutto ciò che questi ragazzi hanno imparato a
livello di apprendimento, di lavoro, di autonomia, non si deve perdere perché
poi queste facoltà non vengono più stimolate.
Spesso essi passano la maggior parte del tempo tra le mura domestiche, con
pochi contatti con i coetanei, che – nella maggior parte dei casi – non li
vogliono, perché hanno un modo di comunicare, di esprimersi in linguaggi che
sono magari differenti da quelli di tutti i giovani della loro età: ecco che
scatta, allora, l’emarginazione, la consapevolezza di non sentirsi accettati,
la frustrazione che non aiuta certo a crescere e a vivere bene.
Nel migliore dei casi questi ragazzi ricadono sotto le ali dell’assistenza,
che continua a controllarli, osservarli, fargli fare cose che non servono ad
acquisire fiducia in se stessi.
Intanto gli anni passano.
A Torino ci sono più di duecento tra ragazzi e ragazze che, da innumerevoli
anni, aspettano il lavoro. Noi siamo convinti che anche questi giovani abbiano
delle potenzialità che devono essere stimolate e rese produttive.
Numerosi studi ed esperienze di aziende che hanno creduto in loro lo
dimostrano. Noi chiediamo che anche nella nostra realtà piemontese, così ricca
di aziende produttive, di solidarietà verso i deboli, si cominci a pensare un
po’ di più anche a loro e a considerarli alla stregua di tutti gli altri lavoratori.
Vorremmo che almeno quelli che dovrebbero tutelare il diritto dei
lavoratori, quindi parlo dei sindacati e di partiti come il vostro, che hanno
una tradizione in questo senso, incomincino a farsene carico e che anche
all’interno delle aziende e nelle trattative, ci sia spazio di contrattazione
anche per loro.
Forse non tutti lo sanno, ma il Comune di Torino, circa due anni fa, con
un’apposita delibera, ha varato un progetto insieme all’Unione industriale ed
ai Sindacati, stanziando 740 milioni da destinare alle aziende dell’area
torinese che avessero inserito, al loro interno, giovani handicappati
intellettivi, anche lievi.
Non c’era nemmeno l’obbligo di assunzione; le aziende avrebbero dovuto dare
la loro disponibilità per i tirocini ed i ragazzi sarebbero stati seguiti da
personale del Comune per imparare le mansioni; l’azienda, al termine del
tirocinio, avrebbe deciso se assumerli o no.
Le aziende associate all’Unione industriale di Torino hanno dato,
all’inizio, la loro disponibilità, ma le assunzioni ed i tirocini non sono
stati concretizzati: ancora sono disponibili quasi tutti i 740 milioni
stanziati.
L’Unione industriale non ha fatto, ovviamente, nulla per incentivare
l’iniziativa presso i suoi soci. Le uniche risposte sono arrivate dal settore
del commercio; infatti alcuni ragazzi sono stati inseriti in supermercati, in
grossi punti vendita, a detta di tutti con ottimi risultati.
Noi contestiamo la prassi recente che delega alle sole cooperative sociali
l’assunzione dei soggetti svantaggiati.
L’accordo di Treviso tra l’Unione industriale e le cooperative non ci piace
neanche un po’ (1). Le cooperative sociali, che pur stanno svolgendo, in questo
momento di assenza totale di altre opportunità, un ruolo importante, valido,
lodevole, non possono accollarsi all’infinito la responsabilità di dar lavoro
ai soggetti con handicap. Ad un certo punto anche le cooperative si
satureranno, non potranno inventare servizi e ruoli lavorativi ad hoc per i più deboli. Pertanto i
futuri giovani handicappati e tutti coloro che non avranno ancora trovato una
sistemazione, rimarranno fuori dal circuito lavorativo.
È invece all’interno dei normali luoghi lavorativi, insieme alle persone
cosiddette normali, nei pubblici uffici, nelle aziende, che anche per un
handicappato intellettivo si devono trovare collocazioni lavorative mirate alle
proprie capacità, ovviamente ridotte, ma pur sempre produttive ed utili.
È così che si combatte l’emarginazione, rendendo tutti partecipi del
progetto di integrazione e di recupero dell’handicappato.
Anche di fronte alla crisi del lavoro che sappiamo bene essere grave in
questo periodo, non si può accettare come inevitabile il non inserimento e
l’espulsione dalle normali aziende pubbliche e private dei lavoratori
handicappati. Non si può rinunciare a rivendicare posti di lavoro per questi
soggetti.
Noi stiamo lavorando, appunto, in questa direzione ed il vostro sostegno
sarebbe di grande aiuto, soprattutto nelle sedi istituzionali, nelle quali
assessori e politici del vostro partito governano: ci aspettiamo che
intervengano per sbloccare situazioni ferme da anni. Mi riferisco, in
particolare, alle assunzioni presso la Provincia di Torino il cui impegno
risale al lontano 1991. Non sono mai state attuate, nonostante l’approvazione
di delibere a cui, però, finora non è stato dato corso.
Mi riferisco alla Regione Piemonte che, a quanto mi risulta, non ha molti
handicappati intellettivi all’interno del proprio organico.
Noi lavoriamo anche perché coloro che non hanno la possibilità di andare a
lavorare, perché sono troppo gravi, abbiano – comunque – la possibilità di
condurre la loro vita in modo dignitoso, che possano passare il loro tempo
occupati in attività a loro adatte, insieme ad altre persone come loro, ed
anche insieme ai cosiddetti normali, in strutture che non siano ghetti o puri e
semplici parcheggi.
Lottiamo perché, comunque, queste strutture ci siano, perché sul territorio
vengano garantite in numero sufficiente alle reali esigenze. Attualmente vi
sono lunghissime liste di attesa e non c’è posto per tutti. Mi riferisco ai
centri socio-terapeutici diurni per i più gravi, ai CAD (centri di attività
diurna) per i meno gravi in attesa di un lavoro, alle comunità alloggio in cui
possano essere inserite le persone con un handicap che hanno la possibilità –
con un minimo di controllo e di aiuto da parte dell’assistenza – di avere
una propria vita indipendente.
In definitiva, lottiamo perché anche questi giovani (che sono più
sfortunati, ma non per questo hanno meno diritti degli altri) abbiano la
possibilità di condurre una vita sociale la più normale possibile e quindi
insieme a tutti gli altri. Non devono essere emarginati in casa o in istituti
da cui rischiano di non uscire mai, e – se possibile – non devono entrare nel
circuito di pura assistenza da cui è difficile liberarsi.
Occorre che ad essi siano messi a disposizione gli strumenti necessari per
diventare parte attiva della società attraverso il solo mezzo che permette il
raggiungimento di una piena autonomia, cioè il lavoro.
Per questi soggetti il lavoro è anche la migliore terapia possibile e un
indispensabile fattore di integrazione.
Per ritornare al tema del convegno “Periferie del mondo e disagio
giovanile: quali prospettive?”, secondo noi, per i giovani handicappati, così
come per tanti giovani, tutto il mondo rischia di essere un’enorme periferia.
Essi vivono in una periferia costante, anche se magari vivono nel centro della
città. La periferia in cui essi vivono e in cui troppi giovani rischiano di
restare, è una periferia culturale.
Le barriere architettoniche, che nessuno vuol mai rimuovere, non sono nulla
in confronto alle barriere culturali.
Se vogliamo dare una risposta alle varie forme di disagio, sia per i
giovani che per i nomadi, gli extracomunitari e gli handicappati, a nostro
avviso, si deve partire proprio dalla rimozione delle barriere culturali, che
non ci permettono di vedere le esigenze degli altri e di far sì che ogni
emergenza diventi centrale e non marginale.
Deve essere, quindi, tutta la collettività (e non solo poche persone che
spendono tempo e energie) ad intervenire nella difesa dei più deboli, a farsi
carico di tutti questi problemi.
(*) Intervento svolto al convegno “Periferie del
mondo e disagio giovanile: quali prospettive?” (Torino, 21 marzo 1998) organizzato
dal Gruppo Giovani di Rifondazione comunista.
(1) Cfr. “Fuori gli handicappati dalle normali aziende di Treviso”,
Prospettive assistenziali, n. 116,
ottobre-dicembre 1996.
www.fondazionepromozionesociale.it