Prospettive assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998

 

 

parte male la sperimentazione relativa al reddito minimo di inserimento

 

Nello scorso numero abbiamo riportato il testo integrale del decreto legislativo 18 giugno 1998 n. 237 concernente il reddito minimo di inserimento definito «una misura di contrasto della poverà e dell’esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli».

Possono accedere al reddito minimo di inserimento i soggetti «privi di reddito ovvero con un reddito che, tenuto conto di qualsiasi emolumento a qualunque titolo percepito e da chiunque erogato, non sia superiore alla soglia di povertà stabilite in 500 mila lire mensili per una persona che vive sola».

In presenza di nuclei familiari composti da due o più persone, l’importo erogato è stabilito sulla base della seguente scala di equivalenza:

 

numero dei componenti                            parametro

            1                                                      1,00

            2                                                      1,57

            3                                                      2,04

            4                                                      2,46

            5                                                      2,85

 

Inoltre, «i soggetti destinatari debbono altresì essere privi di patrimonio sia mobiliare sotto forma di titoli di Stato, azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni di investimento e depositi bancari, che imombiliare fatta eccezione per l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale se posseduta a titolo di proprietà, il cui valore non può eccedere la soglia indicata dal Comune».

In primo luogo è sconcertante che l’iniziativa sia stata assunta dal Governo e approvata dal Parlamento senza tener conto delle esperienze realizzate dai Comuni, loro Consorzi e da Comunità montane, alcune delle quali avviate vent’anni fa (1).

Inoltre, osserviamo che l’importo di 500 mila lire, indicato nel decreto 237/1998 quale «soglia della povertà» è sicuramente insufficiente per garantire il minimo indispensabile per vivere.

Al riguardo, segnaliamo che il Comune di Torino fin dal 1978 ha assunto l’importo della pensione minima di vecchiaia erogata dall’INPS quale livello base del minimo vitale. Pertanto, attualmente esso è di L. 697.700 mensili.

A questa cifra il Comune di Torino aggiunge il rimborso delle spese concernenti l’affitto, fino ad un massimo di Lire 250 mila mensili, nonché un contributo per il riscaldamento ammontante a L. 300 mila all’anno.

Dunque, per i torinesi il minimo vitale mensile è di L. 972.700, quasi il doppio dell’importo stabilito dal decreto legislativo 237/1998.

Si tenga presente che nei casi di diete particolari, il Comune di Torino rimborsa le spese sostenute per l’acquisto dei relativi alimenti prescritti dai medici.

Circa il suddetto provvedimento non si comprende per quali seri motivi il sussidio economico venga erogato ai proprietari dell’alloggio in cui vivono.

Per evidenti ed elementari ragioni di giustizia a coloro che posseggono beni immobili (2) e non dispongono di redditi, non dovrebbero essere concessi contributi a fondo perduto, ma esclusivamente prestiti che i beneficiari dovrebbero essere tenuti a rimborsare appena abbiano risolto le loro difficoltà economiche oppure in occasione della apertura della loro successione (3).

 

 

 

(1) Si veda, ad esempio, la delibera assunta dal Consiglio comunale di Torino in data 21 giugno 1978 (cfr. Prospettive assistenziali, n. 44, ottobre-dicembre 1978) sulla base di un testo predisposto dall’ULCES, Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale (Ibidem, n. 41, gennaio-marzo 1978). Si tenga, altresì, presente che fin dal 1958 il Comune di Torino ha erogato contributi economici alternativi al ricovero.

(2) A nostro avviso, nella valutazione delle condizioni economiche, si dovrebbe tener conto anche dei beni mobili registrati (auto, barche, ecc.) che non siano utilizzati quali strumenti di lavoro.

(3) Purtroppo, finora a nulla sono servite le nostre riflessioni sull’assurdità di considerare poveri, come fa anche la Commissione nazionale di indagine sulla povertà e l’emarginazione, coloro che, pur non disponendo di redditi, sono proprietari di beni. Si veda, ad esempio, “È povero anche chi non ha redditi ma possiede patrimoni?”, Prospettive assistenziali, n. 117, gennaio-marzo 1997.

 

 

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