Prospettive
assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998
Il Dipartimento per gli affari
sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha recentemente pubblicato
il Rapporto 1997 sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia,
di cui riportiamo integralmente il capitolo intitolato “Tutelare i soggetti
allontanati dalla propria famiglia”.
Al riguardo vogliamo ricordare
che:
1. – sono ancora 30-40 mila
i minori ricoverati in istituto. La mancanza di dati attendibili è la prova
inconfutabile del disinteresse delle autorità centrali e locali;
– per una effettiva tutela dei
minori gli interventi prioritari non sono quelli assistenziali. Occorre,
quindi, che i fanciulli ed i loro nuclei familiari siano messi in grado di
usufruire degli indispensabili servizi sociali: abitazione, sanità, scuola,
trasporti, ecc. Una condizione di assoluta importanza – com’è ovvio – riveste
il lavoro. Se non è possibile l’occupazione di almeno uno dei genitori (che
dovrebbe essere ricercata anche colpendo il doppio lavoro e il lavoro nero
praticati da oltre 5 milioni di persone) alle famiglie dovrebbe essere
garantita una somma corrispondente almeno al minimo vitale;
2. – quando le famiglie
presentano gravi difficoltà educative, è necessario intervenire tempestivamente
nei confronti dei genitori e dei figli. Purtroppo, nel capitolo che
trascriviamo non c’è alcun concreto riferimento a questo problema ed a quelli
indicati al punto precedente;
3. – nonostante l’evidente
esigenza della definizione degli organi di governo preposti alla programmazione
e gestione delle attività assistenziali, nessun Governo (dall’Unità d’Italia ad
oggi) ha finora provveduto in merito. Ne deriva che in molte regioni non si sa
nemmeno chi deve gestire i servizi, in particolare quelli alternativi al ricovero
in istituto. La questione non è stata nemmeno presa in considerazione dalla
legge 285/1997, con il rischio che una parte degli stanziamenti (120 miliardi
per il 1997, 315 per ciascuno degli anni 1998 e 1999) vada dispersa (1) o resti senza alcun seguito al termine del
periodo di vigenza della legge suddetta;
– non viene nemmeno preso in
considerazione il problema delle misure, a nostro avviso urgentissime,
necessarie per evitare che negli istituti e nelle comunità alloggio pubbliche e
private continuino ad operare persone con forti disturbi della personalità (2).
* * *
Da cinquanta e più anni i livelli
ministeriali producono documenti su quel che dovrebbe essere fatto, a volte
dimenticando (v. sopra) anche atti di estrema importanza.
Diciamo basta!
In alternativa, chiediamo
relazioni in cui vengano presi in esame i 7-8 aspetti fondamentali (creazione
degli organi di governo locale, atti deliberativi approvati, nuovi servizi
istituiti, minori e nuclei familiari coinvolti, personale assunto, ecc.) al
fine di consentire ai cittadini e alle organizzazioni sociali di base di sapere
che cosa è stato effettivamente fatto e da chi.
tutelare
i soggetti allontanati dalla propria famiglia
È ormai patrimonio comune delle scienze sociali, psicologiche e forse anche
del comune sentire, che l’istituzionalizzazione dei bambini e delle bambine
produce una grave frattura nel loro processo di crescita. Purtroppo è stato
proprio grazie agli studi condotti sui bambini ospitati nei brefotrofi nel
periodo bellico e postbellico che la psicologia ha svelato cosa accade ad un
bambino e ad una bambina che non vivono la loro vita intrattenendo relazioni
familiari affettive sufficientemente forti, stabili ed orientate alla crescita.
Le istituzioni in cui la bambina e il bambino vivono relazioni neutre e
massificate, in cui prevalgono le regole del grande gruppo ed in cui essi non
possono aspettarsi attenzioni e relazioni sufficientemente individualizzate,
producono spesso identità personali fragili contrassegnate da profonde insicurezze.
Il tempo
trascorso da quelle prime ricerche pesa a chiunque consideri quanti bambini
ancora vivono anni fondamentali della loro crescita negli istituti.
Progetto educativo e progetto sociale
È certamente
vero, tuttavia, che da tempo anche nel nostro paese, accanto al persistente
ricorso ad istituti tradizionali, si è progressivamente allargato il numero di
bambini che, provenendo da situazioni familiari caratterizzate da difficoltà di
vario tipo, vengono inseriti in piccole comunità. La terminologia varia e
cangiante con cui in Italia si definiscono ed autodefiniscono queste strutture
(case famiglia, comunità di accoglienza, gruppi appartamento, comunità di
tipo familiare, ecc.) evidenzia che essa non esprime tanto la funzione che esse
svolgono, quanto piuttosto l'intenzione di differenziarsi dagli istituti per
dimensioni operative e per progetto educativo.
Si tratta di
un'evoluzione importante che ha prodotto una fioritura di strutture di piccole
e medie dimensioni che hanno dato vita ad esperienze di accoglienza a volte
spontanee e a volte frutto di attenta progettazione. Questa ricchezza di
esperienze costituisce ormai un patrimonio importante che, superata da tempo la
sua collocazione sperimentale, viene massicciamente utilizzata dalle amministrazioni
locali per collocare quei bambini che necessitano di un allontanamento dalla
propria famiglia di origine.
In tutte
queste realtà ha avuto modo di svilupparsi una professionalità importante
spesso coniugata a straordinarie testimonianze di generosità e solidarietà. Il
riparo ed il mero sostentamento di un tempo si sono, in queste esperienze,
trasformati in interventi caratterizzati da una maggiore capacità di ascolto e
di accoglienza dei bambini in ambienti di vita sicuramente meno spersonalizzati
rispetto al passato.
I grandi
meriti di queste esperienze hanno avuto ampio riconoscimento per la funzione
sociale svolta e per la trasformazione profonda che attraverso di loro si è
prodotta negli interventi di protezione dei bambini e degli adolescenti.
Tuttavia
oggi vale forse la pena di inaugurare una nuova fase di riflessione finalizzata
a comprendere meglio la funzione delle strutture di accoglienza per bambini ed
adolescenti in relazione alla necessità che il sistema degli interventi di
tutela e di protezione dell'infanzia realizzi davvero il migliore interesse per
le persone cui è destinato. A questo punto si può affermare con sufficiente
sicurezza che proprio il fine di garantire ai bambini che soffrono di
particolari condizioni di disagio familiare, un progetto di intervento che
consenta lo sviluppo per ciascuno di loro di una personalità sufficientemente
integrata, armonica e compiuta, sia e debba essere lo scopo del sistema degli
interventi. Che si debba parlare di un «sistema» di interventi sembra
necessario sia per il fatto che ogni situazione di disagio che riguarda un
bambino ed una bambina merita una risposta individualizzata e sia per il fatto
che questa risposta è sempre costituita da una pluralità di interventi e di
persone che in questa situazione intervengono. Tuttavia non è affatto scontato,
nel nostro paese, che gli interventi di tutela e protezione dell’infanzia si
configurino come un sistema, nonostante, come si è già detto, le leggi vigenti
impegnino le istituzioni ad interventi realmente in grado di promuovere le
condizioni dell’infanzia in difficoltà.
Non solo
dunque il loro mero mantenimento ed una generica educazione, ma un progetto più
ambizioso e sensato costituito, appunto, dal tentativo di promuovere nei
bambini identità personali non compromesse dalla solitudine e dall'abbandono e
quindi condannate per questo all'esclusione sociale.
Questo
compito risalta tanto più se si considerano le profonde modificazioni
intervenute negli ultimi decenni nelle biografie dei bambini istituzionalizzati,
oggi in prevalenza non orfani, ma figli di famiglie quasi sempre gravemente
incompetenti sul piano affettivo ed educativo.
Si è già
detto della significativa evoluzione che questo particolare settore di
intervento sociale ha avuto e, in effetti, è grazie a questa evoluzione che è
possibile oggi considerare in modo meno stereotipato il fenomeno
dell’istituzionalizzazione in generale e considerare i due elementi di fondo
che la costituiscono. Sono gli elementi che hanno segnato e segnano in modo indelebile
tante storie di bambini e bambine: da un lato l’ambiente caratterizzato dalla
«non familiarità» e «non ordinarietà» e dall'altro l'assenza di una
progettualità orientata alla reintegrazione del bambino e della bambina in un
percorso di vita caratterizzato, appunto, dalla familiarità e dalI'ordinarietà.
Se questi
possono essere considerati gli elementi di base che connotano la vita in
istituto, è chiaro come d'altra parte non sia affatto sufficiente che le
strutture di accoglienza diverse dagli istituti tradizionali abbiano le
sembianze di normali abitazioni per poterle davvero distinguere in modo
significativo. A questo elemento (peraltro non così scontato se si considera
che l'arredamento esprime sempre significati più profondi rispetto ai soli aspetti
funzionali) deve quanto meno affiancarsi un profondo e dinamico orientamento
dell'intervento nella direzione di favorire soluzioni che restituiscano la
bambina e il bambino ad un percorso di vita normale. È appena il caso di
accennare che, pur essendo difficile definire una volta per tutte cosa sia una
vita «normale», può senz'altro affermarsi che per un bambino ed una bambina sia
sostanzialmente quella situazione che consente loro di strutturare legami
affettivi con figure genitoriali sufficientemente valide in grado di garantire
un supporto nel percorso di crescita. Inoltre, per i bambini segnati dal dramma
dell'allontanamento dalla propria famiglia, una vita «normale» è una vita in
cui non sia preclusa la possibilità di rielaborare questo evento e di socializzare
in modo paritario con i coetanei.
È alla luce
di questo obiettivo che debbono valutarsi gli interventi sociali sull'infanzia
e che deve costruirsi un «sistema» che agisca, giova ripeterlo, come
prevenzione di una precoce condanna all'esclusione vitale oltre che sociale. È
per questi motivi che si può ragionare sull’attuale assetto delle residenze per
bambini ed adolescenti al di là di ogni superficiale e sbrigativa definizione
burocratica del problema.
La tesi che
si vuole qui sostenere è in sostanza la seguente: la ricorrente ed esclusiva
enfatizzazione del progetto educativo, interno alle strutture di accoglienza
alternative agli istituti, rischia di mettere in secondo piano l'aspetto
determinante l'intero sistema delle accoglienze per minori che è costituito
dalla loro «funzione sociale». Solo dopo aver definito quest'ultima (cosa che
ci sembra fare l'art. 2 della legge 184 del 1983) si potrà sviluppare appieno
il tema della progettualità psicopedagogica delle strutture di accoglienza
(ovvero il progetto educativo) e le relative implicazioni organizzative.
Pur
considerando l'assoluta gravità del fatto che nella vita di un bambino e di una
bambina si renda necessario l'allontanamento dalla propria famiglia di origine,
occorre che si continui a considerare l'allontanamento solo come un primissimo
passo di una strategia riparativa e preventiva di possibili maggiori e più
devastanti danni al suo sviluppo. In nessun caso, tuttavia, con questo passo si
può esaurire l'intervento. Un allontanamento, che si consumasse esclusivamente
nell'inserimento del bambino e della bambina nella migliore comunità
immaginabile, sarebbe inutile oltre che dannoso se non accompagnato ad una
serie di scelte progettuali concomitanti e successive che mirino ad ottenere
nel bambino e nella bambina la comprensione (quanto maggiore possibile)
dell'accaduto, senza che essi abbiano a colpevolizzarsi dell'interruzione della
continuità delle loro relazioni familiari.
In linea di
massima si può affermare che l'allontanamento di una bambina e di un bambino ed
il loro inserimento in comunità, quando non preveda un robusto piano di
intervento a favore della loro famiglia, ovvero non prenda in considerazione
(quando è impossibile il rientro in famiglia) il ricorso all'affidamento familiare
o all'adozione, sia in buona sostanza un'istituzionalizzazione.
Se infatti
la crescita del bambino e della bambina devono essere l'oggetto di pensiero di
chi elabora il progetto intervento, a questa ed ai fattori che la favoriscono
si deve mirare nella ricerca della soluzione più stabile e soddisfacente e
nella scelta delle modalità realizzative più opportune e più rispettose del
loro bisogno di capire e di essere considerati non oggetti, ma persone.
L'esistenza
di un progetto che sia capace di «pensare» il bambino e la bambina nel corso
della loro crescita è la vera discriminante tra un intervento buono ed uno
pessimo. Del resto, lo stesso ricorso all'affidamento familiare, se non avviene
in modo progettuale e verificabile, espone il bambino e la famiglia che lo
accoglie a grandi rischi di insuccesso sul piano, vale la pena di sottolinearlo
ancora, della costruzione di un'identità personale sufficientemente integrata e
compiuta.
Appare ovvio
che, nel caso di difficoltà familiari del bambino e della bambina che
comportano la necessità di un loro allontanamento temporale o non, dalla
famiglia, la soluzione ottimale non può che essere quella dell'affidamento
familiare. Non affrontiamo questo tema perché è stato ampiamente analizzato nel
Rapporto 1996. Sembra invece qui opportuno svolgere qualche considerazione
sull'ipotesi in cui non sia possibile realizzare questo tipo di affidamento
perché anche in questi casi è necessario realizzare modalità di intervento che
siano rispettose dei diritti dei minori e tali da consentire un compiuto
sviluppo di personalità e l'acquisizione di una adeguata identità.
I bambini
gravemente handicappati, quelli affetti da gravi patologie psichiatriche, i
preadolescenti e gli adolescenti hanno senz'altro bisogno di strutture residenziali
in grado di accoglierli sulla base di un completo progetto sociale ed
educativo. Non si tratta infatti di determinare per queste situazioni
un'impossibilità assoluta al ricorso all’affidamento familiare, all'adozione,
ovvero al rientro nella famiglia di origine, quanto piuttosto di riconoscere
che, anche in vista di questo obiettivo, le strutture non possono che
concepirsi come situazioni temporanee, funzionali alla realizzazione di
progetti individualizzati in grado di consentire nel massimo grado possibile la
realizzazione personale e l’autonomia delle persone.
La vita in comunità ed i bisogni della crescita
Tenendo
conto di quanto sin qui affermato, si consideri che la maggioranza delle
strutture di accoglienza per bambini hanno riposto grande cura negli aspetti
operativi prendendo a modello di riferimento la famiglia allargata (da qui per
molte di esse la dizione di «comunità di tipo familiare»). Nella realizzazione
di questo modello si è proceduto alla cura di una vasta gamma di metodologie di
approccio al bambino ed alla bambina ed alla gestione del loro quotidiano
nonché dei loro rapporti con la famiglia di origine. Questi sforzi, lo si è già
detto, hanno prodotto grandi cambiamenti e ridotto notevolmente nei bambini le
sofferenze derivanti dall’allontanamento e dall’abbandono.
Tuttavia è
sufficiente dare uno sguardo all'organizzazione della maggioranza delle
strutture di accoglienza per considerare come esse non possano considerarsi
come «alternative» alla famiglia sia per ciò che attiene al funzionamento delle
relazioni affettivo-educative tra gli operatori ed i bambini sia per ciò che
riguarda la prevalenza in esse dell'aspetto operativo su quello esistenziale. A
mero titolo di esempio è appena il caso di considerare come sia assolutamente
frequente che il bambino e la bambina siano seguiti da operatori che effettuano
turni di lavoro. E ancora: è dato praticamente per scontato che una buona parte
della sua vita sia in misura rilevante condizionata dalle regole di
organizzazione della struttura che lo ospita. Del resto anche le strutture
caratterizzate da una maggiore familiarità ambientale, vuoi perché gestite da
coppie di operatori stabilmente residenti, vuoi per le dimensioni davvero
ridotte del gruppo (con un numero di minori, cioè, non superiore a cinque)
proprio per il tipo di attività che vi viene svolta sono difficilmente
assimilabili ad una ordinaria famiglia. Non sembri banale la considerazione che
nelle famiglie «normali» non si riscontra la presenza stabile e continuativa di
persone che svolgono il servizio civile e che nella quasi totalità dei casi le
famiglie «normali» non si dedicano continuativamente all'accoglienza di persone
afflitte dai più disparati problemi.
Il senso di
queste affermazioni non risiede affatto nel tentativo di dimostrare che quella
«familiarità» a cui si improntano moltissime delle strutture di accoglienza per
minori in Italia sia in realtà di impossibile realizzazione. Al contrario,
l’adeguamento metodologico e strutturale al modello familiare esprime una
tensione significativa da sostenere. Tuttavia sembra opportuno e doveroso
affermare al tempo stesso che in queste strutture le relazioni cosiddette
familiari vengono costantemente riformulate ed orientate alle esigenze delle
persone accolte. I bambini inoltre costituiscono un «gruppo» soggetto a
modifiche, cambiamenti e crisi di vario tipo. Le sofferenze psicologiche che
ciascuno degli accolti ha diritto di esprimere non sono l'eccezione, sono
semmai la norma e di conseguenza la vita del gruppo risulta connotata dai vari
bisogni individuali e dalle differenti condizioni di provenienza. Questi
elementi fanno sì che l'attività «tecnica» delle strutture sia, se non altro,
pari (se non prevalente) rispetto alla familiarità ambientale che è, in senso
stretto, un mezzo e non un fine, posto che il fine è quello di corrispondere al
meglio alle esigenze, soggette a modifiche molto frequenti, degli accolti.
Inoltre quasi sempre le problematiche relative alla gestione dei casi dei
bambini accolti sono tali da richiedere una rilevante attività di
organizzazione del lavoro e dello spazio vitale di ciascuno, determinando di
conseguenza uno scostamento sensibile del quotidiano delle strutture da quello
di una qualsiasi famiglia. Tutto ciò avviene anche laddove la affettività ed
intimità delle relazioni familiari rimane la matrice ispiratrice forte ed
originaria di questi progetti di intervento.
Un certo
dibattito tutto italiano di questi anni ha portato a concepire queste
caratteristiche peculiari delle strutture di accoglienza per minori come un
loro limite, quasi che queste fossero chiamate a proporsi in forma alternativa
rispetto alla famiglia, oltre che agli istituti tradizionali. L'esito di questo
dibattito che discriminerebbe tra vere e false comunità di tipo familiare ci
sembra francamente riduttivo. La realtà è che accogliere bambini in difficoltà
spesso gravi, è un'attività complessa ed impegnativa soprattutto perché,
giustamente, alle strutture di accoglienza le istituzioni si rivolgono quando
le difficoltà esplodono violentemente, frantumando le relazioni familiari o
quando la non competenza dei genitori si rende talmente manifesta da
configurare una situazione di rischio tale per cui è opportuno che il minore ne
sia allontanato.
I bambini in
questa fase della loro vicenda personale hanno bisogno di attenzioni e cure
specifiche, di tempo e spazio dedicato all'elaborazione di vissuti gravi e
spesso gravissimi. I bambini a questo punto della loro esperienza di vita sono
prevalentemente sfiduciati, impauriti, difficilmente disposti alle relazioni,
spesso intolleranti nei confronti di regole di cui non hanno mai avuto modo di
conoscere il senso e la portata rassicurante e contenitiva. In questo tempo
debbono poter capire tante cose e per far questo compiono un grande sforzo che
si accompagna spesso alla difficoltà di controllare i propri intensi sentimenti
di rabbia e di frustrazione.
Gli
operatori sono in condizioni di sviluppare efficacemente la loro attività
quando con pazienza e capacità possono dedicarsi alle «particolarità» di questo
segmento difficile e doloroso della vita del bambino. A questo «lavoro» (pieno
di intensi significati e valenze), è destinata innanzitutto la loro presenza
capace di osservare ed interpretare i messaggi più profondi che i bambini
esprimono nel quotidiano. Inoltre, è degli operatori delle strutture, il
compito fondamentale di comprendere le reali condizioni di salute fisica e
psichica del bambino, orientando con maggiore consapevolezza i primi
accertamenti diagnostici ed impostando eventualmente gli interventi terapeutici
che si rendessero necessari. Quindi è loro specifico compito di stimolare e
rasserenare il bambino aiutandolo a recuperare gradualmente fiducia nel mondo
degli adulti ed in se stesso. Di conseguenza, gli operatori hanno il compito di
aiutare il bambino a ricollocarsi rispetto alle figure genitoriali, verificando
contemporaneamente il livello qualitativo delle relazioni e delle aspettative
di rapporto, valutandone le conseguenze sul bambino. Infine, si può dire, che è
compito degli operatori delle strutture mettere a disposizione delle
istituzioni pubbliche tutti questi materiali, collaborando attivamente perché
si adottino tutte le scelte necessarie al fine di restituire il bambino ad una
vita realmente integrata e adeguata.
Tutto questo
ci sembra debba realizzarsi indifferentemente nei casi in cui questo significhi
progettare un rientro in famiglia, un affidamento familiare ovvero un’adozione.
In questo
tempo che appartiene purtroppo all’esperienza di vita di molti bambini e
bambine è da collocare la funzione delle strutture di accoglienza. Tutto ciò
vale anche per i bambini con disabilità psicofisiche: i loro bisogni non sono
se non più accentuati rispetto agli altri. Tutti i bambini e le bambine accolti
nelle strutture hanno bisogno di un’attenzione «tecnica» elaborata e
personalizzata, così come di una tensione, di un pensiero di un progetto che
guarda al futuro, alla vita.
Infatti se
la situazione familiare non è grave o è legata ad una circostanza contingente,
è delittuoso pensare di aiutare il bambino con un inserimento in struttura: in
questi casi un parente, una famiglia amica o anche i vicini possono aiutare il
bambino meglio di chiunque altro. Ma se il caso è grave e le difficoltà tali da
richiedere tempi più lunghi e, soprattutto, se l’esperienza precedente è
segnata da maltrattamenti e incurie, le cose sono oggettivamente più complesse.
In questi
casi infatti il bambino vive l’allontanamento in modo quasi sempre traumatico:
esso è necessario anzi indispensabile perché egli stesso sia tutelato nel suo
percorso di crescita. Ma se si pensasse che il bambino possa essere consapevole
di tutto ciò e percepire immediatamente il valore di questo evento di
straordinaria portata emotiva si commetterebbe un grossolano errore di
valutazione. Il percorso di rielaborazione della sua storia ha bisogno di tempi
e di esperienze specifiche che lo aiutino a capire ed anche ad accettare ciò
che, in realtà, non è affatto semplice da accettare. Tutto ciò, lo si è detto,
ha bisogno di un tempo ma non indefinito né casuale. Il tempo negli interventi
a favore dell’infanzia è una variabile che deve essere oggetto della massima
attenzione. In genere, infatti, i tempi dell’avvio a soluzione di difficoltà
emotive e psicologiche anche rilevanti possono limitare la permanenza del
bambino nella struttura ad un anno. In ogni caso ci sembra importante ribadire
come in nessun caso questa durata possa essere, senza danno, rimessa al caso o
cosa peggiore e, purtroppo non infrequente, agli interessi degli adulti.
Infine, è
opportuno fare un cenno alla funzione delle strutture residenziali per gli
adolescenti.
Infatti pur
non essendo opportuno costruire l’articolazione del sistema delle strutture di
accoglienza per fasce di età, è tuttavia appena il caso di accennare al tema
delle strutture per gli adolescenti. A questo proposito senza la pretesa di
affrontare esaustivamente questo tema, basti dire che sono profondamente
diversi i connotati organizzativi e metodologici di una struttura di
accoglienza per l’infanzia, rispetto a quella destinata ad adolescenti. Ciò non
solo in ragione delle diverse esigenze delle persone che vi vengono
rispettivamente ospitate, ma anche in considerazione della diversa funzione che
queste strutture debbono svolgere. È indubbio, infatti, che l’esperienza indica
con grande chiarezza che l’inserimento in struttura di adolescenti è teso a
completare un percorso di autonomizzazione che per vari motivi è impossibile si
compia in famiglia. In un certo senso, quindi, è l’autonomia ed il suo
raggiungimento l’obiettivo (impegnativo, ma quanto mai necessario) delle
residenze per adolescenti. Per questo la durata dell’accoglienza si dovrà
parametrare sul percorso necessario alla realizzazione di questo scopo.
In questi
contesti le esperienze educative individuali e di gruppo hanno un forte
orientamento alla costruzione di percorsi di socializzazione non deviante ed è
di estrema importanza che queste sappiano orientare i ragazzi e le ragazze, con
grande concretezza e creatività, alla transizione nel mondo del lavoro e della
produttività.
Le comunità, l'affido e l'adozione
È noto che
l'affido familiare viene concepito ed utilizzato proprio per consentire ai
bambini in difficoltà di vivere in un ambiente di vita familiare quando le
condizioni del nucleo familiare originario non sono tali da indurre il giudice
del tribunale per i minorenni a dichiarare lo stato di adottabilità e nemmeno
tali da far considerare opportuna per il bambino la sua permanenza in casa.
Ma che
relazione c'è tra gli affidamenti familiari e gli inserimenti in comunità, in
casa famiglia o similari? Si tratta di interventi alternativi tra loro? Hanno
la stessa natura?
Alla luce di
quanto detto finora ci sembra di poter affermare che i due interventi hanno
connotati profondamente distinti e che solo una lettura approssimativa e
superficiale (purtroppo ricorrente) riesce ad accomunare quasi fossero, in
fondo, la stessa cosa.
La
familiarità dell'intervento che è invocata come denominatore comune tra i due
interventi, non è un dettaglio marginale e tuttavia, più che assimilare i due
interventi sta a significare che nessuno, tanto meno i bambini, può vivere
senza affetti neanche per un po'. Significa, questa familiarità, che il
quotidiano del vivere dei bambini è fatto di una sostanza affettiva e relazionale
senza la quale non si cresce, non ci si sviluppa e quindi non ci si forma
un'identità.
L’identità
di ciascuno si sviluppa, del resto, attraverso esperienze relazionali che sono,
a partire da quella fondamentale dell’attaccamento, la matrice di questo
sviluppo. In questo senso le esperienze di piccole comunità e le esperienze di
accoglienza in famiglia affidataria e/o adottiva hanno in comune l'attenzione a
non rompere la trama delle relazioni che ci si propongono come rilevanti e
significative e delle quali viviamo.
Tuttavia le
comunità, al di là di certo semplicismo manieristico, hanno compiti, finalità e
responsabilità assai diverse dalle famiglie. Lungi dall'essere le concorrenti
sociali delle esperienze di accoglienza realizzate dalle famiglie, esse debbono
corrispondere a precise funzioni inerenti la progettazione sociale degli
interventi di tutela dei minori.
La grave
crisi per la quale il bambino viene allontanato d'autorità dalla sua famiglia
multiproblematica non sempre può far considerare opportuna una sua immediata
collocazione eterofamiliare. Per quale motivo? Per insufficienza dei servizi? A
noi sembra di poter dire, anche alla luce dei tanti improvvisati e poi falliti
inserimenti in famiglia, che se è vero che non esiste migliore esito progettuale
per un bambino in difficoltà di quello costituito da una valida famiglia (fatto
salvo il sollecito rientro nella propria famiglia) affidataria o adottiva, è a
maggior ragione di estrema importanza che tale prospettiva sia preparata con
estrema cura. Si tratta, in altre parole, di attivarsi con ogni mezzo affinché
non solo sia elaborata la soluzione idonea per quello specifico caso, ma che
questa soluzione sia vissuta dal bambino e non subìta. Questa preparazione non
può che richiedere un tempo che consenta agli operatori di rendersi conto in
profondità delle condizioni del bambino e di ricercare con pazienza le migliori
opportunità.
In questa
fase, che dovrebbe essere scandita da un protocollo operativo valido in tutto
il territorio nazionale, l'elemento di fondo dovrebbe essere costituito dalla
sintonia progettuale di tutti gli operatori sociali e di questi con l'autorità
giudiziaria (la cui funzione è tuttavia eventuale). Tale sintonia dovrebbe
derivare dal comune operare a favore di quello specifico bambino che a sua
volta (progressivamente) dovrebbe arrivare a sentirla come una rete di adulti
che realisticamente e coerentemente si prendono cura di lui. È per questa
ragione che uno degli elementi qualificanti di questa fase è, come si è già avuto
modo di dire, quella del profondo rispetto per i tempi del bambino, unita alla
chiarezza ed alla correttezza delle comunicazioni relative al progetto che con
lui si scambiano.
Non è un
mistero, al contrario, come spesso sia proprio il cosiddetto sistema di
protezione a produrre sofferenze inutili, vuoi per i ritardi giudiziari, vuoi
per insensate competizioni ed incomunicabilità tra operatori dei servizi
pubblici e dei servizi privati, per la mancanza di protocolli operativi validi
e condivisi, per approcci meramente burocratici ovvero ideologici ed
autoreferenziali. In questo contesto non stupisce che la durata della
permanenza dei bambini in comunità sia ancora molto elevata (in media tre anni)
e priva di quel dinamismo progettuale che, alla luce di quanto sin qui
argomentato, dovrebbe caratterizzarla. L’affidamento e l'adozione sono ancora
troppo eventuali ed affidati alla pervicacia di questo o quel giudice,
assistente sociale, comunità.
Manca in
realtà un quadro sistematico di riferimento in cui collocare il ricorso alle
strutture di accoglienza e questo rende difficile considerare «strategico» il
ricorso alle stesse da parte di molti servizi territoriali. Il sospetto,
insomma, che ci si trovi ancora di fronte, intatta, la radice culturale più
tenace e resistente della deprecata istituzionalizzazione, è forte.
Per uscire
da questa situazione accanto al rilancio delle accoglienze in famiglia (siano
affidi o adozioni) occorre ripensare profondamente il senso e la prassi del
ricorso alle strutture e solo di conseguenza adeguare le richieste relative ai
loro standard di intervento. La ancora scarsa diffusione dell'affidamento non è
infatti altro che uno dei segnali dell'insufficienza (già segnalata nello
scorso Rapporto sulla condizione dei minori) della nostra rete di servizi
sociali a cui si deve aggiungere la inadeguatezza dell’offerta formativa e la
precarietà degli strumenti professionali destinata agli operatori di questo
delicatissimo settore delle politiche sociali italiane.
La profonda
depressione che gli operatori di questo settore vivono in termini di
considerazione sociale e professionale ha dimensioni ed esiti non più
tollerabili. Se si vuole qualificare davvero l’intervento a favore delle nuove
generazioni occorre abbandonare la strada della disattenzione colpevole a
livello locale, regionale e nazionale sul fatto che proprio su questo segmento
cruciale dell’intervento si gioca per migliaia di bambini la drammatica partita
della loro esclusione o integrazione. Ciò risulta essere tanto più vero in quelle
aree del nostro paese dove (come ineludibilmente ebbe ad indicare il precedente
Rapporto del 1996 sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza) si sommano
povertà, maggiore presenza di bambini, minore presenza di servizi pubblici e
minore sviluppo della società civile.
L'affidamento
familiare, in particolare, ha bisogno di un rilancio non ideologico, ma al
contrario, estremamente attento ai fattori che ne determinano la riuscita o
meno. Della preparazione del bambino all'affido si è già accennato: vale forse
la pena di riflettere ancora sull'importanza che accanto a questa vi sia un
autentico impegno progettuale a favore della famiglia di origine ed un adeguato
sostegno di quella affidataria.
Non può
esserci dubbio sul fatto che l’affidamento debba essere considerato, ad un
tempo, strumento a vantaggio del bambino ed occasione di azione a favore della
sua famiglia. Il tema è di quelli spesso sfiorati nelle riflessioni correnti
sull'affidamento. In realtà aiutare gli adulti è terribilmente difficile,
soprattutto quando in un nucleo familiare, convivono più fattori disfunzionali.
Per quanto possibile, occorre recuperare tutti gli aspetti di funzionalità di
una famiglia, impedendo che l’affido dei figli diventi conferma definitiva
delle proprie incapacità genitoriali. Per quanto difficile ciò implica che, in
un numero rilevante di casi, genitori affidatari e genitori naturali compiano
percorsi congiunti di sostegno (quindi non semplicemente paralleli) e che siano
riconosciuti a pieno titolo protagonisti, con pari dignità, di un progetto
comune e condiviso.
Alcune
esperienze condotte in questo senso ci dimostrano che è possibile: a patto però
che esistano le professionalità e la disponibilità ad operare su un progetto da
parte dei servizi territoriali.
Con
l’affidamento familiare non può pensarsi di risolvere, scaricandolo tout court
sulle famiglie affidatarie, il problema del bambino e della sua famiglia. Chi è
abituato ad una lettura non ideologica ed approssimativa di questi fenomeni sa
che solo in un numero limitato di casi difficoltà e risorse si compongono
spontaneamente ed automaticamente. È vero anche che non esistono metodologie
infallibili e ripetibili meccanicamente, ma lo sforzo di elaborazione di un
progetto sociale che riguardi bambini, affidatari e famiglie di origine è alla
base di qualunque speranza di successo. Del resto, è piuttosto evidente che la
contemporanea e congiunta azione di sostegno sugli adulti più importanti per la
vita del bambino e della bambina, può rivestire un ruolo di profonda
rassicurazione sulle loro paure di «tradire» gli uni o gli altri. La loro
crescita può avvenire con serenità maggiore se, nella storia e nello sviluppo
delle loro relazioni con gli adulti, ci sia la consapevolezza che ci sono
momenti e spazi che garantiscono ad essi la possibilità di risolvere le
tensioni ed i conflitti.
(1) Nell’articolo “Perché e come completare il
disegno di legge del Governo sull’infanzia e l’adolescenza”, Prospettive assistenziali n. 118,
aprile-giugno 1997, avevamo segnalato la necessità della individuazione degli
organi competenti in materia di programmazione, gestione e controllo dei
servizi assistenziali. Chiedevamo, inoltre, il superamento dell’attuale odiosa
separazione fra l’assistenza ai minori nati nel matrimonio (salvo eccezioni
spettanti ai Comuni) e quella rivolta ai nati fuori del matrimonio (attribuita
quasi sempre alle Province) e la precisazione della capienza massima delle
comunità alloggio al fine di evitare che possano continuare a funzionare
strutture denominate comunità aventi invece le caratteristiche dei vecchi
istituti di ricovero. Nessuna delle suddette proposte è stata accolta dal
Parlamento e dal Governo.
(2) Cfr. “Pedofilia e altre violenze: chi tutela
le persone ricoverate in istituto?”, ibidem,
n. 120, ottobre-dicembre 1997.
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