Prospettive assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998

 

 

quali servizi per le persone inguaribili?

 

 

Il convegno “Inguaribilità e incurabilità: il diritto alle cure sanitarie delle persone con malattie croniche”, tenutosi a Torino il 7 novembre 1997, alla presenza di oltre 500 persone, si è concluso con la tavola rotonda “Quali servizi per le persone inguaribili?”, presieduta da Maria Grazia Breda de “La Scuola dei diritti Daniela Sessano” dell’ULCES - Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale.

Obiettivi della tavola rotonda sono stati l’individuazione dei servizi sanitari che concretamente possono rispondere alle esigenze dei malati inguaribili, la ricerca dei percorsi necessari per superare i problemi ancora presenti e che ostacolano il diritto di questi malati ad essere curati, sempre, anche se cronici e non autosufficienti.

I primi tre interventi sono svolti da rappresentanti delle organizzazioni firmatarie dell’intesa siglata il 15 maggio 1996 dal CSA - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di Torino, il Collegio degli Infermieri professionali, Assistenti sanitari e Vigilatrici d’infanzia della Provincia di Torino e la sezione per le Regioni Piemonte e Valle d’Aosta dell’Associazione italiana dei Terapisti della riabilitazione (1).

Si tratta di un’intesa molto importante perché, come rileva Maria Grazia Breda, per la prima volta viene riconosciuto che gli anziani cronici non autosufficienti sono malati, sia dai rappresentanti degli utenti sia dai rappresentanti degli operatori sanitari.

Viene ricordato, a questo punto, come di fatto sia la famiglia in prima istanza a sostenere il peso principale della loro cura, anche economicamente.

La famiglia va dunque sostenuta e affiancata dal Servizio sanitario anche e soprattutto quando il malato può essere curato a casa con vantaggio di tutti.

Purtroppo sono notevoli le carenze a questo riguardo e, prima fra tutte, l’estrema disomogeneità delle prestazioni fornite a malati che presentano le stesse richieste. Di qui l’urgenza di assicurare il servizio a domicilio in ogni Azienda sanitaria, con modalità di cura e di orario che siano adeguati alle esigenze complesse che questi malati presentano.

In particolare il bisogno riguarda l’erogazione delle cure a domicilio a tutte le tipologie di malati (oggi si parla quasi solo di malati terminali) con un servizio in funzione almeno 8-10 ore al giorno e per tutti i giorni della settimana, sabato e festivi compresi.

Naturalmente non tutti possono essere curati a domicilio, ed ecco quindi che si pone il problema della cura in strutture extraospedaliere quali le RSA, residenze sanitarie assistenziali.

Purtroppo sono ancora grandi – secondo Maria Grazia Breda – i problemi relativi alla gestione di queste strutture, soprattutto per quanto riguarda i tempi di cura (medica, infermieristica, riabilitativa, di assistenza alla persona), assolutamente insuffi­cienti.

Anche l’unica RSA sanitaria, aperta in Piemonte (ex Via Braccini, ora Via Spalato a Torino) non considera, nel calcolo degli standard del personale, che le persone ricoverate sono  tutte malate croniche e non autosufficienti, con necessità di tempi più lunghi.

Sono anziani prevalentemente allettati, da imboccare, da cambiare, da alzare. Inoltre una percentuale consistente presenta forme gravi di demenza e di malattia Alzheimer.

In queste condizioni come è possibile accettare solo 24 minuti di assistenza infermieristica e 16 mi­nuti di riabilitazione al giorno? Su questi ultimi interrogativi si apre il confronto tra i relatori presenti.

 

Il parere del rappresentante dell’Ordine dei medici di Torino

 

Aldo Lupo, segretario provinciale dell’Ordine dei medici, rileva come sia dovuto, anche ad opera della medicina e delle sue scoperte, un aumento delle possibilità di vita in situazione di cronicità, che può durare anche anni, con bisogni di cura che non prevedono la guarigione e che vanno chiaramente oltre l’intervento della singola famiglia.

Se è vero che la famiglia è la più grande “USL” in Italia, è altrettanto vero che essa è cambiata strutturalmente e non può fare fronte – da sola – a malati così complessi.

Ma c’è un altro elemento che, secondo il Segre­tario dell’Ordine dei medici, ha influito positivamente ed è un processo culturale che spinge perché ciò che un tempo era dato per “non curabile” oggi invece lo sia.

Tuttavia egli non manca di ricordare come sia anche sempre presente un forte richiamo alle risorse, che sono – a suo avviso – sempre più scarse e che perciò costringeranno forse un giorno a dover scegliere, fra un trapianto di fegato e la vaccinazione per gli ultra 65enni.

Non sarà certo il medico a dover scegliere – sottolinea il Dr. Lupo – ma la coscienza collettiva.

Già oggi non mancano segnali preoccupanti che ci giungono dalla vicina Inghilterra.

È il caso della bambina leucemica, che non si voleva curare, o del limite delle cure sanitarie per chi supera i 75 anni di età.

Sono provocazioni sulle quali è urgente riflettere perché decideranno del nostro futuro.

Per quanto riguarda le cure a domicilio, secondo il Dr. Lupo, è sicuramente indispensabile provvedere alla loro estensione, anche se il monte ore, a suo avviso, dovrà fare riferimento più alla condizione di non autosufficienza e al bisogno di cure, piuttosto che alla malattia (Alzheimer, cancro...).

Ci sono determinati bisogni che sono comuni a patologie diverse e vanno quindi collegati a interventi flessibili, diversificati, che aumentano a mano a mano che cresce il bisogno di cura.

 

Parla il rappresentante dell’AITR

L’intervento di Domenico Di Moia, Presidente della Sezione per le Regioni del Piemonte e della Valle d’Aosta dell’Associazione italiana Terapisti della riabilitazione, inizia con un “mea culpa”, riconoscendo un ritardo della categoria rispetto alla domanda di cure riabilitative posta da questi malati.

“Quale tipo di intervento è corretto per un malato inguaribile?”, “Quale riabilitatore è il più adatto?” si chiede Di Moia e indica alcune risposte.

Innanzitutto identificare i bisogni in termini qualitativi (con quale frequenza, con quale intensità), quale durata, quale tipo di specializzazione di intervento.

In secondo luogo individuare le sedi dove far presente tale domanda, affinché ci sia la conseguente operatività.

E cita sia il piano sanitario nazionale, che quello regionale: come carenti entrambi di risposte al riguardo, ancora molto in ritardo rispetto alle attese.

Secondo il rappresentante dell’Associazione dei Terapisti della riabilitazione è utile tener conto di una possibile gradualità degli interventi, che potrebbe a suo avviso essere identificata in attività di 1° livello (cure domiciliari, RSA, ospedalizzazione a domicilio, assistenza domiciliare integrata, dimissioni pro­tette).

Vi è poi un’altra dimensione, finora poco considerata, e che riguarda il capitolo controverso degli obiettivi che un riabilitatore può porsi con pazienti inguaribili.

La riabilitazione, solitamente, è un intervento volto a ricondurre il soggetto ad una situazione il più possibile di recupero della normalità.

«Chiaramente l’intervento riabilitativo per le persone inguaribili, di cui si è parlato nel corso della mattinata – prosegue Di Moia – pone invece la necessità di agire con interventi di cura riabilitativa volta non tanto a mantenere il più alto livello di autonomia funzionale del soggetto, ma volto piuttosto a rendere accettabile la sua condizione, fino alla fase finale, che si conclude con la morte».

Il fisioterapista ha sicuramente strumenti adatti per rispondere a questo bisogno. Però bisogna superare alcuni preconcetti anche di ordine culturale e, per Di Moia, questo convegno rappresenta sicuramente una sollecitazione utile. Pertanto la professione del riabilitatore dovrà considerare tre cose:

1) cambiare modello culturale per passare da un modello riabilitativo legato ad un concetto di evoluzione a un modello che accetta anche aspetti involutivi;

2) avere la consapevolezza professionale che si possono praticare cure che non hanno come obiettivo la guarigione; con una propensione all’“aver cura”, piuttosto che non “il curare”;

3) sviluppare una capacità empatica, che favorisca l’accompagnamento della persona nelle fasi della sua malattia, fino alla sua conclusione con la morte.

Tutto ciò implica un notevole lavoro sul versante formativo, affinché si affronti, a partire da un approccio culturale nuovo, i nodi relativi agli interventi riabilitativi di cui sono passibili i malati inguaribili, insistendo sia “sul sapere”  che nel “saper fare”.

Anche l’Università dovrà ricavare uno spazio per preparare queste nuove figure di riabilitatore, che dovrà anche saper convivere con le frustrazioni e i problemi che sicuramente pone un paziente malato cronico non autosufficiente.

Non si può lasciare solo il terapista: sarà necessario sostenerlo e offrirgli la preparazione e gli strumenti – anche culturali – necessari per governare le angosce che il trattamento di cura, che può durare anche anni, sicuramente comporta.

 

Le proposte del Collegio degli infermieri professionali

 

È già da parecchio tempo, invece, che la professione infermieristica punta sulla globalità delle persone e sulla relazione che si sviluppa tra il malato inguaribile e l’infermiere che lo cura anche per anni. Relazione che, per Paola Lupano, Presidente del Collegio degli Infermieri Professionali di Torino, diventa «accompagnamento fino alla morte».

Venendo agli interrogativi sollevati da Maria Grazia Breda in apertura della tavola rotonda, Lupano evidenzia come anche per il Collegio degli Infermieri professionali siano da ritenersi del tutto inadeguati gli standard attualmente previsti dalla legge regionale per il personale sanitario che opera nelle RSA, residenze sanitarie assistenziali.

«Le RSA – continua Lupano – ospitano un numero elevato di anziani malati cronici non autosufficienti con gravi problemi sanitari».

«Non occorre essere tanto preparati  – prosegue – ma restare un solo giorno in queste residenze, compresa la notte, per capire l’inadeguatezza delle attuali normative».

Visto che l’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, sostiene che l’infermiere deve viversi come «l’avvocato dei pazienti», a rigor di logica, secondo Lupano, nessuno degli operatori dovrebbe a questo punto lavorare in queste RSA, così lontane dai livelli deontologici accettabili.

C’è poi da affrontare anche il nodo delle cure a domicilio e, in particolare, le prestazioni ancora negate al sabato e nei giorni festivi.

Secondo Paola Lupano non è una soluzione chiamare il 118, come viene invece suggerito ad esempio a chi utilizza l’ADI, assistenza domiciliare integrata. Di fatto i pazienti preferiscono ricorrere piuttosto all’assistenza privata piuttosto che affidarsi a figure professionali sempre diverse.

Il Collegio degli infermieri professionali non può quindi che continuare ad impegnarsi perché a tutti i malati inguaribili sia riconosciuto il diritto alle cure per tutte le patologie che, a seconda del bisogno e della necessità, dovranno essere garantite in modo certamente più adeguato di quanto avviene oggi.

 

L’intervento del rappresentante del Gruppo Abele

Leopoldo Grosso rappresenta l’Associazione Gruppo Abele e conosce bene il tema della inguaribilità in quanto segue da vicino i malati di AIDS.

Prima di addentrarsi sugli aspetti più politici, propone una riflessione sull’abuso del concetto di cronicità e, quindi, sulle conseguenze di questo abuso per i malati di AIDS, perché può aiutare a comprendere il fenomeno in generale legato al concetto «scarsità di risorse uguale riduzione degli interventi per chi è inguaribile».

È già successo che ad un certo punto la persona malata di AIDS cosiddetta “cronica” sia stata esclusa dal diritto agli interventi sanitari perché si è scelto tra chi può avere successo nel trattamento e chi, invece, non fa sperare in una risoluzione positiva. Si sono anche introdotti dei criteri (sempre per quanto riguarda i malati di AIDS) per definire la modalità di “scelta” di chi curare; su questo punto Leopoldo Grosso è categorico: «Non può essere accettata alcuna riduzione di intervento, perché tutti hanno bisogno di cure».

Senza pretendere di voler allungare la vita, c’è tuttavia la pretesa di garantire una morte dignitosa, qualcuno che si prenda cura di questi malati fino alla fine dei loro giorni, sul piano farmacologico e medico, su quello relazionale e sociale.

«La dignità della morte di una persona – sostiene Grosso – è sempre proporzionale alla dignità della realtà che le sta intorno. E questo vale per il malato di AIDS, il bambino leucemico, l’anziano cronico non autosufficiente, l’handicappato con sclerosi a placche, il malato psichiatrico».

«Tutte queste persone le vogliamo curate» – insiste Leopoldo Grosso – che trova quanto mai difficile pensare ad uno scenario in cui si debba scegliere tra un trapianto di fegato e la vaccinazione antinfluenzale agli ultra 65enni, paventato dal Dott. Lupo.

Per Leopoldo Grosso il giorno in cui dovessimo scegliere, avremmo perso, perché non c’è scelta alcuna da fare, in questo contesto. La scelta, piuttosto, va posta fuori dal settore sanitario, in alternativa ad altri investimenti.

Grosso evidenzia, inoltre, come sia già significativa l’unitarietà che si è sviluppata tra le associazioni che tutelano i diritti dei malati inguaribili, presenti al convegno.

«Non è un caso – sottolinea – che di fronte al diritto di tutti i cittadini ad essere curati qualunque sia la malattia, le associazioni si siano ritrovate per fare forza comune contro logiche economiche che non devono trovare terreno fertile in campo sanitario».

L’Assessore alla sanità della Regione Piemonte ha mandato in sua vece il responsabile della programmazione sanitaria, dott. Sergio Morgagni.

Sarebbe stato interessante invece il confronto proprio a livello politico, perché molte erano le domande che gli organizzatori avrebbero desiderato sottoporre all’Assessore.

Maria Grazia Breda le riassume per i partecipanti:

- perché non si modifica la legislazione regionale che regolamenta le strutture di ricovero per anziani cronici non autosufficienti tenendo conto di quanto già indicato dalle leggi nazionali?

- perché i  finanziamenti previsti in base all’art. 20 della legge 67/1988, stanziati dal Ministero della sanità per le RSA (che devono ricoverare anziani malati cronici non autosufficienti), sono utilizzati per ristrutturare residenze non a gestione sanitaria ma assistenziale?

- com’è possibile che un malato cronico e non autosufficiente possa guarire in tempi predeterminati, così come previsto dalle convenzioni siglate dalla Regione Piemonte con numerose case di cura private, che sanciscono limiti di cura di 45/60 giorni al massimo?

- perché vi sono pazienti psichiatrici che vengono dimessi o sono costretti a versare contributi, fra l’altro elevati, pur essendo dei malati e, quindi, dei soggetti le cui cure dovrebbero essere a totale carico del Servizio sanitario nazionale?

- perché la Regione Piemonte non fa nulla per far cessare la violenza psicologica che viene esercitata nei confronti dei familiari di anziani malati cronici non autosufficienti ricoverati negli ospedali, per costringerli ad accettare le dimissioni, anche in presenza di gravi patologie e di forme di acuzie della malattia?

- perché l’Assessore alla sanità non richiama i Direttori delle Aziende USL al rispetto delle leggi? Al riguardo è noto che, in base alle leggi vigenti, è sancito per tutti i malati – qualunque sia l’età e la malattia – il diritto ad essere curati senza limiti di durata dentro le strutture del servizio sanitario (ospedali, case di cura convenzionate...). Breda ricorda che è sufficiente inviare una lettera raccomandata al Direttore generale dell’Azienda USL per impedire le dimissioni di malati cronici non autosufficienti, quando non c’è alcuna possibilità di intervenire al domicilio. Ma quanti ne sono informati? Lo stesso personale degli ospedali, purtroppo, non dà informazioni corrette al riguardo. I medici e le assistenti sociali, quando richiedono la firma per il consenso alle dimissioni, non informano mai i pazienti circa i loro diritti e, soprattutto, a che cosa vanno incontro una volta che il paziente malato cronico è fuori dal­l’ospedale.

 

Le considerazioni del rappresentante della Regione Piemonte

 

Il dott. Morgagni, in qualità di esperto tecnico del settore, si limita a offrire alcune considerazioni, che sono state alla base della predisposizione del piano sanitario. Ad esempio, egli fa presente come sia stato senz’altro necessario considerare l’aspetto cronicità, come elemento sicuramente di cui tener maggiormente conto, anche per la indiscussa diffusione del fenomeno.

Un secondo elemento riguarda l’incidenza della compresenza di più patologie presenti in una stessa persona.

Il terzo punto, conseguente ai primi, è il bisogno di individuare risposte sanitarie più corrette a queste nuove problematiche, compatibilmente con il vincolo di non prevedere maggiori risorse. Di qui l’incentivazione-obbligo ai Direttori dell’Azienda USL di destinare una parte della spesa storicamente ospedaliera all’attivazione di posti-letto al domicilio dei pazienti. In questa ottica è da leggersi anche la sperimentazione avviata in quattro Aziende USL del Piemonte del servizio di ADOC, assistenza domiciliare ospedaliera congiunta. Si tratta di una modalità che prevede la presa in carico del paziente dall’ospedale alla propria abitazione, sviluppando un raccordo tra medico ospedaliero e medico di base.

A questo proposito Maria Grazia Breda chiede come mai ci sia bisogno di una sperimentazione, quando in Piemonte dal 1984 esiste e funziona un servizio di ospedalizzazione a domicilio, che ha le stesse funzioni e gli stessi compiti dell’ADOC.

«È ancora un modo per non voler curare i malati anziani cronici non autosufficienti?», chiede Maria Grazia Breda al dott. Morgagni.

Le cure domiciliari devono sicuramente essere potenziate, precisa Sergio Morgagni. Ma a suo avviso in alcune tipologie di malati, forse si possono tentare anche interventi specifici. Richiama le cure palliative e gli hospices per i malati terminali, che possono essere realizzati nelle RSA come modulo a parte.

Su questo punto i promotori non sono affatto d’accordo. Innanzitutto si rifiuta, come già si era detto, il concetto di cura palliativa che viene inteso sempre come intervento riduttivo.

I malati di tumore vanno curati, come tutti gli altri, secondo le necessità.

In secondo luogo, sia per le cure domiciliari che per gli interventi residenziali, non ci devono essere interventi settoriali per tipo di malattia, anche perché, come già ricordava prima proprio il dott. Morgagni, abbiamo a che fare con persone che presentano 3-4 patologie per volta. Sollecitato anche dagli interventi precedenti dell’Associazione dei malati di Alzheimer, Morgagni riconosce come vi sia un grande ritardo, da parte della sanità, a questo proposito.

Si augura che almeno siano realmente attivati i centri diurni sanitari che la delibera della Regione prevede tra gli obiettivi obbligatori dei direttori delle Aziende USL, in misura di almeno uno per ogni Azienda. Così pure auspica che decollino le RSA con la destinazione di un nucleo di 20 posti per i malati di Alzheimer.

 

Gli impegni dell’Assessore ai servizi sociali

del Comune di Torino

L’Assessore ai servizi sociali del Comune di Torino, Stefano Lepri, è stato invitato in quanto gli Enti locali, i Comuni – in proprio, consorziati e come Comunità montane – sono tra i principali gestori di istituti di ricovero per anziani cronici non autosufficienti.

Essi operano in un settore che non è di loro competenza: la cura delle persone malate spetta alla sanità: cosa c’entra il Comune?

In precedenza era stato ricordato da Luisa Ponzio, presidente del Comitato dei parenti dei ricoverati presso l’Istituto di riposo per la vecchiaia, gestito direttamente dal Comune di Torino che quando qualcuno di noi si ammala non va ai servizi sociali, ma si rivolge al medico. Perché per un anziano cronico non autosufficiente non vale lo stesso principio?

«Quando si comincerà a dare il buon esempio? – chiede Maria Grazia Breda all’Assessore –. Un primo passo concreto per sollecitare le Aziende USL a farsi carico di questi malati inguaribili, che loro non vogliono più curare, è quello di presentare il conto per le somme che come Comune si anticipano. Che cosa aspetta il Comune di Torino?».

«Sicuramente chi è inguaribile è malato e va curato» – risponde Stefano Lepri –. «Il Comune di Torino si muove in questo senso. Anche se – aggiunge – il cammino per far assumere la competenza degli anziani cronici non autosufficienti al settore sanitario non è semplice. Tuttavia, il Comune ha il dovere di esercitare tutta la pressione necessaria per ottenere il rispetto dei diritti di questi suoi cittadini».

L’Assessore Lepri, dopo una breve panoramica sui diversi  tipi di intervento del suo assessorato nei confronti degli anziani autosufficienti, presenta due esempi concreti di come i Comuni possono sollecitare fattivamente le Aziende sanitarie a farsi carico direttamente della cura degli anziani cronici non autosufficienti.

Si tratta della messa a disposizione delle USL di strutture: una per il centro diurno per malati di Alzheimer, il primo centro sanitario istituito in Italia, aperto recentemente dall’Azienda USL 4; l’altra per la RSA di Via Spalato, Torino, gestita direttamente dall’USL 2: è, quindi, l’unica RSA sanitaria esistente in Piemonte. È intenzione del Comune di Torino di agire in ugual modo anche con le altre RSA che sono in costruzione.

L’Assessore riconosce la gravità della situazione dato che solo per la città di Torino, vi sono circa mille persone in lista d’attesa. Questo richiede uno sforzo ulteriore perché siano potenziate le cure a domicilio e aumentati i posti letto convenzionati.

 

Conclusione

Nel concludere i lavori del convegno, Maria Grazia Breda auspica che i partecipanti abbiano potuto acquisire elementi di conoscenza maggiore su un tema che ci vede interessati tutti in prima persona.

Nessuno di noi, infatti, può avere la certezza di non diventare domani un anziano cronico non autosufficiente.

Per sé e per i propri cari, prima ancora che per gli altri, bisogna informarsi sui diritti che abbiamo e imparare ad esigerli da chi è tenuto, come amministratore, a rispettarli.

È un chiaro invito ad agire, ciascuno per la propria parte, perché la sanità curi tutti i malati, senza discriminazione alcuna, con la consapevolezza che la difesa del diritto alla cura dei malati cronici non autosufficienti di oggi è la premessa per poter garantire, se e quando possibile, le necessarie cure a noi
stessi.

 

 

 

(1) Il testo dell’intesa è il seguente: «L’Ordine dei Medici della Provincia di Torino, il Collegio provinciale di Torino degli Infermieri professionali, Assistenti sanitari e Vigilatrici di infanzia, la sezione per le Regioni Piemonte e Valle d’Aosta dell’Associazione italiana Terapisti della riabilitazione e il CSA - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, presa in esame la situazione degli anziani cronici non autosufficienti, concordano sull’esigenza che le Autorità preposte diano attuazione alle norme del DPR 1° marzo 1994 “Approvazione del piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996” con particolare riferimento alle seguenti prescrizioni: “Gli anziani ammalati, compresi quelli colpiti da cronicità e da non autosufficienza, devono essere curati senza limiti di durata nelle sedi più opportune, ricordando che la valorizzazione del domicilio come luogo primario delle  cure costituisce non solo una scelta umanamente significativa, ma soprattutto una modalità terapeutica spesso irrinunciabile”.

Pertanto ritengono che:

1) la competenza ad intervenire spetti al Servizio Sanitario, senza interferenze e sovrapposizioni di altri settori;

2) gli interventi devono garantire non solo le necessarie prestazioni mediche di medicina generale e specialistiche, infermieristiche e – occorrendo – riabilitative, ma anche una adeguata qualità della vita. Allo scopo il personale dei Servizi Sanitari pubblici e privati dovrà assumere direttamente tutte le valenze che concorrono ad assicurare ai pazienti cure e nursing;

3) la priorità delle cure domiciliari deve essere attuata sulla base dei seguenti principi:

A - responsabilità organizzativa del responsabile di distretto;

B - riconoscimento della centralità del medico di medicina generale;

C - utilizzazione degli specialisti ambulatoriali;

D - incentivazione della medicina di gruppo;

E - costituzione in tutti i distretti sanitari di una équipe infermieristica che collabori con i medici di medicina generale e con gli specialisti del territorio;

F - istituzione di una équipe medica integrata, tra medici specialisti interni e/o medici ospedalieri/universitari che, su richiesta e con la collaborazione del curante, fornisca interventi medico-specialistici;

4 - creazione di centri sanitari diurni avvalendosi prioritariamente delle strutture territoriali ambulatoriali e del consulto interspecialistico per i malati di Alzheimer e sindromi correlate allo scopo di:

– provvedere ad una verifica periodica delle condizioni psicofisiche dei pazienti;

– garantire il monitoraggio delle terapie farmacologiche;

– osservare e valutare le condizioni cognitive dei pa­zienti;

– assicurare i necessari trattamenti, in particolare quelli diretti a favorire la massima autonomia possibile;

– fornire adeguata consulenza ai familiari che accolgono a casa i loro parenti;

5) provvedere alla realizzazione di residenze sanitarie assistenziali, in grado di assicurare nello stesso tempo le cure sanitarie e il massimo livello della qualità della vita.

Le RSA potranno essere gestite direttamente dal Servizio Sanitario Nazionale o essere convenzionate con il Servizio stesso.

In ogni caso gli standards minimi dovranno essere identici per tutte le RSA;

6) istituzione in tutte le USL e Aziende ospedalizzate, laddove esistano ospedali di riferimento con reparti di geriatria, di unità valutative geriatriche cui potrà ricorrere il paziente su richiesta del medico di medicina generale nei casi in cui ritenga necessario un approfondimento collegiale della situazione psico-fisico-sociale del paziente.

Tali unità valutative si avvalgono del medico di famiglia, di medici specialisti (convenzionati interni) del territorio, di medici universitari e/o ospedalieri.

L’intervento può anche essere richiesto dai medici degli ospedali o delle RSA in cui il soggetto è ricoverato.

I curanti partecipano a pieno titolo alle sedute dell’UVG concernenti i loro pazienti.

In ogni caso è indispensabile il consenso informato dell’interessato o, se questi non è in grado di esprimerlo, del tutore o dei familiari».

 

 

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