Prospettive
assistenziali, n. 126, aprile-giugno 1999
Le inquietanti proposte
del senato sull’adozione e sull’affido
Più volte su Prospettive assistenziali (1) e in altre sedi sono stati rilevati i
risultati estremamente positivi conseguiti dall’entrata in vigore delle leggi
431/1967 e 184/1983.
È sufficiente ricordare che alla
data del 31 dicembre 1998 sono stati adottati 88.577 minori (61.695 italiani e
26.882 stranieri), minori che – non va dimenticato – sono stati sottratti alle
sofferenze spesso terribili causate dal ricovero in istituto.
L’accoglienza in famiglia ha,
altresì, eliminato le altre conseguenze dell’esclusione sociale (delinquenza,
prostituzione, diverse forme di disagio), conseguenze che non colpiscono tutti
i minori istituzionalizzati, ma certamente una parte rilevante di essi.
Va, altresì, rammentato che, a
seguito delle iniziative assunte dall’Associazione nazionale famiglie adottive
e affidatarie e da altre organizzazioni di base contro il ricovero in istituto
di bambini e di adolescenti, il loro numero è diminuito dai 310 mila del 1960
ai 20 mila del 1997 (2).
Inoltre, la legge 431/1967, che
per la prima volta in Italia ha posto al centro dell’istituto giuridico
dell’adozione il bambino solo, è stata una delle basi della riforma del diritto
di famiglia, realizzata con la legge 19 maggio 1975 n° 151, soprattutto per
quanto riguarda il notevole miglioramento dello status dei minori nati fuori dal matrimonio.
Infine non si può trascurare il
ruolo svolto dall’adozione internazionale nella creazione di una società
multietnica e solidale.
Obiettivamente, si deve
riconoscere che negli ultimi decenni non ci sono mai state leggi che, come la
431/1967 e la 184/1983, abbiano risolto un rilevante numero di situazioni
individuali e sociali, e nello stesso tempo abbiano consentito allo Stato di
risparmiare centinaia di miliardi.
Le suddette constatazioni e la
consolidata giurisprudenza, confermata da numerose sentenze della Corte
costituzionale, che consentono attualmente ai giudici di operare in modo
efficace (3), avrebbero dovuto indurre il Parlamento a modificare solamente le
parti, in realtà assai limitate, della legge 184/1983 ritenute non più adeguate
a soddisfare in modo ancora più puntuale le esigenze dei minori senza famiglia.
Invece, il Senato ha deciso – ma confidiamo in un ripensamento – di riscrivere
quasi tutte le norme della legge 184/1983.
Infine, va ricordato che non c’è
alcuna urgenza per l’approvazione dell’aggiornamento della legge 184/1983, il
che consentirebbe al Senato di procedere all’audizione di magistrati,
rappresentanti di regioni, enti locali, operatori, organizzazioni sociali in
modo da avere un quadro preciso della situazione.
Testo
unificato proposto dal relatore, sen. Callegaro
Come avevamo tempestivamente
segnalato (4), il 15 luglio 1998 è iniziato presso la Commissione speciale per
l’infanzia del Senato l’esame dei numerosi disegni di legge presentati (5).
Ne è scaturito il testo
unificato, che riportiamo integralmente in questo numero, i cui contenuti per
molti aspetti sono devastanti e privi di qualsiasi logica (6).
È devastante, in quanto apporta
cambiamenti alla legge 184/1983 che ne alterano i contenuti in modo profondo e
senza alcun motivo valido.
Oltre alla già ricordata grave
decisione del Senato di riscrivere quasi interamente gli articoli della legge
attuale, le principali caratteristiche negative del testo unificato sono le
seguenti:
1. Preoccupanti condizioni
per la dichiarazione di adottabilità
Al fine di evitare che i minori
potessero essere dichiarati adottabili a causa delle condizioni di povertà
economica dei loro genitori, l’ANFAA e numerose altre organizzazioni avevano
richiesto e ottenuto che nelle leggi 431/1967 e 184/1983 fosse inclusa la
duplice caratterizzazione “morale e materiale” della privazione delle cure da
parte dei genitori e dei parenti.
D’altra parte, nei 30 e più anni
di attuazione delle norme sull’adozione, mai è stata provata l’esistenza di
stati di adottabilità pronunciati solamente a causa della mancanza di mezzi
economici dei genitori dei minori.
Al riguardo, va precisato che la
povertà economica non è mai determinante in via esclusiva per la privazione
dell’assistenza morale ai propri figli; il ricovero in istituto, se
accompagnato dall’interessamento dei genitori (visite, telefonate, lettere,
ecc.), non consente l’emanazione della dichiarazione di adottabilità.
Circa la povertà economica, è
noto che, accanto a situazioni non addebitabili agli interessati (ad esempio la
disoccupazione involontaria), ve ne sono altre che sono la conseguenza di
comportamenti personali (ad esempio, tossicodipendenza, alcoolismo,
vagabondaggio, altre gravi forme di disadattamento). Per queste ultime
tipologie, l’erogazione di contributi economici ai genitori non li aiuta a
superare le loro difficoltà personali e, molto spesso, è controproducente per i
loro figli, a volte anche maltrattati.
È, dunque, estremamente
preoccupante che nel testo unificato proposto dal Sen. Callegaro sia prevista
la seguente norma: «Finché permanga lo
stato di bisogno del nucleo familiare, l’ente locale eroga sussidi economici, assistenza
domiciliare anche specialistica e servizi di supporto sociale gratuiti anche
con l’attivazione di enti privati o associazioni di volontariato» (art. 1,
comma 4); ne consegue che in nessun caso lo stato di adottabilità può essere
dichiarato se prima non sono stati forniti gli aiuti sopra indicati.
È, altresì, sconcertante che,
all’atto dell’apertura del procedimento di adottabilità, nel caso di
inesistenza dei genitori, siano convocati non solo i congiunti che hanno
rapporti significativi con il minore, ma tutti i parenti entro il quarto grado
dello stesso minore e cioè gli ascendenti, i fratelli, le sorelle, gli zii e i
cugini primi, compresi quelli residenti all’estero, parenti che, pur non
essendosi mai interessati del fanciullo nei cui confronti è avviata l’azione
giudiziaria, hanno il diritto, in base alle norme previste nel testo unificato,
di partecipare a tutti gli accertamenti e a presentare istanze anche
istruttorie, nonché ad essere assistiti da un difensore.
2. Non sono sufficienti 17 domande di adozione per ogni bambino adottabile
Le domande di adozione nazionale
relative al quinquennio 1993-1997 sono state 89.444; nello stesso periodo, le
domande non accolte sono state 85.000. È quindi assurdo voler aumentare la
differenza massima di età fra adottanti e adottando dagli attuali 40 anni a 45,
com’è previsto nel testo unificato. Al contrario, la suddetta differenza di età
dovrebbe essere ridotta a 35 anni, anche allo scopo di ottenere la diminuzione
del numero di coppie inutilmente illuse dalla speranza di poter accogliere un
bambino.
Analoga è la situazione
riguardante l’adozione internazionale. Le idoneità rilasciate dai tribunali per
i minorenni nel quinquennio 1993/1997 sono state 21.352, mentre i minori
stranieri giunti in Italia nello stesso periodo sono stati meno della metà
(10.240) a causa di varie difficoltà, quali le restrizioni dei Paesi d’origine
e la ricerca dei minori da parte degli aspiranti adottandi di tutte le nazioni
industrializzate. Va, altresì, segnalata la carenza di richieste di adozione
dei bambini di pelle nera.
Pertanto, anche per l’adozione
internazionale non ha alcun senso aumentare la differenza di età e incrementare
quindi il numero delle coppie che, ottenuta l’idoneità, non riescono a reperire
i bambini stranieri adottabili.
Ricordiamo che la quasi totalità
dei 20 mila minori ancora ricoverati in istituto non è adottabile, in quanto
non sono privi di assistenza morale e materiale da parte dei loro genitori e
dei parenti. Per la loro sistemazione familiare presso i nuclei d’origine e la
realizzazione di affidamenti familiari a scopo educativo e delle comunità
alloggio, è indispensabile, com'è ovvio, l’approvazione di una riforma
dell’assistenza che contempli le suddette attività.
Per il relatore non è sufficiente
l’assurda proposta di estendere la differenza massima di età fra gli adottanti
e l’adottando dagli attuali 40 anni a 45, ma ha addirittura proposto che questo
secondo limite e quello relativo alla differenza minima dei 18 anni «possano essere derogati previa valutazione,
caso per caso, da parte degli organi competenti della idoneità affettiva e
della capacità di educare, istruire e mantenere i minori di coloro che
intendono adottare, qualora dalla mancata adozione derivi un danno grave e non
altrimenti evitabile per il minore» (art. 7, comma 3).
Si tratta di una formulazione
assai generica che potrebbe persino consentire l’adozione di neonati da parte
di ottantenni.
In alternativa all’equivoca
disposizione sopra riportata, proponiamo la seguente: «Se il minore non può essere affidato a scopo di adozione a coniugi in
possesso dei requisiti (differenza massima di età di 35 anni e minima di 18),
il tribunale per i minorenni, nell’interesse preminente dell’adottando, può
derogare dai limiti sopra indicati, purché la differenza di età tra gli
adottanti e l’adottando resti comunque compresa in quella che di solito
intercorre fra genitori e figli».
Con la formulazione da noi
proposta, i minori (o due o più fratelli) possono essere affidati a scopo di
adozione in deroga ai limiti di età dei 35 e dei 18 anni esclusivamente quando
non vi sono coppie disponibili in possesso dei suddetti requisiti.
3. Un gravoso e sicuramente inutile lavoro imposto ai tribunali per i
minorenni ed ai servizi socio-assistenziali degli enti locali
Come abbiamo visto, nel
quinquennio 1993-1997 sono state oltre 85 mila le domande di adozione nazionale
non accolte a causa della mancanza di minori adottabili.
Aumentando, come prevede il testo
unificato, la differenza massima di età fra gli adottanti e l’adottando dagli
attuali 40 ai proposti 45 anni, è inevitabile un incremento delle istanze per
cui possiamo ipotizzare che ogni anno saranno 20-25 mila.
A questo riguardo, occorre
considerare che l’art. 17 del testo unificato stabilisce che i tribunali per i
minorenni ed i servizi socio-assistenziali degli enti locali sono tenuti ad
effettuare le indagini su tutte le domande di adozione e a concluderle entro 60
giorni, nonostante che le domande stesse abbiano una validità di tre anni dalla
loro presentazione. Pertanto, se come è successo nel quinquennio 1993-1997 i
minori adottabili continueranno ad essere 1.000 ogni anno (e non ci sono motivi
perché aumentino), i tribunali per i minorenni ed i servizi socio-assistenziali
degli enti locali dovranno svolgere sull’idoneità delle coppie aspiranti
adottive 18-23 mila accertamenti assolutamente inutili.
Pertanto, se il testo unificato
non verrà cambiato, l’attività più impegnativa dei servizi socio-assistenziali
degli enti locali e dei tribunali per i minorenni sarà la redazione di
relazioni sugli aspiranti adottanti e la loro valutazione al fine di riempire
gli armadi degli archivi.
4. Declassate le famiglie adottive
Il testo unificato prevede nella
seconda parte dell’art. 22 quanto segue: «2.
L’adottato, divenuto maggiorenne, può accedere a informazioni che riguardano la
sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. L’istanza deve essere
inoltrata al tribunale del luogo di residenza o nascita dell’adottato». «3. Il
tribunale per i minorenni procede all’audizione delle parti: adottato, genitori
biologici e adottivi, parenti d’origine dell’adottato, qualora questi fosse
orfano di genitori e chiunque altro ritenga opportuno; assume tutte le
informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare le
conseguenze pratiche dell’accesso alle notizie di cui al comma 2 e, definita
l’istruttoria, autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste» (7).
Ancora una volta ripetiamo che la
famiglia adottiva (figli, genitori, nonni, fratelli e sorelle, zii, cugini,
ecc.) è una famiglia a tutti gli effetti con i suoi rapporti e con i suoi
problemi.
Se è vero, quindi, che bisogna
tenere conto della storia individuale e irripetibile di ognuno, è inaccettabile
che i rapporti interni della famiglia in quanto adottiva, possano essere
disciplinati da una legge dello Stato.
Non ha senso, quindi, che una
legge dello Stato rimetta in discussione questi principi andando a
regolamentare le modalità di incontro dei figli adottivi con chi li ha
generati. È il diretto interessato, il figlio, che potrà decidere in piena
autonomia tenendo conto che la sua libertà di scelta non dovrebbe andare contro
i diritti riconosciuti degli altri.
Di certo, a nostro avviso, non
compete allo Stato e a nessun altro organismo stabilire se le radici del figlio
debbano essere ricercate nella famiglia che lo ha amato, protetto ed educato
oppure nel DNA di coloro che lo hanno generato e lasciato totalmente privo di
assistenza morale e materiale e che abbastanza spesso lo hanno anche maltrattato.
Per queste ragioni il Parlamento
non dovrebbe modificare le norme vigenti. In particolare dovrebbero essere
confermate le disposizioni che tutelano il segreto del parto e, pertanto,
prevengono gli infanticidi.
Inoltre, il Parlamento dovrebbe
tenere fede al principio, già affermato dalla legge attuale, che stabilisce che
«con l’adozione cessano i rapporti
dell’adottato con la famiglia d’origine», norma assolutamente
indispensabile se l’adozione è intesa come rapporto di genitorialità e di
filiazione.
Infine, si fa presente che, se
una legge dello Stato stabilisse che le vere radici dei figli vanno individuate
nelle persone che li hanno procreati, si stabilirebbe un principio che dovrebbe
essere valido anche per i figli di persone coniugate, ma nate da un uomo
diverso dal coniuge della donna (i concepimenti avvenuti in modo adulterino
all’insaputa del marito secondo alcuni riguarderebbe il 10% dei figli
legittimi) e anche per le inseminazioni eterologhe, comprese quelle autorizzate
dai mariti.
5. Competenze ingiustificate affidate al giudice tutelare in materia di
affidamento familiare
Finora, nei casi di consenso
degli esercenti i poteri parentali, gli affidamenti familiari sono disposti dai
servizi socio-assistenziali degli enti locali, che successivamente ne danno
comunicazione al giudice tutelare. Senza alcun motivo plausibile, il testo
unificato stabilisce, invece, che gli affidamenti devono essere sempre disposti
dal giudice tutelare, nonostante siano note a tutti le vistose carenze dei
relativi uffici, attualmente nemmeno in grado di svolgere in modo accettabile
le delicate funzioni assegnate dalle leggi, ad esempio il controllo degli
elenchi «di tutti i minori ricoverati con
l’indicazione specifica, per ciascuno di essi, della località di residenza dei
genitori, dei rapporti con la famiglia e delle condizioni psicofisiche del
minore stesso», elenchi che gli istituti pubblici e privati in base
all’art. 9 della legge 184/1983 «debbono
trasmettere semestralmente al giudice tutelare del luogo ove hanno sede». Inoltre,
quasi tutti i giudici tutelari, a causa della mancanza di un numero sufficiente
di addetti, non effettuano le ispezioni semestrali degli istituti di ricovero
dell’infanzia, né svolgono in modo adeguato la soprintendenza alle tutele e curatele
(art. 344 del codice civile).
Oltre ai prevedibili ritardi
causati dall’intervento del giudice in materia di affidamenti familiari (art. 4
del testo unificato), non si comprende per quali motivi debba intervenire
l’autorità giudiziaria nei casi in cui c’è pieno accordo fra le parti in causa
e l’ente preposto al settore dell’assistenza sociale. D’altra parte i giudici
non intervengono (giustamente) per autorizzare i ricoveri in istituto.
Infine, non ci sembra accettabile
che il testo unificato vieti gli affidamenti familiari alle persone singole,
ammessi, invece, dalla legge 184/1983.
6. Illogico limite temporale dell’affidamento familiare
Il 4° comma dell’art. 4 del testo
unificato prevede che la durata dell’affidamento familiare a scopo educativo «non può superare la durata di ventiquattro
mesi», e che «tale periodo è
prorogabile una sola volta per non oltre dodici mesi».
Pertanto, nei casi in cui il
minore non possa rientrare nella propria famiglia d’origine o integrarsi
autonomamente nella società (il che implica anche un adeguato inserimento
lavorativo, la disponibilità di un alloggio e le risorse economiche per
arredarlo), l’unica soluzione praticabile diventerà il ricovero in una comunità
alloggio o in un istituto.
Al relatore Sen. Callegaro ci permettiamo
di segnalare che un problema importantissimo dell’affidamento familiare a scopo
educativo si presenta al raggiungimento della maggiore età dei ragazzi che non
sono in grado di provvedere a loro stessi con le proprie risorse, anche perché
molto spesso i Comuni interrompono ogni intervento.
Sarebbe, quindi, necessario
prevedere la proroga dell’affidamento a scopo educativo anche dopo il
compimento del 18° anno di età da parte del soggetto interessato.
CONCLUSIONI
Per evitare danni irreparabili ai
minori privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei
parenti ed a quelli con gravi difficoltà familiari, le persone sagge non
disprezzano le esperienze, soprattutto quelle positive: è quindi auspicabile
che la Commissione speciale per l’infanzia del Senato riesamini il testo
unificato con la necessaria oculatezza, dopo aver disposto le audizioni che
abbiamo in precedenza proposto.
(1) Cfr.
in particolare l’editoriale “Le vigenti
norme sull’adozione sono molto valide, ma il Parlamento vuole cambiarle” e
l’articolo del Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base “L’adozione di minori italiani e stranieri:
le concezioni sulla filiazione, sulla maternità e sulla paternità e le
preoccupanti iniziative del Parlamento”, pubblicati sul n° 123 di Prospettive assistenziali.
(2) I
dati relativi al 1960 sono stati tratti dalle pubblicazioni ISTAT. Purtroppo,
fatto gravissimo, l’ISTAT non ha più svolto dopo il 1993 alcuna indagine
statistica sui minori e sugli altri soggetti ricoverati in strutture a
carattere di internato. La cifra relativa ai 20 mila fanciulli
istituzionalizzati è stata riferita nella Conferenza nazionale sull’infanzia e
l’adolescenza svoltasi a Firenze il 19, 20 e 21 novembre 1998.
(3) I
tempi per l’assunzione dei provvedimenti necessari per la protezione dei minori
soli o con gravi difficoltà personali e/o familiari potrebbero essere
notevolmente ridotti se ai tribunali per i minorenni venissero forniti i
necessari strumenti (organici adeguati, locali idonei, attrezzature valide,
ecc.) e soprattutto se fosse assicurato un efficiente funzionamento dei servizi
socio-assistenziali da parte dei comuni singoli o associati.
(4) Cfr.
Prospettive assistenziali n° 123.
(5) Il
loro elenco è stato riportato nell’editoriale del già citato n° 123.
(6)
Sono, invece, valide le norme che prevedono l’obbligatoria assistenza di un
difensore del minore, dei suoi genitori biologici e degli altri parenti durante
tutto il procedimento di adottabilità.
(7) Cfr.
gli articoli apparsi su Prospettive
assistenziali: «La famiglia adottiva non è di serie B» e «Appello
urgentissimo ai Ministri per la solidarietà sociale, di grazia e giustizia e
degli affari esteri», n. 116; «Appello al Governo sui valori fondamentali
dell’adozione», n. 117; D. Micucci e F. Santanera, «L’informazione al figlio
adottivo e la doppia genitorialità», n. 119; «Testimonianze di figli adottivi»,
n. 121; G. Viarengo, «Il futuro dell’adozione», n. 122; Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base, «L’adozione di minori italiani e stranieri:
le concezioni sulla filiazione, sulla maternità e sulla paternità e le
preoccupanti iniziative del Parlamento», «La reale peculiarità della
filiazione, della maternità e della paternità», «Le vere radici dei figli
adottivi: l’esperienza dell’Associazione “Bambino chiama aiuto”», n. 123; «Il
Senato accoglie la posizione dell’ANFAA sul divieto di accesso alle
informazioni relative all’identità dei genitori biologici dei figli adottivi»,
n. 124.
www.fondazionepromozionesociale.it