Prospettive
assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999
Notiziario dell’Unione per la lotta contro
l’emarginazione sociale
Tre lettere al presidente della repubblica
1. Lettera inviata
il 5 luglio 1999 da Emanuela Buffa, Responsabile del GGL - Gruppo Genitori per
il diritto al lavoro delle persone con handicap intellettivo
Mi permetto disturbarLa dopo aver
letto su “La Repubblica” del 24-6-99 l’articolo intitolato “Con la passione la vostra vita sarà più bella” in cui veniva
riportato un Suo intervento a Livorno nel corso di un incontro con gli studenti
della Sua città che chiedevano consigli per il futuro.
Mi riferisco in particolare alla
risposta da Lei data (così riporta l’articolista) ad uno studente handicappato
che chiedeva maggior rispetto per i problemi dei ragazzi portatori di handicap:
a questo proposito Lei ha garantito il massimo impegno soprattutto “nell’assistenza per tutti coloro che
soffrono” così come da anni fa il volontariato.
Anch’io faccio parte di quel
grande esercito di volontari che si occupano di quelle persone a cui il nostro
Stato, con le sue sole forze, non è più in grado di dare delle risposte;
inoltre conosco bene il mondo dell’handicap avendo la fortuna di avere uno
splendido figlio (con un handicap intellettivo) ed essendo responsabile di
un’associazione di genitori nelle mie stesse condizioni e credo quindi di poter
dire senza tema di sbagliarmi che ciò che fa
più soffrire molte persone handicappate (soprattutto quelle che, come lo
studente di Livorno, vanno a scuola ed hanno capacità lavorative più o meno
elevate) è il fatto che si continui a pensare a loro solo in termini di persone
da assistere e non invece come persone che hanno il diritto al pari degli altri
ad avere una normale e completa vita di relazione, scolastica, lavorativa,
affettiva, ecc.
Purtroppo nella nostra società le
barriere culturali sono ancora più difficili da abbattere di quelle
architettoniche (anche queste comunque non scherzano e gli handicappati fisici
devono quotidianamente fare i conti con uffici pubblici, posti di lavoro,
scuole non a norma) e se a parole tutti sono d’accordo sul principio
dell’integrazione, nei fatti poi si assiste ad una vera e propria emarginazione
ed esclusione di queste persone “diversamente dotate” dalla nostra società.
L’esclusione e l’emarginazione
portano con sé dolore e sofferenza più grande di quella derivante dal proprio
handicap: è il fatto di non essere
accettati per come si è, di non essere aiutati nel modo corretto ad inserirsi
appieno nella società di tutti che fa soffrire, molto di più della propria
menomazione o del proprio handicap.
È per questo motivo, signor Presidente, che noi volontari, di un
volontariato non consolatorio ma dei diritti, di un volontariato che non fa
notizia e che non sempre è apprezzato perché cerca di ribaltare atteggiamenti e
abitudini ormai consolidate che nessuno ha interesse a cambiare, lottiamo:
– perché sia meglio conosciuto il mondo dell’handicap così che siano
superati preconcetti che non aiutano una Nazione sana a crescere e
– perché a tutti coloro che hanno un handicap venga data una corretta
risposta che non può essere necessariamente uguale per tutti: le persone
con handicap grave e gravissimo devono poter contare in ogni Comune su
un’assistenza e su centri idonei alle loro esigenze, le persone con handicap
non grave devono essere messe in grado di poter avere una vita piena ed il più
possibile autonoma dando loro tutti gli strumenti idonei alla creazione di un
normale percorso di vita che include ovviamente la possibilità di svolgere un
lavoro compatibile con le loro capacità lavorative.
Ci sarebbe piaciuto che al
ragazzo handicappato di Livorno, Lei avesse dato, Signor Presidente, delle
risposte più concrete ed avesse assicurato il Suo sostegno affinché lo Stato continui a garantire il diritto
allo studio per queste persone (non decurtando, come purtroppo sta
accadendo, i fondi e gli strumenti che facilitano l’inserimento scolastico e
cioè classi ridotte, adeguato numero di insegnanti di sostegno) ed il diritto ad un futuro inserimento
lavorativo (corretto orientamento post-obbligo, garanzia di formazione
professionale integrata e specifica per le persone con handicap intellettivo,
fondi adeguati per l’incentivazione all’assunzione di persone con un vero
handicap, impegno a far rispettare a tutti i soggetti pubblici e privati le
leggi [L. 68/99] sul collocamento obbligatorio e mirato).
Queste sono le uniche strade che
possono aiutare una persona handicappata (e tutta la sua famiglia) ad uscire
dal tunnel della sofferenza e a non farla piombare nel tunnel dell’assistenza,
qualora non ce ne sia bisogno. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che ogni
persona che lavora contribuisce, per la sua parte, al benessere del Paese e non
grava sulle finanze dello stesso: il costo di una persona handicappata che non
è messa in condizione di lavorare grava pesantemente su tutti i cittadini.
Siamo grati a tutti coloro che
hanno dimostrato di capire questo concetto ed hanno accettato la sfida di
mettere alla prova questi nostri ragazzi: il Comune di Torino e la Provincia di
Torino, ad esempio, dietro pressione delle Associazioni, hanno emesso dei bandi
di concorso per 40 posti riservati ai portatori di handicap intellettivo e
fisico con limitata autonomia. I primi risultati sono stati soddisfacenti:
questi ragazzi lavorano bene, sono utili alla società e sono finalmente
contenti.
Il nostro sogno sarebbe quello di
non dover più lottare per elemosinare dei posti che di diritto spettano a
queste persone ma che nessuno si sognerebbe mai di destinare spontaneamente a
loro.
Nel ringraziarLa del tempo che ha
dedicato alla lettura di queste mie considerazioni, mi permetto inviarLe il “Libro bianco su handicap e lavoro” che
abbiamo voluto scrivere per raccogliere storie e testimonianze di ragazzi con
handicap inellettivo ma con buone capacità lavorative che da anni attendono di
poter mettere a disposizione della società le loro abilità lavorative e che non
vogliono essere dimenticati.
2. Lettera del CSA
- Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti del 19 luglio 1999
Siamo molto amareggiati per
essere stati volutamente esclusi dall’incontro da Lei avuto recentemente a
Torino con i gruppi di volontariato.
Questo Coordinamento, infatti,
funziona ininterrottamente dal 1970 e ad esso aderiscono le 22 organizzazioni
sotto elencate; alcune associazioni facenti parte del CSA svolgono la loro
attività dal 1962: pertanto siamo conosciuti dalle autorità che hanno
organizzato l’incontro. Le attività da noi svolte ed i risultati raggiunti sono
inseriti nel volume di F. Santanera e A.M. Gallo, Volontariato, trent’anni di esperienze: dalla solidarietà ai diritti
(cfr. l’alle-
gato 1).
Ci preoccupa moltissimo
l’esclusione perché essa è essenzialmente politica: sono stati invitati coloro
che si collocano nell’ambito delle imprese sociali o che svolgono un
volontariato con finalità consolatorie.
Certamente il volontariato dei
diritti, che abbiamo introdotto nel nostro paese, è quasi sempre scomodo.
Operiamo, difatti, perché vengano riconosciuti diritti effettivamente esigibili
a coloro che sono, spesso volutamente, messi ai margini della società essendo
incapaci di autodifendersi a causa dell’età (bambini in situazione di parziale
o totale privazione dell’assistenza morale e materiale da parte dei loro
congiunti) o per gravi carenze di salute (malati di Alzheimer, dementi senili,
anziani malati cronici non autosufficienti, pazienti psichiatrici con limitata
o nulla autonomia).
Al riguardo, sottoponiamo alla
Sua attenzione il problema (segnalato inutilmente ai Suoi predecessori) dei
soggetti malati sopra elencati che, in violazione di ogni principio di umanità
e delle leggi in vigore dal 1955, continuano ad essere espulsi con preoccupante
frequenza dagli ospedali anche nei casi in cui i soggetti non vengono accolti e
curati dai loro familiari. In sostanza viene applicato il barbaro principio
secondo cui essere inguaribili significa essere incurabili o poco curabili.
Nel nostro lavoro siamo stati
finora solo confortati dal messaggio (che allego) inviatoci da S.E. il
Cardinale Carlo Maria Martini in occasione del convegno “Anziani attivi e anziani
malati cronici nell’Europa del 2000: orientamenti culturali ed esperienze a
confronto” svoltosi a Milano il 24 e 25 ottobre 1998, e da provvedimenti della
magistratura favorevoli al diritto alle cure sanitarie anche per le persone
colpite da patologie invalidanti (come la sentenza della Cassazione n.
10150/1996), mentre il disinteresse delle Autorità (Ministeri della sanità e
della solidarietà sociale, Regioni, ASL, ecc.) è generalizzato.
Poiché le persone malate
interessate sono quasi un milione, riteniamo doveroso un Suo intervento a
difesa delle loro esigenze e dei diritti sanciti dalle vigenti leggi dello
Stato.
Se Lei accettasse di ricevere una
nostra delegazione anche poco numerosa, saremmo ben lieti di approfondire
quanto sopra riferito e segnalare alla Sua attenzione altre violazioni dei
diritti fondamentali della fascia più debole della popolazione.
3. Lettera
dell’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale del 28 luglio 1999
La sua lettera “Germana: ti prometto il mio aiuto”,
pubblicata su La Stampa del 23 luglio
1999, ci stimola ad intervenire in primo luogo per osservare che la sensibilità
e la cultura della società nei confronti delle persone handicappate, che Lei
auspica aumenti in misura maggiore, si crea non con l’emarginazione negli
istituti di assistenza, per quanto benemerite possano essere le persone che vi
operano, ma favorendo la presenza continua e costante in ogni momento della
vita civile delle persone disabili attraverso il diritto di accesso a tutti i
servizi sociali (scuola, lavoro, casa, trasporti, sanità, ...) predisposti per
i cittadini normodotati.
Infatti, grazie all’integrazione
scolastica, alle assunzioni di migliaia di persone handicappate – compresi
giovani con sindrome di Down e lieve handicap intellettivo – in aziende
pubbliche e private, all’eliminazione delle barriere architettoniche dagli
edifici pubblici (cinema, mostre, teatri, alberghi...), all’accessibilità dei
trasporti pubblici (treni, navi, aerei, autobus), alla diffusione sul
territorio di centri di riabilitazione, migliaia di persone disabili hanno
potuto raggiungere una autonomia sufficiente, che ha permesso loro di condurre
una vita normale e di evitare il ricovero in istituto a cui è votato chiunque,
disabile e non, si trovi in difficoltà o in una situazione di bisogno, che non
possa essere sddisfatta nel suo
territorio per mancanza di servizi sociali e assistenziali idonei.
Per quanto riguarda la nostra
Città di Torino, ci saremmo aspettati da Lei un plauso ai servizi realizzati
proprio in tal senso dalle Amministrazioni pubbliche – anche grazie allo
stimolo continuo di associazioni di volontariato come la nostra, impegnate sin
dal 1965 per la difesa dei diritti delle persone non in grado di difendersi,
contro la loro emarginazione sociale – e non tanto del “Cottolengo”, che
è, ed è stato, anche luogo di sofferenza proprio di molti handicappati fisici.
A questo riguardo le citiamo a titolo d’esempio le testimonianze di Roberto e
Piero, due giovani portatori di gravi handicap fisici e motori con lunghissima
permanenza nell’istituto di Torino (35 anni Roberto e 24 Piero) e che vivono
dal 1980 in un normale alloggio messo loro a disposizione dall’Istituto
autonomo case popolari e dal Comune di Torino, pubblicato nell’articolo che
unisco “Nuovi istituti, vecchia emarginazione e gli stessi danni. La storia di
Roberto e Piero per continuare a riflettere” (Prospettive assistenziali, n. 78, aprile-giugno 1987) e la
testimonianza di Nunzia Coppedè, riportata nel libro autobiografico “Al di là dei girasoli”, edito da
Sensibili alle Foglie, Roma, 1992,
che dopo molti anni vissuti da ricoverata al “Cottolengo” di Roma così descrive
la sua vita in quel periodo: «Man mano
che il tempo passava si spegneva sempre più in me l’interesse per qualsiasi
cosa, mi interrogavo sul senso che la mia vita potesse avere, ero senza
volontà, mi indolenzivano gli urli di Barraccana, le grattate di Laura, le
romanzine del Boione che si lamentava perché non mi comportavo da signorina
seria, l’obbligo delle preghiere, tutti i giorni con orari da suora, le donne
di carità che venivano a chiedermi di pregare anche per loro perché il Signore
mi ascoltava di più». (...) «Pensavo
alla morte come ad una liberazione; la vedevo l’unica possibilità di uscire da
quella situazione assurda e speravo ardentemente che venisse a raccogliermi
presto» (pag. 39). Anche Nunzia, egregio Presidente, ha ricominciato una
nuova vita grazie alla possibilità di essere ospitata in una comunità alloggio,
fuori dalle mura dell’istituto.
Dalla massima autorità dello
Stato ci attendiamo quindi il più ampio sostegno all’integrazione sociale delle
persone disabili, che richiede in primo luogo leggi dello Stato che indichino
diritti certi ed esigibili per gli utenti, obblighi precisi per l’istituzione
dei servizi necessari agli Enti locali, che sono materialmente preposti a
realizzarli in tutto il territorio nazionale ed il necessario finanziamento.
Vogliamo infine ricordarLe che
esiste anche una minoranza di persone disabili, che a causa della gravità delle
loro condizioni fisiche e intellettive, non sono neppure in grado di difendere
i propri diritti e di denunciare le inadempienze come ha potuto giustamente
fare Germana Lancia. Da più parti ormai è stato riconosciuto che sono
estremamente carenti le norme vigenti in materia di assistenza a queste persone
che, terminato l’obbligo scolastico, non hanno diritto più a nulla. La loro
famiglia resta il solo punto di riferimento certo nel nostro Paese.
Ebbene, vi è un’ottima occasione
per porvi rimedio: la legge di riforma dell’assistenza, che sta per essere
varata dal Parlamento. Il testo attuale, purtroppo, nonostante i nostri
numerosi appelli, sostenuti e sottoscritti da numerose organizzazioni e
associazioni di handicappati (di cui all’elenco allegato) non contiene nessun diritto
esigibile, nonostante che sin dall’entrata in vigore della legge 104/1992,
legge quadro sull’handicap, sia stato ampiamente denunciato da tutti
l’inutilità di leggi che indichino solo la “possibilità di realizzare servizi”
(ben 22 sono i “possono” contenuti dalla legge suddetta) e non prevedono, al
contrario, obblighi precisi per gli enti locali.
Ancora una volta ci si limita a
prevedere servizi e prestazioni di assistenza “essenziali” e non “obbligatori”,
che è ben altra cosa. Non solo, il testo in esame prevede che abbiano accesso
ai servizi assistenziali tutti i cittadini, mentre è evidente che, proprio a
fronte del continuo richiamo alla scarsità delle risorse da destinare allo
stato sociale, tale diritto deve essere garantito solo nei confronti dei
soggetti che, in base a quanto recita il primo comma dell’art. 38 della
Costituzione, sono inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per
vivere.
Per quanto sopra è altrettanto
incomprensibile che il grande patrimonio delle IPAB, stimato in circa
37-50 mila miliardi, nel testo di riforma su citato non sia più destinato ad
uso esclusivo dei poveri, com’è giustamente previsto dalla legge 6972 del 1890.
Pertanto, questi ingenti patrimoni invece di essere utilizzati solo per la
realizzazione di interventi assistenziali a favore dei soggetti in situazione
di bisogno, potranno essere impiegati anche per fornire servizi ai benestanti.
Le famiglie con un figlio
handicappato in situazione di gravità, da gestire 24 ore su 24, allo Stato non
chiedono una solidarietà, sempre molto facile a parole, ma la certezza di poter
usufruire – in ogni parte del nostro Paese – di centri diurni
assistenziali, servizi di aiuto personale adeguati e sufficienti al fabbisogno,
piccole comunità familiari dove eventualmente poterlo ricoverare il giorno in
cui, per anzianità o per malattia, non potessero più continuare ad occuparsi
direttamente dei suoi bisogni. Se lo Stato non è in grado di soddisfare queste
esigenze minime di civiltà, davvero è più onesto riconoscere il diritto
all’eutanasia rivendicato da Germana Lancia.
Confidiamo quindi nella Sua attenta vigilanza, affinché il testo di legge
di riforma dell’assistenza accolga i dettami della Costituzione e introduca
anche per i disabili con limitata o nulla autonomia, oltre che per le persone
in situazione di povertà e con bisogni che solo l’intervento assistenziale può
soddisfare, diritti certi ed esigibili in ogni parte del nostro Paese. E
saremmo lieti se in una Sua prossima visita a Torino, Lei decidesse di rendere
omaggio a una delle tante famiglie che continuano ad accogliere in casa il
proprio figlio handicappato intellettivo grave adulto, pur non avendo più alcun
obbligo giuridico nei suoi confronti.
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