Prospettive assistenziali, n. 127, luglio-settembre
1999
documento
della tavola valdese sull’eutanasia e il suicidio assistito
Il Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste, riunitosi
a Torre Pellice (Torino), ha preso in esame il documento “L’eutanasia e il
suicidio assistito”, predisposto dal gruppo di lavoro sui problemi etici
costituito dalla Tavola valdese nel 1992 (1), che riproduciamo. Il documento stesso non è stato approvato, ma
proposto al dibattito.
Da parte nostra rileviamo che le considerazioni svolte
sul problema degli anziani sono fondate sul luogo comune del presunto rifiuto
generalizzato da parte dei loro familiari, mentre nulla viene detto sulle
dimissioni illegali degli anziani cronici non autosufficienti dagli ospedali,
compresi – purtroppo – quelli collegati con la Chiesa valdese, dimissioni che –
a nostro avviso – sono la diretta conseguenza della nefasta concezione secondo
cui le persone inguaribili e non autosufficienti sarebbero anche incurabili.
Premessa
Il dibattito sull’eutanasia e il suicidio assistito si
è notevolmente ampliato negli ultimi anni interessando sempre più da vicino
tanto il grande pubblico quanto le categorie coinvolte nella cura dei malati
inguaribili.
Il presente documento intende approfondire questa
delicata materia. Il primo capitolo contiene la spiegazione dei termini
impiegati nel dibattito e precisa il loro significato. Successivamente il
documento espone lo stato del dibattito. In terzo luogo esso passa in rassegna
le situazioni cliniche nelle quali il problema si pone. Il quarto capitolo
discute alcuni orientamenti e proposte e l’ultimo capitolo infine esamina più
da vicino gli aspetti di ordine etico e pastorale emersi nei punti precedenti.
Due sono le argomentazioni di maggior rilievo: la
prima si appella al rispetto per l’autonomia del paziente (numeri 2.8 e 5.6);
la seconda estende il concetto di cura fino a includervi l’aiuto offerto a chi
intende morire dignitosamente (numeri 4.3 e 5.4).
1 - Definizioni
1.1 - L’eutanasia può essere definita in senso lato
come qualsiasi atto compiuto da medici o da altri, avente come fine quello di
accelerare o di causare la morte di una persona. Questo atto si propone di
porre termine a una situazione di sofferenza tanto fisica quanto psichica che
il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli
interessi, ritengono non più tollerabile, senza possibilità che un atto medico
possa, anche temporaneamente, offrire sollievo.
1.2 - L’eutanasia attiva consiste nel determinare o
nell’accelerare la morte mediante il diretto intervento del medico, utilizzando
farmaci letali (ad esempio un barbiturico ad azione rapida che induce il coma e
una dose elevata di cloruro di potassio, che determina l’arresto cardiaco).
Questo è il significato che attribuiremo al termine eutanasia nel proseguimento
della discussione.
1.3 - Il suicidio assistito indica invece l’atto
mediante il quale un malato si procura una rapida morte grazie all’assistenza
del medico: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio (si tratta in
genere di barbiturici o di altri forti sedativi o ipnotici) su esplicita
richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione.
In tal caso viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena i
farmaci al malato.
1.4 - Il termine eutanasia passiva viene invece utilizzato
per indicare la morte del malato determinata, o meglio accelerata,
dall’astensione del medico dal compiere degli interventi che potrebbero
prolungare la vita stessa: un esempio potrebbe essere rappresentato
dall’astensione dal trattare con terapia antibiotica un malato di demenza di
Alzheimer, oppure un neonato gravemente deforme, con breve aspettativa di vita,
colpito da polmonite. In realtà, sarebbe opportuno non utilizzare il termine
eutanasia in tal senso; è invece preferibile in questo caso parlare di
astensione terapeutica.
1.5 - In altri casi i medici devono ricorrere, per
mantenere in vita una persona, all’impiego di apparecchi meccanici oppure alla
nutrizione totale mediante sonda o fleboclisi o ad entrambi i mezzi. Si
definisce allora come sospensione delle cure la decisione di fermare questi
interventi, con il risultato della morte dell’individuo, peraltro in tempi non
sempre rapidi.
1.6 - La morte può anche essere causata o accelerata
dall’impiego in dosi massicce di farmaci, come ad esempio la morfina o i suoi
derivati, somministrati allo scopo di alleviare sintomi quali il dolore o la
dispnea. In questi casi la morte non è la conseguenza di un atto volontario del
medico, ma piuttosto un effetto collaterale del trattamento.
2 - Stato del dibattito
2.1 - In oncologia, l’argomento trova sempre più
spesso spazio nelle riviste specializzate e nei congressi medici. Fra il 1991 e
il 1996 è possibile identificare 296 citazioni sul suicidio assistito in
riviste oncologiche, mentre nel decennio 1981-1990 le citazioni erano solo 21.
Nel numero di febbraio 1997 del Journal of Clinical Oncology, organo
ufficiale dell’American Society of Clinical Oncology, troviamo un
editoriale e due articoli sul suicidio assistito. Questo dato è particolarmente
interessante, specie se si aggiunge alla crescente frequenza con cui è
possibile trovare tale argomento nei programmi dei più importanti congressi di
oncologia, in quanto fino a pochi anni fa esso non trovava posto in sedi dove
la discussione riguardava esclusivamente le procedure diagnostiche e i
protocolli terapeutici delle malattie neoplastiche.
2.2 - A questi dati occorre poi aggiungere quelli
riguardanti altre malattie croniche, specialmente le patologie neurologiche
come il morbo di Alzheimer e le gravi lesioni permanenti del sistema nervoso.
2.3 - Si può in generale rilevare quindi un crescente
interesse verso il termine della vita, focalizzato soprattutto sulla qualità
del periodo terminale della vita e del morire.
2.4 - Non c’è alcun dubbio sul fatto che si vada
intensificando la percezione che le tecnologie mediche sempre più complicate e
costose siano in grado di allungare la vita, ma non necessariamente di
migliorarne la qualità.
2.5 - È interessante rilevare come la discussione
porti sempre in primo piano il ruolo del medico nel porre termine
anticipatamente alla vita. Il problema quindi non è tanto se sia lecito o no
troncare volontariamente la vita, ma se sia lecito che il medico assista il
malato nel suicidio o procuri la morte con un atto deliberato. Ciò comporta un
profondo mutamento nel ruolo del medico stesso, che si trasforma da chi agisce
esclusivamente per tenere in vita il suo paziente il più a lungo possibile in
chi svolge un ruolo attivo nel procurare la morte, quando non vi siano più
possibilità di conservare al paziente una dignitosa qualità di vita. È questo
aspetto del problema che sembra incontrare la più fiera opposizione negli
ambienti medici.
2.6 - D’altro canto, si rilevano prese di posizione
contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito fondate su argomenti giuridici,
poiché la giurisprudenza in vigore nella maggior parte dei paesi considera tali
atti come veri e propri omicidi; nella particolare situazione del suicidio
assistito, mentre l’atto del suicidarsi non è mai considerato un reato, lo è
invece il prestare aiuto, il facilitare il suicidio stesso.
2.7 - Sul piano più strettamente etico, uno degli
argomenti che ricorrono più spesso nelle argomentazioni contrarie all’eutanasia
è certamente quello che si richiama alla “sacralità” della vita: per un’etica
religiosa essa è data all’uomo da un Creatore che è il solo a poterne disporre
e non è lecito alla creatura intervenire attivamente per abbreviare anche di
poco la sua durata. Solo Dio è padrone della vita e della morte. Ma anche un’etica
non esplicitamente radicata nella religione fa talvolta riferimento
all’intoccabilità della vita, implicitamente riconoscendole un valore sacro e
in qualche modo “soprannaturale”.
2.8 - Contro queste argomentazioni si situa il diritto
del malato di poter decidere di porre termine a un’esistenza divenuta
intollerabile. Egli chiede perciò al medico di esercitare le sue conoscenze non
più per mantenerlo in vita, ma per condurlo rapidamente e in maniera indolore
alla morte.
2.9 - In realtà, poiché molteplici e complesse sono le
situazioni di fronte alle quali ci si trova, è necessario esaminare le
condizioni nelle quali può sorgere la richiesta di eutanasia o di suicidio
assistito.
3 - Situazioni cliniche
3.1 - I malati di cancro sono le persone dalle quali
più spesso può venire la richiesta di eutanasia o di assistenza al suicidio.
Molti tumori maligni sono oggi suscettibili di essere trattati con diverse
modalità terapeutiche: la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia, da
sole o in combinazione, oppure in sequenza, sono in grado di prolungare
notevolmente la vita dei malati di tumore, anche se il numero di quelli
guaribili è ancora decisamente basso. Come conseguenza, nella maggior parte dei
casi, questi malati vivono con la loro malattia per diversi anni,
sottoponendosi a trattamenti rilevanti, che causano a loro volta disturbi (si
pensi alle menomazioni prodotte da alcune chirurgie demolitive, oppure agli
effetti collaterali della radioterapia e della chemioterapia). Nel momento in
cui il tumore si diffonde progressivamente nell’organismo, esso determina
l’insorgere di sintomi molto gravi: dolori spesso intensissimi, estrema
debolezza, vomito, dispnea, paralisi e perdita di controllo degli sfinteri.
Anche se le cure palliative correttamente impiegate sono in grado di
controllare in parte questi sintomi, qualche volta il dolore o la dispnea sono
tali che i farmaci a disposizione hanno solo degli effetti parziali. In questo
stadio il paziente può considerare il suo stato intollerabile e richiedere al
medico di intervenire per accelerare la morte.
3.2 - La condizione dei malati di Aids è
esemplificativa degli atteggiamenti possibili di fronte alla certezza della
morte e alla previsione abbastanza precisa di quanto ci si può attendere nel
resto della vita. Si tratta di persone consapevoli del fatto che la loro
malattia può in certi casi essere prolungata per alcuni anni. Dopo un periodo
anche abbastanza lungo di sieropositività, esse andranno soggette ad infezioni
opportunistiche e a diverse forme di tumore maligno con effetti devastanti
sulle condizioni di vita, fino alla fine.
3.3 - La malattia di Alzheimer ha in genere un decorso
di molti anni dal momento dell’esordio, caratterizzato da una perdita della
memoria specie per i fatti recenti. Nell’evoluzione della malattia, le facoltà
intellettuali si deteriorano progressivamente. Tuttavia, le persone colpite
sono in grado di condurre, per tre o più anni, una vita relativamente piena.
Solo negli stadi terminali si assiste a una totale incapacità di svolgere le
funzioni vitali più elementari. È importante rilevare come in questo caso, come
nelle forme più rare di demenza senile e presenile, non ci si trovi in pratica
mai di fronte a un’esplicita richiesta di affrettare la morte. Piuttosto, è
possibile che il medico debba decidere se ottemperare o meno ad un testamento
biologico (living will) nel quale l’individuo abbia espresso in anticipo
il desiderio di non essere curato per prolungare l’esistenza in una simile
situazione.
3.4 - In altre malattie neurologiche a decorso
ingravescente, come la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, si
assiste a una progressiva perdita delle capacità motorie dell’organismo. Eventi
improvvisi, in genere dovuti a disturbi circolatori, possono analogamente rendere
impossibile qualsiasi movimento tranne quello degli occhi. La persona colpita
diventa quindi incapace di svolgere anche le più elementari funzioni della
vita, come spostarsi, mangiare, provvedere all’igiene e ai bisogni corporali,
mentre le facoltà intellettuali restano perfettamente integre. Di qui può
scaturire la decisione consapevole del malato di richiedere al medico di porre
termine alla sua esistenza.
3.5 - Situazioni abbastanza simili si possono osservare
anche nel corso di altre gravi malattie croniche, come l’artrite reumatoide. In
tutti questi casi si assiste a quello che viene in genere indicato come un
“grave impedimento cronico”. La gravità dell’impedimento è naturalmente un dato
difficilmente quantificabile: una persona affetta da una devastante forma di
artrite deformante, che le impedisca di svolgere un’attività professionale
sulla quale si concentri tutto l’interesse dell’esistenza, può ritenere il suo
stato più intollerabile di quanto non lo avverta invece un individuo che svolga
un’attività prevalentemente intellettuale e che si trovi immobilizzato in un
letto.
3.6 - I rapidi progressi delle tecniche di
rianimazione e delle terapie intensive consentono di mantenere in vita anche
per lunghi periodi di tempo individui che hanno subito gravi lesioni cerebrali.
Essi dipendono totalmente dalle macchine per la respirazione e da sonde
gastriche per la nutrizione. Molto spesso le funzioni cerebrali sono in queste
persone totalmente e irreversibilmente distrutte e non esiste alcuna
prospettiva di un seppur minimo recupero. Si parla allora di “stato vegetativo
persistente”. Le decisioni richieste ai medici curanti riguardano in questi
casi la sospensione delle tecniche rianimatorie: in pratica, il paziente è
“lasciato morire”.
3.7 - Esistono poi molte situazioni nelle quali il
medico non si trova di fronte a vere e proprie malattie gravemente invalidanti
o a sintomi fisici intollerabili, ma che ugualmente possono determinare in una
persona il nascere e il consolidarsi della convinzione che la sua vita si sia
esaurita e non vi sia alcuna ragione di prolungarla ulteriormente. Si pensi in
particolare alla situazione degli anziani, i quali spesso presentano gravi e
multiple limitazioni delle capacità fisiche e psichiche, accompagnate dalla
sensazione di essere “di peso” ai familiari. In queste circostanze un’eventuale
richiesta di eutanasia ha da essere valutata con estrema cautela, anche perché
spesso nasconde sintomi di depressione, curabili sia farmacologicamente, sia
con un supporto psicologico.
4 - La ricerca di orientamenti
4.1 - Da un lato, la sospensione delle cure alle
persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente, è stata ritenuta
eticamente accettabile in molte sentenze emesse da diverse corti di giustizia,
specie nei paesi anglosassoni. Non sempre, tuttavia, la morte in questi casi
segue immediatamente la sospensione delle terapie, specie quando questa
riguarda l’eliminazione della nutrizione e della somministrazione di liquidi:
l’ammalato può morire per il digiuno e la disidratazione, fra sofferenze
facilmente immaginabili. È quindi giustificato chiedersi in quale misura sia
più accettabile lasciar morire una persona, piuttosto che accelerarne la morte
con un’iniezione di farmaci letali.
4.2 - Le maggiori controversie riguardano naturalmente
l’eutanasia (attiva) e l’assistenza al suicidio. Di solito ci troviamo di
fronte a persone che la medicina ha tenuto in vita per lunghi periodi, grazie a
tecnologie sempre più complesse. Queste persone hanno consapevolmente accettato
i trattamenti che il medico ha loro proposto: è comprensibile che gli possano
chiedere, quando egli abbia chiaramente spiegato che la medicina non è più in
grado di controllare i sintomi, non solo di sospendere ogni altra inutile cura,
ma di intervenire attivamente per accelerare la morte, in modo indolore e
rapido. Quando siano rispettate le condizioni di libera scelta, non esiste
alcun valido motivo per costringere una persona a prolungare una sofferenza che
egli reputa inutile e disumana.
4.3 - L’opposizione della maggior parte dei medici,
sulla base del loro dovere di fare tutto il possibile per mantenere in vita il
malato, a praticare l’eutanasia, andrebbe riconsiderata alla luce di un
concetto di medicina che comprende anche l’imperativo di evitare inutili sofferenze.
Coloro che praticano la medicina hanno il dovere di applicare nel modo più
completo ed efficiente le conoscenze e le tecnologie a disposizione. Occorre
tenere sempre presente che simili strumenti non sono fini a se stessi, ma sono
da utilizzare nell’ottica di una cura globale del paziente inteso come totalità
della persona e pertanto essi possono essere impiegati per abbreviare
sofferenze non altrimenti eliminabili.
4.4 - Come si è accennato in precedenza, uno degli
argomenti ricorrenti contro l’eutanasia e il suicidio assistito è quello della
sacralità e intangibilità della vita. È certamente vero che la vita rappresenta
il valore supremo che va rispettato e salvaguardato come tale. Tuttavia è
lecito chiedersi che cosa si intende esattamente e correntemente per vita.
Esiste una condizione biologica, rappresentata dall’insieme delle funzioni
biochimiche cellulari, dalla riproduzione cellulare, dal funzionamento dei vari
organi. Queste funzioni, seppure con complessità crescente dagli organismi
unicellulari fino ai primati e al genere umano, sono fondamentalmente simili in
tutti gli esseri viventi. Ciò che distingue la vita umana è l’insieme delle
esperienze, delle relazioni con le altre persone, delle gioie, dei dolori e
delle sofferenze, delle speranze nel futuro, delle attese, degli sforzi per
rendere degna e umana la vita. In altri termini, è necessario distinguere la
vita biologica dalla vita biografica: quando la vita biografica cessa, come nel
caso di uno stato vegetativo persistente, oppure divenga intollerabile, come
nelle malattie terminali, deve essere presa in considerazione l’eventualità di
porre termine alla vita biologica.
4.5 - L’introduzione nella prassi medica e nella
legislazione di una qualche forma di liceità dell’eutanasia e del suicidio
assistito suscita il timore di uno scivolamento verso altre forme di
accelerazione della morte anche in persone inconsapevoli o non consenzienti. La
società potrebbe incamminarsi su un pericoloso “pendio scivoloso” (slippery
slope), al termine del quale potremmo accettare di sopprimere legalmente
anziani, disabili, disadattati. Poiché la bioetica nasce dopo la seconda guerra
mondiale e dopo gli orrori del nazismo, il vivo ricordo delle esperienze della
Germania hitleriana esercita senza dubbio una forte influenza nel generare e
rendere vivi e presenti questi timori: il periodo nazista viene considerato
come la prova dello scivolamento dell’eutanasia volontaria a quella
involontaria e alla progressiva erosione di ogni regola etica. In realtà la
politica dei nazisti nei confronti dei deboli, dei malati e in genere degli
individui ritenuti non adatti alla nuova società ariana fu iniziata e attuata
violando il codice penale tedesco e suscitò la reazione, peraltro inutile, del
ministero della Giustizia. Questa politica non ha nulla a che vedere con l’idea
e la pratica dell’eutanasia com’è oggi intesa. Non si hanno notizie di casi di
eutanasia volontaria richiesta da malati di cancro o da persone affette da
malattie croniche nella Germania di Hitler. Pertanto, utilizzare questo
argomento per opporsi all’eutanasia sembra perlomeno poco fondato storicamente
e scorretto sul piano dialettico, poiché tende ad accostare due fenomeni
radicalmente diversi.
4.6 - La posizione dell’opinione pubblica al riguardo
ha subito negli ultimi anni significativi mutamenti. Nell’Oregon (Usa) nacque
nel 1987 la Hemlock Society, un’organizzazione non-profit, che
sponsorizzò nel 1991 la presentazione di una proposta di legge in favore del
suicidio assistito al Senato di quello Stato. La proposta non fu mai discussa,
ma nel 1994 i cittadini dell’Oregon approvarono, con una maggioranza del 52% di
voti favorevoli, la legge oggi nota come “Death with Dignity Act”, che consente
ai medici di prescrivere i farmaci necessari al suicidio a favore di un
paziente, purché egli sia cittadino dell’Oregon, abbia una previsione di vita
non superiore a sei mesi e vi sia il parere favorevole di altri due medici. In
un referendum svoltosi nel novembre 1997 i cittadini dell’Oregon, questa volta
con una maggioranza del 60% a favore, hanno respinto una proposta d’abrogazione
della legge. Molti medici si sono espressi contro tale legge. Una posizione
nettamente contraria è stata presa dall’American Medical Association.
Non è ancora chiaro come e in che misura essa sarà applicata, anche perché la Drug
Enforcement Agency (Agenzia di controllo sui farmaci) ha minacciato di
sospensione della licenza i medici che prescriveranno farmaci per aiutare un
paziente a commettere suicidio. È in ogni modo interessante rilevare che sulla
stampa specializzata degli Usa sono state numerose le prese di posizione
sostanzialmente favorevoli alla legge e critiche nei confronti dei medici,
accusati di scegliere di prolungare le sofferenze degli ammalati piuttosto che
farsi coinvolgere in una scelta indubbiamente difficile.
4.7 - Al Parlamento europeo l’on. Léon Schwartzenberg
ha presentato, come relatore, un Documento di lavoro nel luglio 1990 e un
Progetto di relazione nel febbraio 1991, sull’assistenza ai malati terminali,
nei quali l’eutanasia attiva e il suicidio assistito sono visti come
possibilità accettabili e rispettose della dignità e dell’autonomia dei
pazienti. I due documenti non risultano essere stati ulteriormente discussi.
4.8 - Con riferimento all’esperienza dei Paesi Bassi,
occorre anzitutto ricordare che per il codice penale olandese l’eutanasia è
considerata un crimine, ma è trattata in una sezione separata del codice. La
legislazione attuale trae origine da una serie di avvenimenti e processi
iniziati nel 1973, anno di fondazione della Società olandese per l’eutanasia
volontaria. Nel 1985 la Commissione di stato sull’eutanasia propose di emendare
il codice penale in modo tale che la morte provocata a una persona su esplicita
e ripetuta richiesta di questa non fosse considerata un crimine a condizione di
essere data nel contesto di buona pratica medica e che la condizione del malato
fosse senza possibilità di miglioramento. Questa proposta non fu mai accolta
come tale e il codice penale non fu mai modificato. Bisogna ricordare che
l’Associazione medica olandese ha ripetutamente espresso parere favorevole
all’eutanasia e queste prese di posizione hanno influenzato non poco le
decisioni del Parlamento.
4.9 - Nel 1991 la Commissione Remmelink riportò al
Parlamento che i casi d’eutanasia andavano stimati fra 2.000 e 8.000 l’anno e
segnalò circa 400 casi di suicidio assistito. Le richieste di eutanasia erano
circa tre volte più numerose di quelle praticate: in due terzi dei casi quindi
era stata trovata dal paziente e dal medico una scelta alternativa
all’eutanasia, oppure il malato era deceduto prima della sua messa in atto. In
circa 1.000 casi i medici segnalavano di aver praticato l’eutanasia senza
esplicita richiesta del paziente. Fino al 1990 i casi di eutanasia segnalati dai
medici olandesi erano relativamente pochi: nel 1990 ne furono segnalati 454,
nel 1994, 1.424. Contemporaneamente sono nettamente diminuiti i casi sottoposti
a procedimento penale: da due su dieci segnalati nel 1983 a quattro su 1.322
nel 1992.
4.10 - Questi mutamenti rilevanti sono senza dubbio
conseguenti alla nuova normativa in vigore in Olanda, attuata dal governo
olandese a partire dal 1990 e trasformata in legge il 1° giugno 1994. Secondo
questa normativa, il medico che opera l’eutanasia deve rispettare precise
condizioni: vi deve essere una ripetuta, confermata, volontaria richiesta da
parte del malato; lo stato del paziente deve essere così grave da rendere
intollerabile la sofferenza e non vi deve essere più alcuna possibilità di
intervento medico; prima di praticare l’eutanasia il medico deve consultarsi
con un collega esperto, che non abbia prima avuto in cura il paziente. Dopo la
morte del paziente, il medico segnala il caso all’autorità giudiziaria: solo il
procuratore del distretto può decidere se sono stati rispettati i criteri
previsti e di
conseguenza autorizzare la sepoltura senza intraprendere un procedimento
penale nei confronti del medico.
4.11 - L’evoluzione delle norme sull’eutanasia in
Olanda costituisce un esempio di come un contesto culturale particolarmente
attento agli interessi di tutte le componenti sociali (la gran maggioranza dei
cittadini dei Paesi Bassi da tempo si è dichiarata favorevole alla
depenalizzazione dell’eutanasia) e una posizione aperta e non dogmatica della
professione medica possono consentire di raggiungere su questioni drammatiche
delle soluzioni accettabili. È pur vero che sono segnalati circa 1.000 casi
l’anno di eutanasia su pazienti che non avevano espressamente indicato la loro
volontà in tal senso; essi devono certamente preoccupare e far riflettere, ma
il fatto che si conoscano i termini del problema consente di intervenire per
ridurli e se possibile eliminarli. Essi non stanno comunque ad indicare che
l’Olanda si sia incamminata su un pendio scivoloso: possiamo, infatti, supporre
che casi del genere si verificassero ben prima che la nuova normativa fosse
accettata e che una pratica simile esista anche nei paesi nei quali l’eutanasia
non è accettata.
4.12 - L’eutanasia e il suicidio assistito, praticati
in un contesto di precise regole e di controlli validi, ma non vessatori, nei
confronti tanto del paziente quanto del medico, costituiscono un’espressione di
libertà dell’individuo nel momento in cui egli giudica che la medicina non sia
più in grado di migliorare il suo stato e che l’esistenza, ulteriormente
prolungata, sarebbe intollerabile. È opportuno sottolineare come, in
definitiva, solo l’essere umano pienamente cosciente sia in grado di decidere
se la propria vita sia ancora degna di essere vissuta; donne e uomini sono
responsabili delle loro vite e delle loro scelte e nessuno, medico, istituzione
religiosa o società, può in ultima analisi imporre l’obbedienza a valori non
condivisi.
4.13 - Tenendo conto di tutto quanto detto in
precedenza, una ponderata depenalizzazione dell’eutanasia e del suicidio
assistito non implicano necessariamente rischi incontrollabili per la società;
conseguentemente dovremmo evitare di esprimere la nostra opinione in conformità
a principi astratti e valori nei quali non tutti i cittadini di un paese sono
tenuti a riconoscersi.
4.14 - L’espressione di libertà implicita nella
richiesta di eutanasia presuppone una completa e adeguata informazione e discussione fra medico e
paziente sullo stato della malattia e sulle prospettive di vita e di morte,
sempre che il paziente desideri essere informato fino in fondo sulle proprie
condizioni. Non è immaginabile parlare di eutanasia quando, come avviene spesso
in un contesto culturale quale quello italiano, si dicono al malato pietose bugie
o gli si concedono mezze verità, ergendogli intorno una barriera che vorrebbe
essere di protezione e che invece non fa altro che sottrarre al paziente
dignità e libertà (quando non ha lo scopo principale di evitare ai familiari e
al medico l’imbarazzante compito di affrontare con il malato argomenti sui
quali essi non sono assolutamente preparati a discutere).
4.15 - Certamente l’esperienza degli altri paesi e in
particolare dell’Olanda, che ha depenalizzato l’eutanasia, deve essere studiata
e trasferita in altre realtà sociali con estrema cautela. Riteniamo tuttavia
che anche per l’Italia sia giunto il momento di affrontare la questione e di
iniziare un cammino anche legislativo che stimoli la discussione tanto
nell’opinione pubblica quanto nell’ambito dei medici, delle professioni
sanitarie e delle chiese.
5 - Considerazioni etiche e pastorali
5.1 - Da un punto di vista pastorale la distinzione
tra eutanasia attiva e astensione terapeutica è importante e merita di essere
sottolineata. L’astensione terapeutica infatti rispetta, pur non completamente,
il tempo di attesa della morte, con una sua propria ritualità che
l’accompagnamento pastorale conosce dalla tradizione. L’eutanasia attiva invece
non rispetta questo tempo di attesa, ma lo anticipa. E questo anticipare
implica un’azione diretta, immediata, da parte dell’intervento medico, che deve
essere assunta in tutte le sue implicazioni.
5.2 - Se l’etica medica può motivare e giustificare la
sua azione sulla base di valutazioni antropologiche generali, è possibile
motivare e giustificare questa stessa azione da un punto di vista pastorale?
Quali argomenti possono essere addotti, in un’ottica etico-pastorale, per
confutare o accettare la domanda del malato grave e la disponibilità del medico
al suicidio assistito?
5.3 - A queste domande non è facile dare risposte
esaurienti. Probabilmente non esistono risposte esaurienti, né per chi intende
motivare la scelta per l’eutanasia attiva, né per chi intende confutarla. Il
conflitto tra principi e norme è sempre largamente soggettivo. Ciò che può
permettere di dire di sì alla richiesta di un malato grave di interrompere la
sua vita può nascere soltanto da una profonda relazione con il suo stato di
sofferenza e di dolore. L’accoglienza di una domanda di suicidio assistito può
essere assunta da un accompagnamento pastorale che tiene aperta la dimensione
di conflittualità che tale decisione implica, per il malato inguaribile, per il
medico, per la figura pastorale, per i familiari. Una conflittualità che
tuttavia non può sottrarsi all’insistenza della domanda e alla percezione del
dolore e della sofferenza che esigono una risposta nel qui e ora. Non si tratta
di cercare giustificazioni o legittimazioni all’azione che si compie per
difendere il “diritto alla vita” di chi vuole poter morire. Si tratta piuttosto
di prendere atto che non vi sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti
per opporre un rifiuto di principio. Ciò a cui non si può sfuggire è la domanda
che l’altro mi rivolge con insistenza e che io percepisco in tutta la sua
gravità.
5.4 - Fino ad oggi, in ambito cristiano, a parte
alcune eccezioni, è prevalso un giudizio negativo nei confronti dell’eutanasia
attiva. Esso si fonda sulla Bibbia e soprattutto sulla morale cristiana, e si
riassume nell’affermazione che Dio solo è colui che dà la vita e la può
togliere, da cui l’affermazione dell’intangibilità o della “sacralità” della
vita. Intervenire in questa relazione di vita e di morte vorrebbe dire
“prendere il posto di Dio”. Ma significa veramente sostituirsi a Dio accogliere
la domanda di un malato grave che intende porre termine alla sua vita? Si
sottrae a Dio una parte della sua signoria sul mondo e sulla vita accogliendo
la richiesta di un malato grave di poter morire? O si mette in questione il
potere acquisito dalla medicina moderna di mantenere in vita un corpo che
produce dolore senza più poter accedere a un senso della vita? E ancora, dietro
a questa onnipotenza della medicina non si nasconde una difficoltà ad
affrontare la propria morte?
5.5 - L’etica cristiana e la pastorale devono fornire
delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, devono
assumerli fino in fondo, senza divagare, senza proiettarli irresponsabilmente
in una dimensione di autoredenzione. La sofferenza e il dolore non producono
salvezza, sono dimensioni dell’esistenza umana da accettare, ma anche da
combattere, in sé non hanno nulla di positivo. Ma ciò non va confuso con il
fatto che molte persone si aprono alla fede nel tempo della malattia e della
sofferenza e che sia precisamente questo tempo a gettare nuova luce
sull’esistenza. Un tempo di malattia e di sofferenza che provoca nuovi
interrogativi sulla vita e sulla morte, stimolo di nuova spiritualità, ricerca
di fede che può assumere una dimensione terapeutica. La domanda di eutanasia
attiva nasce anche su questo terreno, sul terreno di una fede viva e
consapevole. E dal momento che la fede personale non è mai disgiunta da una
relazione di comunità, il singolo ha bisogno del supporto relazionale delle
persone che lo circondano e di quello della comunità cristiana di appartenenza.
5.6 - Nell’ambito della pastorale si parla molto del
rispetto della spiritualità del malato. Ma questo rispetto sembra arrestarsi
improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di
poter morire. Quasi che questa domanda nascesse da un mondo che non gli
appartiene. Che cosa impedisce di leggere anche questa domanda come segno di
una spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue
promesse? Con quale autorità spirituale posso io contrastare la libertà e
responsabilità di un altro di decidere il tempo della sua morte quando il
vivere è un’umiliazione quotidiana senza speranza? Qual è la fonte
dell’autorità che mi impone di costringere una persona inguaribile a continuare
a vivere una vita di morte? Chi sono io per sottrarre al malato inguaribile
questo diritto di poter morire? Da quale parte sta il Dio della vita e della
promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o
dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa
essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa
accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire
coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del
malato inguaribile l’accoglie all’interno di un lungo processo di cura e di
relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o
all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un
gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una
storia di relazioni.
Roma, 7 febbraio 1998
(1) Il Gruppo era composto da: dr. Daniele Busetto,
medico ospedaliero, specialista in Farmacologia clinica, Vicenza; prof. Enrico
Cillari, docente di Immunologia, facoltà di Medicina, Università di Palermo;
dr. Pietro Comba, epidemiologo, Roma; dr. Gianni Fornari, primario Ospedale
valdese di Torino, oncologo; prof. Ermanno Genre, docente di Teologia pratica,
Facoltà valdese di teologia, Roma; prof. Giovanna Pons, pastora valdese; prof.
Anna Rollier, docente di Genetica, facoltà di Medicina, Università statale di
Milano; prof. Sergio Rostagno, docente di Teologia sistematica, Facoltà valdese
di teologia, Roma; dr.ssa Silvia Rutigliano, giornalista pubblicista.
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