Prospettive assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999

 

 

Intesa fra il governo e il forum del terzo settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di autodifesa

 

 

Da vent’anni (1) sosteniamo che, ad esclusione dei bambini adottabili senza gravi minorazioni, i cittadini totalmente incapaci di autodifendersi e non tutelati da congiunti o da altri soggetti (anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer e altre persone colpite da demenza senile, pazienti psichiatrici e handicappati intellettivi con limitatissima o nulla autonomia) vengono sistematicamente esclusi dal contesto sociale mediante il loro ricovero in strutture assistenziali (case di riposo e altri istituti) in cui spesso non ricevono le necessarie cure sanitarie e le altre indispensabili prestazioni. A causa del disinteresse delle istituzioni, succede anche che il trasferimento dal manicomio in una comunità peggiori notevolmente le condizioni di vita dei ricoverati (2).

Per quanto riguarda i soggetti con limitata capacità di autotutela e, anche in questo caso, senza congiunti o altri (ad esempio, volontari) che ne difendano esigenze e diritti, il Governo e il Forum del Terzo Settore (3) hanno sottoscritto un protocollo di intesa, il cui testo è riportato in questo numero.

Una delle caratteristiche salienti dell’accordo è il riconoscimento ufficiale, da parte del Governo, del Terzo Settore quale soggetto politico, sociale ed economico in grado sia di «corrispondere in modo efficace alla domanda insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al diffuso bisogno di “beni relazionali” necessari per la convivenza civile e la coesione sociale», sia di incentivare «l’occupabilità dei lavoratori svantaggiati».

Dunque, per garantire «la convivenza civile e la coesione sociale» il Governo e il Terzo Settore non puntano sulla prevenzione del bisogno e del disagio, e non riconoscono la necessità di una reimpostazione dei servizi fondamentali (lotta all’evasione scolastica, cure sanitarie anche ai malati inguaribili, adeguamento delle pensioni minime, ecc.). Inoltre, alle persone svantaggiate, comprese quelle in grado di assicurare un rendimento lavorativo uguale a quello degli altri lavoratori, il Governo e il Terzo Settore non si impegnano per la loro occupazione nelle normali aziende, ma hanno deciso la loro emarginazione presso le cooperative cosiddette sociali (4).

In sostanza, il Governo e il Forum hanno stabilito di dare attuazione alla proposta avanzata da Pellegrino Capaldo (5), il quale, dopo aver premesso che bisognava abbandonare «la strada degli obblighi e dei vincoli che spesso hanno il solo risultato di ridurre la competitività delle aziende» (6), affermava quanto segue: «Penso ad una diversa disciplina delle “categorie protette” che consenta alle imprese di scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un orga­nismo produttivo che dia lavoro a quelle “cate-gorie”» (7).

La proposta emarginante della Fondazione italiana del volontariato non si rivolgeva solo alle persone con handicap, comprese – lo ripetiamo – quelle con piena capacità lavorativa, ma si estendeva anche ai soggetti “svantaggiati”. Al riguardo il Capaldo aveva chiesto «l’allargamento della nozione di “soggetto svantaggiato” rispetto a quella prevista dalle norme sulle cooperative sociali», nonostante che il concetto di svantaggiato fosse, allora come oggi, esteso in misura assolutamente ingiustificata dal punto di vista produttivo e soprattutto contrastasse e contrasti nettamente con il riconoscimento della dignità della persona e con il diritto di tutti gli individui al loro più completo sviluppo personale e al miglior inserimento possibile nella società.

In realtà, il termine di svantaggiato non viene definito con criteri oggettivi, con il preciso intento che così possono essere considerati tali non solo i soggetti deboli, ma anche tutti coloro che sono ritenuti “diversi” per i più svariati motivi, senza che vi sia alcun obbligo di fornire motivazioni verificabili.

Si osservi, a questo proposito, che la legge 8.11.1991 n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali” considera in modo massificante tutti i soggetti svantaggiati, senza tenere in considerazione la loro autonomia personale e le loro capacità lavorative.

Infatti l’art. 4 della legge suddetta stabilisce che «si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47 bis, 47 ter e 48 della legge 26.7.1975, n. 354, come modificati dalla legge 10.10.1986, n. 663. Si considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, con il Ministro dell’interno e con il Ministro per gli affari sociali, sentita la Commissione centrale per le cooperative istituita dall’articolo 18 del citato decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14.12.1947 n. 1577, e successive modifica­zioni».

Tenuto anche conto del preoccupante numero dei giovani disoccupati, non appare giustificabile la proposta dell’intesa Governo-Terzo Settore «di introdurre un trattamento fiscale specifico che consenta lo svolgimento di attività lavorative d’utilità sociale in organizzazioni del Terzo Settore da parte di anziani pensionati detentori di redditi medio-bassi assoggettando i corrispettivi da essi percepiti ad una tassazione ad aliquota fissa a titolo di imposta esaustiva di ogni obbligo anche assicurativo, e senza che questi siano cumulabili con altri redditi» (8).

In altre parole, la proposta è di introdurre una forma autorizzata di pseudo lavoro nero!

Nell’accordo intervenuto fra Governo e Terzo Settore è anche prevista la convocazione di una Conferenza nazionale sui problemi della popolazione anziana, preludio – a nostro avviso – ad un intervento del Terzo Settore nel campo dei soggetti malati cronici non autosufficienti, con la conseguenza di accentuare la caratterizzazione assistenzialistica degli interventi, nonostante la necessità prioritaria delle prestazioni sanitarie (9).

Analoghe considerazioni valgono per l’accordo intervenuto fra il Governo e il Terzo Settore in merito alla decisione di «riorientare, senza estenderne l’ambito, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità anche verso azioni di sostegno del Terzo Settore», anche perché riteniamo praticamente irrealizzabile l’obiettivo «di determinare non una nuova area di assistenza e di parcheggio, ma interventi flessibili e mirati volti a un inserimento effettivo nel mercato del lavoro di disoccupati di lungo periodo». Infatti, com’è universalmente riconosciuto, una delle esigenze fondamentali per l’inserimento lavorativo non è la permanenza più o meno lunga in un’area qualsiasi, ma il possesso di una adeguata formazione professionale, formazione che deve essere fornita dalle apposite strutture specialistiche.

 

L’autopromozione del Terzo Settore

L’intesa sottoscritta dal Governo e dal Terzo Settore rappresenta la tappa di un percorso avviato da alcuni anni.

Anche se numerose sono state le iniziative autopromozionali del Terzo Settore, dirette ad ottenere dal Governo e dal Parlamento più ampi spazi ed agevolazioni di natura economica per la gestione degli interventi di emarginazione (10), ci limitiamo a presentare quelle più significative.

 

La ricerca effettuata nel 1993 da McKinsey & Company

 

In primo luogo va osservato che la ricerca è stata svolta dalla società McKinsey & Company in collaborazione con il Consorzio nazionale della cooperazione di solidarietà sociale, il gruppo più importante del Terzo Settore (11).

Secondo gli autori dell’indagine, le persone svantaggiate in Italia ammonterebbero a circa il 6,8 per cento della popolazione, e cioè 3 milioni e 900 mila; il 3,3 per cento degli abitanti non sarebbero in grado di provvedere ai propri bisogni perché non autosufficiente (12): 810 mila “anziani bisognosi di assistenza” (13), 650 mila “portatori di handicap fisico e mentale”, 270 mila “malati di mente”, 110 mila “malati terminali” e 150 mila “utilizzatori di droghe” (alcolisti e tossicodipendenti) per un totale di 1 milione e 900 mila soggetti. Gli autosufficienti svantaggiati (il 50 per cento dei “malati di mente”, il 75 per cento degli “utilizzatori di droghe”, 55 mila “minori con problemi di adattamento” e 1 milione 150  “carcerati in semilibertà o ex, poveri, senza tetto, immigrati, oltre a disoccupati di lungo periodo”) rappresenterebbero il 3,5 per cento della popolazione.

I ricercatori della Società McKinsey, non tenendo conto che, contemporaneamente al prolungamento della durata media della vita, si è verificato un notevole incremento dei livelli di autonomia, ripetono il vecchio e ormai logoro luogo comune secondo cui «il bisogno di assistenza extra-familiare è destinato ad aumentare, perché i nuclei familiari si stanno restringendo (14), perché si allunga la vita media e perché alcuni tipi di svantaggio sono tipicamente senili o peggiorano con l’età».

Nell’indagine in oggetto viene notevolmente drammatizzata la situazione: si arriva ad affermare che il problema degli anziani bisognosi di assistenza sarebbe “esplosivo”, mentre è noto che negli ultimi anni c’è stata una notevole riduzione delle richieste di assistenza da parte degli anziani totalmente o parzialmente autosufficienti, sia per l’aumento dei livelli culturali e il miglioramento delle condizioni economiche, sia per gli effetti positivi della predisposizione, seppur ancora gravemente carente, di prestazioni e servizi alternativi al ricovero.

Resta, invece, drammatica – e lo ripetiamo da anni – la questione delle cure sanitarie per gli anziani colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza: questione che investe il settore sanitario.

Anche altre valutazioni della McKinsey non sono assolutamente condivisibili. Ad esempio, quelle relative al previsto ma non dimostrato aumento dei malati di mente e dei portatori di handicap. Ma è soprattutto preoccupante che nei riguardi delle persone svantaggiate venga indicato che i «bisogni di sussistenza» sono quelli più importanti, mentre le esigenze primarie, per questi soggetti, come per tutti i cittadini, riguardano la salute, la casa, l’istruzione, il lavoro, la cultura, ecc.

A nostro avviso va, inoltre, precisato che, se non si punta all’emarginazione dei più deboli, ad esempio dei malati cronici non autosufficienti, la fascia delle persone con esigenze di assistenza sociale, perché incapaci di provvedere a se stesse, è assai limitata e non supera il 2-3 per cento della popolazione (15), percentuale notevolmente inferiore alla cifra del 6,8% ipotizzata dalla McKinsey.

L’impostazione assistenzialistica dei problemi e delle soluzioni è particolarmente presente nella ricerca in oggetto non solo in merito agli anziani, compresi quelli non autosufficienti, ma anche nei riguardi dei portatori di handicap.

A nostro avviso sono anche decisamente fuorvianti e unidirezionali le indicazioni sulla diversa efficacia dei servizi che riportiamo testualmente dalla ricerca:

  pubblico    «Ampia diffusione del servizio, ma con elevati costi di intermediazione, senza verifica qualità del servizio fornito»;

  profit         «Caratteristiche di rapidità, flessibilità e qualità del servizio, ma approccio focalizzato sul profitto e quindi selettivo su servizi e clientela»;

  nonprofit    «Approccio finalizzato al soddisfacimento delle esigenze dell’utente (perciò tendenzialmente innovativo), personalizzato e flessibile (finalità solidaristica), ma scarsamente diffuso e poco conosciuto».

 

Il rapporto del CNEL

Sulla stessa linea assistenzialistica degli interventi per le persone in difficoltà della ricerca testè esaminata, si pone il rapporto “Il ruolo degli organismi non profit nel settore assistenziale” elaborato dal CNEL, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, in data 21 aprile 1998.

Nel documento, redatto su richiesta della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati (16), non c’è una sola parola sulla prevenzione del bisogno assistenziale e sulle conseguenti iniziative da assumere a livello nazionale, regionale e locale da parte delle istituzioni pubbliche e private.

A parte i soliti luoghi comuni sulla «esigenza di contenimento della spesa pubblica» (che in materia di assistenza sociale è fra le più basse dei paesi industrializzati), sulla «progressiva senilizzazione della popolazione» (17), del restringimento della famiglia (18), nel rapporto del CNEL non c’è neanche un cenno ai diritti delle persone in difficoltà, nemmeno quelli sanciti da leggi in vigore.

Nella ricerca è segnalato che «i settori assistenziali nei quali è, dunque, ipotizzabile il raggiungimento da parte degli organismi non profit, di una posizione significativa possono, così, essere individuati: nelle case di riposo e abitazioni protette, negli asili nido, nei settori assistenziali innovativi (assistenza domiciliare agli anziani, istituti per anziani e handicappati, servizi a persone affette da problemi sanitario-sociali, consultori per alcolisti e tossicodipendenti, istituti per minori in stato di disagio, servizi di pasti a domicilio, consultori familiari)». Si osservi che i ricercatori del CNEL non soltanto inseriscono gli asili nido fra le strutture assistenziali (e non fra i servizi educativi), ma ripropongono ad­dirittura gli istituti assistenziali per anziani, handicappati e minori come se fossimo ancora negli anni ’60-’70.

Per quanto riguarda gli anziani non autosufficienti, non possiamo tacere sul fatto che i ricercatori del CNEL in un altro rapporto redatto per la Commissione Affari sociali della Camera dei deputati nella stessa data di quello sopraricordato, avevano esplicitamente richiesto che la competenza ad intervenire venisse assegnata all’assistenza.

In sintesi possiamo affermare che quest’altro documento presenta le seguenti gravissime e pericolose caratteristiche negative:

a) non prende in esame le condizioni delle persone “non autosufficienti”, non tenendo conto (volutamente?) che i soggetti presi in esame sono colpiti da malattie o da loro esiti (cancro, demenza, ecc.) e quindi necessitanti di cure sanitarie, spesso intensive;

b) ignora totalmente – il che è incomprensibile e ingiustificato sul piano etico, giuridico e scientifico – le vigenti disposizioni di legge che fin dal 1955 riconoscono il diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie, senza limiti di durata, comprese – occorrendo – quelle praticate in ospedale e in altre strutture sanitarie (ad esempio, le RSA - residenze sanitarie assistenziali);

c) propone la creazione di un fondo speciale per l’assistenza ai non autosufficienti, ignorando (intenzionalmente?) che tale risorsa esiste dal 1978 (Fondo sanitario nazionale) e che a questo fondo i lavoratori hanno versato e versano i contributi aggiuntivi stabiliti dal Parlamento con la legge 692/1955 proprio allo scopo di garantire senza limiti di durata le cure sanitarie anche ai vecchi colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza, contributi aggiuntivi non soppressi da leggi successive.

 

L’audizione del direttore della Johns HopKins University

 

Molto inquietante è stata la posizione espressa dal direttore della Johns HopKins University (USA), Lester Milton Salamon, nell’audizione svoltasi su richiesta della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati il 5 novembre 1997.

Infatti, non solo non ha mai detto una sola parola sulle esigenze e sui diritti degli utenti dei servizi ma, come se si trattasse di persone totalmente incapaci, è arrivato al punto di affermare che le organizzazioni non profit «non si limitano ad erogare servizi ma sono anche dei veicoli per dare voce e autorità alle persone» (19). Peccato che finora il Terzo Settore non abbia avviato iniziative concrete per l’affermazione e il rispetto dei diritti della fascia più debole della popolazione, in particolare di coloro che non sono in grado di autodifendersi.

Secondo Salamon «le organizzazioni non profit possono dare un importante contributo alla soluzione dei problemi del Welfare nelle società industriali avanzate, ma devono farlo come partner dello Stato, sostituendosi ad esso», sostituzione che è possibile (ma certamente non auspicabile) solamente se riguarda attività di emarginazione dei più deboli.

Nella sua lunga esposizione, il direttore della John HopKins University non ha portato un solo esempio di intervento del Terzo Settore a difesa delle esigenze e dei diritti della fascia più debole della popolazione nei vari Paesi in cui ha analizzato la situazione (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Svezia, Ungheria e Giappone).

Per quanto riguarda il finanziamento delle campagne elettorali negli Stati Uniti, Salamon ha ammesso che «organizzazioni non profit effettivamente sono state coinvolte nello scandalo, perché uno dei modi per aggirare le leggi in materia di controllo della spesa elettorale è proprio quello di costituire una organizzazione non profit, inviare ad essa i contributi e poi riciclare i fondi per la campagna elettorale».

 

Le proposte del Forum

A scanso di equivoci, ricordiamo che siamo sempre stati favorevoli alla cooperazione sociale, quella autentica, e che abbiamo promosso la costituzione di alcune cooperative sociali negli anni ’70.

Rammentiamo anche le iniziative assunte a difesa delle cooperative quando l’Amministrazione comunale di Torino aveva deciso di indire gare di appalto al massimo ribasso per 17 comunità alloggio per adolescenti e 5 per handicappati adulti, nonché 14 servizi di appoggio a minori e 11 di assistenza educativi, servizi che complessivamente riguardavano circa 1300 persone (20).

Premesso quanto sopra, dobbiamo dire che le nostre perplessità sull’attuale impostazione del Terzo Settore, purtroppo, trovano puntuale conferma anche nel documento approvato dal Consiglio nazionale del Forum il 21 novembre 1997.

Non ci sembra accettabile, in primo luogo, che il Forum del Terzo Settore (o qualsiasi altro organismo) possa rivendicare «un ruolo da protagonista e di interlocutore primario (...) nel percorso di costruzione e affermazione» di un nuovo Stato sociale, in quanto tutte le organizzazioni di interesse collettivo hanno pari dignità, indipendentemente dal fatto di aver o non aver aderito al Forum.

Inoltre, è semplicistico e soprattutto fuorviante sostenere che «lo sviluppo di un forte Terzo Settore, in una società moderna va perseguito e promosso anche perché rappresenta da questo punto di vista un modo di sviluppare e rafforzare una “appartenenza sociale” per soggetti che rischiano o vengono esclusi dalle reti più forti di cittadinanza contribuendo per questa via a costruire o ricostruire meccanismi di collegamento fra inclusi ed esclusi, tra aree forti e aree deboli della società e del Paese».

Com’è noto da moltissimi decenni, per realizzare veramente l’appartenenza sociale, è indispensabile intervenire prioritariamente a livello preventivo. Infatti, è ovvio che se i settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e gli altri ambiti di intervento sociale espellono le persone più deboli, si dilaterà l’area dell’emarginazione. Di conseguenza l’assistenza, come l’esperienza insegna, assume la connotazione di contenitore di emarginati e di esclusi, siano i servizi gestiti dal settore pubblico, dal privato speculativo o dal Terzo Settore non profit (21).

A questo riguardo, tanto per fare qualche esempio, non risulta che finora il Forum del Terzo Settore si sia attivato per:

– contrastare l’esclusione degli handicappati dalla scuola pubblica e privata dell’obbligo;

– far sì che i soggetti in possesso della necessaria capacità lavorativa vengano assunti dalle normali aziende pubbliche e private;

– evitare che gli anziani malati cronici non autosufficienti non vengano estromessi dalla competenza del Servizio sanitario nazionale;

– ottenere la chiusura degli istituti di ricovero, previa istituzione dei servizi alternativi.

Perché il Forum del Terzo Settore non sostiene quanto previsto dalla Costituzione e cioè che l’assistenza deve intervenire solamente nei confronti di coloro che sono privi di mezzi economici e incapaci di provvedere alle loro esigenze? Perché non interviene affinché anche agli assistiti vengano fornite adeguate prestazioni da parte della sanità, della scuola, della casa, della previdenza e degli altri settori di interesse comunitario?

A questo riguardo occorre interrogarsi sul significato da attribuire alla mancanza di qualsiasi opposizione reale da parte del Forum al ruolo di contenitore delle persone deboli, escluse dal contesto sociale, attualmente svolto dall’assistenza.

Nell’articolo “Gratuità, volontariato e settore non profit” (22), Mons. Nervo afferma quanto segue: «C’è frequentemente negli enti pubblici – Comuni, USL, Regioni – la tendenza a scaricare sul Terzo Settore la gestione dei servizi, soprattutto quelli più impegnativi e più scomodi, attraverso i vari strumenti che la normativa offre: convenzioni, appalti al prezzo più basso, appalti concorso. La conseguenza è che il Terzo Settore rischia di diventare il gestore privato del denaro pubblico, completamente dipendente dal pubblico (chi paga comanda), una specie di parastato o di “parassita” dello Stato».

Mentre Mons. Nervo ritiene che «questo rischio si supera se la società civile contribuisce anche con altre risorse spontanee alla realizzazione dei servizi alla persona», a noi sembra che dalla caduta della partecipazione degli anni ’70, non vi siano più sufficienti forze di base che intervengano per la difesa dei diritti delle persone più deboli.

Siamo ritornati alla situazione degli anni ’60 in cui la stragrande maggioranza del volontariato operava con azioni consolatorie, dirette a rendere più tollerabile l’emarginazione, non per prevenirla o per superarla (23). Anzi, in quel periodo la stragrande maggioranza del volontariato non solo non si opponeva alla politica di internamento dei minori, ma aveva contrastato l’approvazione della legge sull’adozione e la sua applicazione.

Non si può nemmeno tacere sul fatto che negli anni ’60 i gestori delle più importanti strutture dell’assistenza (e cioè gli istituti di ricovero per minori, per handicappati e per anziani) erano enti non profit (IPAB, istituzioni religiose, fondazioni, ecc.) (24): anche da parte loro le resistenze contro le innovazioni furono estremamente rilevanti.

Certamente non si può fare di ogni erba un fascio, ma i nostri riferimenti sono tratti da situazioni oggettive, facilmente verificabili.

 

Considerazioni conclusive

1. A nostro avviso il Terzo Settore dovrebbe dimostrare con atti concreti che le attività svolte sono conformi ai diritti degli utenti. Ad esempio, viola il diritto delle cure sanitarie degli utenti la gestione di strutture facenti capo all’assistenza destinate agli anziani malati cronici non autosufficienti.

2. Le cooperative, in particolare quelle sociali, devono essere autentiche, caratterizzate cioè dalla consistente presenza di soci che svolgono la duplice funzione di dirigenti e di lavoratori. Troppe sono le cooperative fasulle, create solo allo scopo di ottenere commesse di lavoro.

3. Per quanto riguarda il personale, è grave che non sia ancora risolto il problema dei soci-lavoratori ai quali, in base alla legge 381/1991 «non si applicano i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato ed autonomo». Ne deriva che ai soci lavoratori possono essere corrisposti “stipendi” anche in misura inferiore al 50% degli importi stabiliti dai contratti collettivi di lavoro.

Le conseguenze sono gravissime:

– lo sfruttamento incivile dei soci-lavoratori (25);

– la più che comprensibile demotivazione nello svolgimento delle mansioni assegnate;

– una inaccettabile turnazione del personale, il quale – evidentemente - lascia la cooperativa non appena trova un lavoro meglio retribuito, con conseguenze certamente negative e spesso disastrose per gli utenti, soprattutto quelli ricoverati presso strutture residenziali.

Le comunità alloggio per minori e quelle per handicappati adulti hanno valenze positive solamente se i rapporti fra gli utenti e gli operatori sono stabili. Se il personale cambia troppo frequentemente, non si può più parlare di legami educativi, ma di semplice badanza con le ovvie nefaste ripercussioni sull’utenza. Finalmente anche i Sindacati si sono mossi. Ad esempio, è stata denunciata «la patologia costituita dal dilagare di cooperative false» operanti in particolare nel campo dell’assistenza sociale che «possono non applicare i contratti e pagare meno oneri sociali» (26).

4. Occorre tener presente il «numero consistente di aziende che generano ONLUS (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) per ottenere appalti o quote di mercato che altrimenti non le avrebbero viste protagoniste» (27). Questa situazione è destinata ad avere un’espansione assai rilevante a seguito dell’approvazione della legge 68/1998 sul collocamento obbligatorio al lavoro (28).

5. Riteniamo, altresì, necessaria e urgente la definizione di norme precise sulle condizioni che devono essere soddisfatte affinché una organizzazione possa essere definita “non profit”. Al riguardo occorre ricordare che il nostro ordinamento consente che le organizzazioni non profit possano svolgere attività lucrative (29). Un esempio significativo è quello del Cottolengo di Torino che alcuni anni or sono acquistò per 40 miliardi gli alberghi di lusso di Ischia, già di proprietà Rizzoli.

6. Come abbiamo più volte (e finora inutilmente rilevato) la scelta degli operatori e degli altri addetti ai servizi per le persone, in particolare quelli incapaci di autodifendersi, è una condizione di fondamentale importanza per una idonea qualità della vita degli assistiti (30).

Per raggiungere questo obiettivo è altresì necessario evitare per quanto possibile che venga assunto personale con gravi disturbi della personalità. Infatti, gli handicappati intellettivi gravi, i dementi senili, ecc. non sono in grado né di reagire alle violenze subite, né di segnalarle.

È pertanto necessario che tutti gli operatori, prima di essere assunti per lo svolgimento di attività sia-
no sottoposti, con tutte le garanzie di riservatezza del caso, a un esame approfondito della loro personalità (31).

Centri scientificamente riconosciuti validi, scelti di comune accordo dagli enti e dai sindacati dei lavoratori, dovrebbero essere incaricati di rilasciare una dichiarazione attestante che l’operatore è adeguato per le caratteristiche della sua personalità e per la sua professionalità, a svolgere determinate attività con soggetti non autosufficienti.

Ovviamente dovrebbe essere garantita la totale riservatezza nei confronti di coloro che non ottenessero la suddetta certificazione, riservatezza totale anche nei riguardi dell’ente che li ha indirizzati, al quale nulla deve essere comunicato né direttamente né indirettamente, a esclusione di quanto scritto nella certificazione consegnata direttamente a ciascun operatore ritenuto idoneo.

7. Anche al fine di verificare la consistenza delle finalità solidaristiche delle cooperative sociali, è necessario valutare quali siano i loro rapporti con le organizzazioni dell’utenza e con i gruppi di volontariato soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi perseguiti e le concrete attività svolte.

Inoltre, sarebbe estremamente positiva e molto significativa la presenza nei collegi sindacali delle cooperative di almeno un rappresentante delle associazioni di utenti e dei movimenti di volonta­riato.

Quale esempio significativo di cooperative falsamente sociali vanno segnalate quelle che obbligano i parenti di assistiti a diventare soci, versando non solo la quota sociale ma anche un consistente deposito infruttifero. Approfittando dello stato di necessità del congiunto, i familiari sono costretti anche ad accettare condizioni capestro in merito agli oneri economici a loro carico. Le suddette cooperative si riservano inoltre il potere discrezionale di dimettere i soggetti ricoverati.

Per evitare questi e altri gravissimi abusi occorrerebbe che i regolamenti riguardanti le condizioni di ammissione, dimissione e permanenza degli utenti fossero sempre sottoposti all’approvazione dei Comuni singoli e associati se si tratta di persone assistite e dalle ASL nei casi di soggetti malati.

 

 

(1) Cfr. “Un nostro grido di allarme di vent’anni fa purtroppo ignorato”, Prospettive assistenziali, n. 124, ottobre-dicembre 1998.

(2) Cfr. Pier Luigi Donetti, “Il manicomio chiuso a Collegno (Torino) riapre altrove - Cristalli al posto dei muri - Denuncia: venti ospiti dell’ospedale psichiatrico finiti sotto chiave a Bessolo di Ivrea”, Corriere di Rivoli, Collegno e Grugliasco, 23 aprile 1999.

(3) Fanno parte del Forum permanente del Terzo Settore: ACLI, ADA, ADICONSUM, AGESCI, AiBi, AICS, ANOLF, ANPAS, ANSI, ANTEA, ARCI, ARCIRAGAZZI, Associazione Ambiente e Lavoro, Associazione per la Pace, Associazione Nazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti, AUSER, AVIS, CILAP, CIPSI, CISP, CNCA, CNV, COCIS, Comunità di Capodarco, Conferenza dei Presidenti delle Associazioni e delle Federazioni di Volontariato, CSI, CTG, CTM, CTM-MAG, CTS, ENDAS, EVAN, Federazione Compagnia delle Opere non profit, Federsolidarietà-Confcooperative, FIMIV, FITEL, FITUS, FIVOL, Volontari nel mondo - FOCSIV, Fondazione Cesar, Fondazione Exodus, Legambiente, LILA, Mani Tese, MFD, MOVI, Movimento di Difesa del Cittadino, MOVIMONDO, PGS, Servizi Civili e Sociali, Settore delle Cooperative sociali della ANCST - Lega, UISP, US, ACLI e VIS. Aderiscono come osservatori: AGE, Agenzia Mediterranea, AIMPA, Associazione per i diritti del pedone e utenti del trasporto pubblico, CGDES, CNESC, CNOS, Federconsumatori, FICT, Gruppo Abele, MAG 3 FInance, SOS razzismo.

A nostro avviso dovrebbero far parte del Terzo Settore solamente i soggetti privati che producono beni. Non dovrebbero pertanto esservi incluse né le organizzazioni di volontariato che, fra l’altro, hanno anche il compito di vigilare sul rispetto dei diritti degli utenti da parte di tutti gli enti gestori di servizi, né le IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, dato che si tratta di enti pubblici.

(4) Nell’accordo non sono nemmeno indicate le iniziative da assumere per il passaggio dei lavoratori idonei dalle cooperative alle normali aziende private e pubbliche.

(5) La proposta era stata fatta dal Capaldo nella sua funzione di Presidente della Fondazione italiana del volontariato e della Banca di Roma. Ricordiamo che la Fondazione italiana del volontariato è stata istituita dalla Banca di Roma con uno stanziamento iniziale di 18 miliardi.

(6) Cfr. il n. 6, giugno 1995 della Rivista del volontariato, edita dalla Fondazione italiana per il volontariato.

(7) Questa facoltà di scelta da parte delle aziende è stata purtroppo inserita nella legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, riportata integralmente nel n. 126 di Prospettive assistenziali ed ivi commentata da M.G. Breda. La facoltà di scelta è stata attivamente sostenuta dal Forum del Terzo Settore. Cfr. Avvenire del 16 settembre 1998.

(8) Da notare che, ancora una volta, si fa riferimento solo ai redditi e non anche ai patrimoni posseduti.

(9) In seguito verranno portati altri elementi a sostegno della nostra ipotesi.

(10) Numerose ed importanti agevolazioni sono state concesse al Terzo Settore con il decreto legislativo n. 460/1997 sulle ONLUS, organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Ricordiamo, altresì, che in base all’art. 4 della legge 381/1991, «le aliquote complessive della contribuzione per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute dalle cooperative sociali, relativamente alla retribuzione corrisposta alle persone svantaggiate di cui al presente articolo, sono ridotte a zero». L’esenzione dai contributi suddetti riguarda anche le persone svantaggiate con piena capacità lavorativa.

(11) Il documento conclusivo della ricerca con il titolo “Comprendere le esigenze della solidarietà sociale e il ruolo della cooperazione sociale” è stato pubblicato su Impresa sociale, n. 16, 1994.

(12) Facendo solo riferimento alla non autosufficienza, ne deriva che, anche per i ricercatori della McKinsey & Company, non si tratterebbe di persone malate.

(13) Fra virgolette sono riportate le definizioni della ricerca.

(14) Non si tiene in considerazione che la famiglia si è estesa poiché è aumentato il numero delle generazioni (spesso almeno tre) che ne fanno parte.

(15) Cfr. “Quantificazione delle prestazioni di assistenza sociale fornite dal Comune di Torino nel 1998”, Prospettive assistenziali, n. 123.

(16) Ricordiamo che la legge di riforma dell’assistenza, o più precisamente la legge quadro sui servizi sociali, è all’esame della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati. Si veda, al riguardo, l’editoriale dello scorso numero “La riforma dell’assistenza: pessimo il testo unificato predisposto dal Comitato ristretto della Commissione Affari sociali della Camera dei deputati”.

(17) Vedi quanto è stato da noi scritto in precedenza sull’aumento dei livelli di autonomia delle persone anziane. A nostro avviso un settantenne di oggi non può essere paragonato ad un individuo della stessa età dell’inizio del secolo: appare più aderente alla realtà confrontare un settantenne di oggi con un cinquantenne del 1900. Inoltre, occorrerebbe che finalmente l’inizio della vecchiaia venisse spostato dagli attuali 65 anni, stabiliti dal progetto obiettivo “Tutela della salute degli anziani”, ai 75.

(18) Cfr. la nota 14.

(19) Lester Milton Salamon ha, invece, richiesto «certezza del diritto» per la «collocazione giuridica del settore non profit».

(20) Cfr. “Gli utenti dei servizi assistenziali: persone o merce”, Prospettive assistenziali, n. 102, maggio-giugno 1993.

(21) È scontato che vi sono differenze sul piano economico e sociale a seconda dell’organismo preposto alla gestione degli interventi, ma è altresì vero che non si riscontrano le tanto reclamizzate differenze dei costi a parità della qualità delle presta­zioni.

(22) Cfr. la Rivista del volontariato, novembre 1997.

(23) Cfr. F. Santanera e A.M. Gallo, “Volontariato - Trent’anni di esperienze: dalla solidarietà ai diritti”, UTET Libreria, Torino, 1998.

(24) Al 31 dicembre 1960 i minori ricoverati in istituti a carattere di internato erano 310.326, gli anziani 107.617, gli handicappati psichici adulti 6.902, 5.913 adulti, 2.964 disabili sensuali e 1.796 handicappati fisici.

(25) Riportiamo la lettera apparsa su La Stampa del 7 dicembre 1996: «Il mio convivente ed io lavoriamo presso una cooperativa sociale, perché considerati “disagiati” con uno stipendio ai limiti della sopravvivenza: ogni nostra ora lavorativa viene retribuita un terzo di ciò che la cooperativa percepisce per il nostro operato. Riusciamo a stento ad arrivare alla fine del mese. A parte tutto ciò i dirigenti di alcune cooperative (fra i quali anche ex tossicodipendenti) fanno eseguire lavori presso le loro abitazioni pagando non di tasca loro come sarebbe giusto, ma detraendo l’importo dal fondo cassa e, di conseguenza, dalle tasche dei soci stessi. Alcune cooperative invece di facilitare il reinserimento nella società di chi ha deciso di cambiare vita, lo sfruttano e non lo tutelano. Ma perché nessuno interviene?

«Perché dobbiamo essere considerati per sempre disagiati, a rischio, ex e cose di questo genere? Eppure i nostri sforzi per uscire dalla spirale della droga sono stati enormi. Questo mi spaventa perché a 40 anni, dopo quasi 20 anni vissuti ai margini della società, desidero crearmi una vita normale, da persona, non da ex».

(26) Cfr. l’articolo “Perché tanto scandalo - Denunciamo i ricatti delle false cooperative” di Aldo Amoretti, Segretario generale della Federazione italiana lavoratori del Commercio, aziende, mense e servizi - FILCAMS-CGIL, apparso su l’Unità del 16 agosto 1997. A sua volta, Ernesto Dalle Rive, presidente della Legacoop del Piemonte, ha dichiarato che occorre non permettere più che il nome delle cooperative «venga infangato da concorrenti sleali, che sottopagando i soci-lavoratori e abusando dello strumento cooperativo, riescono ad offrire servizi a costi bassissimi».

(27) Cfr. “Se è un’azienda a inventarsi l’ONLUS - Un lettore scandalizzato: le imprese creano enti non profit per averne vantaggi commerciali”, Vita, 2 aprile 1999.

(28) Cfr. la nota 7.

(29) Cfr. G. Tabet, “Il non profit e chi può approfittarne”, Prospettive assistenziali, n. 113.

(30) Cfr. M.G. Breda e F. Santanera, “Handicap: oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte, UTET Libreria, Torino, 1995.

(31) Segnaliamo la condanna a 13 anni di reclusione inflitta per pedofilia ad un educatore dal Tribunale di Milano in data 25 gennaio 1999. Cfr. Prospettive assistenziali, n. 125.

 

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