Prospettive
assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999
Intesa fra il governo e il forum del terzo settore per
l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di autodifesa
Da vent’anni (1) sosteniamo che,
ad esclusione dei bambini adottabili senza gravi minorazioni, i cittadini
totalmente incapaci di autodifendersi e non tutelati da congiunti o da altri
soggetti (anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer e altre
persone colpite da demenza senile, pazienti psichiatrici e handicappati
intellettivi con limitatissima o nulla autonomia) vengono sistematicamente
esclusi dal contesto sociale mediante il loro ricovero in strutture
assistenziali (case di riposo e altri istituti) in cui spesso non ricevono le
necessarie cure sanitarie e le altre indispensabili prestazioni. A causa del
disinteresse delle istituzioni, succede anche che il trasferimento dal
manicomio in una comunità peggiori notevolmente le condizioni di vita dei
ricoverati (2).
Per quanto riguarda i soggetti
con limitata capacità di autotutela e, anche in questo caso, senza congiunti o
altri (ad esempio, volontari) che ne difendano esigenze e diritti, il Governo e
il Forum del Terzo Settore (3) hanno sottoscritto un protocollo di intesa, il
cui testo è riportato in questo numero.
Una delle caratteristiche
salienti dell’accordo è il riconoscimento ufficiale, da parte del Governo, del
Terzo Settore quale soggetto politico, sociale ed economico in grado sia di «corrispondere in modo efficace alla domanda
insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al diffuso bisogno di “beni
relazionali” necessari per la convivenza civile e la coesione sociale», sia
di incentivare «l’occupabilità dei
lavoratori svantaggiati».
Dunque, per garantire «la convivenza civile e la coesione sociale»
il Governo e il Terzo Settore non puntano sulla prevenzione del bisogno e del
disagio, e non riconoscono la necessità di una reimpostazione dei servizi
fondamentali (lotta all’evasione scolastica, cure sanitarie anche ai malati
inguaribili, adeguamento delle pensioni minime, ecc.). Inoltre, alle persone svantaggiate,
comprese quelle in grado di assicurare un rendimento lavorativo uguale a quello
degli altri lavoratori, il Governo e il Terzo Settore non si impegnano per la
loro occupazione nelle normali aziende, ma hanno deciso la loro emarginazione
presso le cooperative cosiddette sociali (4).
In sostanza, il Governo e il
Forum hanno stabilito di dare attuazione alla proposta avanzata da Pellegrino
Capaldo (5), il quale, dopo aver premesso che bisognava abbandonare «la strada degli obblighi e dei vincoli che
spesso hanno il solo risultato di ridurre la competitività delle aziende»
(6), affermava quanto segue: «Penso ad
una diversa disciplina delle “categorie protette” che consenta alle imprese di
scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un organismo
produttivo che dia lavoro a quelle “cate-gorie”» (7).
La proposta emarginante della
Fondazione italiana del volontariato non si rivolgeva solo alle persone con
handicap, comprese – lo ripetiamo – quelle con piena capacità
lavorativa, ma si estendeva anche ai soggetti “svantaggiati”. Al riguardo il
Capaldo aveva chiesto «l’allargamento
della nozione di “soggetto svantaggiato” rispetto a quella prevista dalle norme
sulle cooperative sociali», nonostante che il concetto di svantaggiato
fosse, allora come oggi, esteso in misura assolutamente ingiustificata dal
punto di vista produttivo e soprattutto contrastasse e contrasti nettamente con
il riconoscimento della dignità della persona e con il diritto di tutti gli
individui al loro più completo sviluppo personale e al miglior inserimento
possibile nella società.
In realtà, il termine di
svantaggiato non viene definito con criteri oggettivi, con il preciso intento
che così possono essere considerati tali non solo i soggetti deboli, ma anche
tutti coloro che sono ritenuti “diversi” per i più svariati motivi, senza che
vi sia alcun obbligo di fornire motivazioni verificabili.
Si osservi, a questo proposito,
che la legge 8.11.1991 n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali” considera
in modo massificante tutti i soggetti svantaggiati, senza tenere in
considerazione la loro autonomia personale e le loro capacità lavorative.
Infatti l’art. 4 della legge
suddetta stabilisce che «si considerano
persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti
di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i
tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di
difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla
detenzione previste dagli articoli 47, 47 bis, 47 ter e 48 della legge
26.7.1975, n. 354, come modificati dalla legge 10.10.1986, n. 663. Si
considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, con il
Ministro dell’interno e con il Ministro per gli affari sociali, sentita la
Commissione centrale per le cooperative istituita dall’articolo 18 del citato
decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14.12.1947 n. 1577, e
successive modificazioni».
Tenuto anche conto del
preoccupante numero dei giovani disoccupati, non appare giustificabile la
proposta dell’intesa Governo-Terzo Settore «di
introdurre un trattamento fiscale specifico che consenta lo svolgimento di
attività lavorative d’utilità sociale in organizzazioni del Terzo Settore da
parte di anziani pensionati detentori di redditi medio-bassi assoggettando i
corrispettivi da essi percepiti ad una tassazione ad aliquota fissa a titolo di
imposta esaustiva di ogni obbligo anche assicurativo, e senza che questi siano
cumulabili con altri redditi» (8).
In altre parole, la proposta è di
introdurre una forma autorizzata di pseudo lavoro nero!
Nell’accordo intervenuto fra
Governo e Terzo Settore è anche prevista la convocazione di una Conferenza
nazionale sui problemi della popolazione anziana, preludio – a nostro
avviso – ad un intervento del Terzo Settore nel campo dei soggetti malati
cronici non autosufficienti, con la conseguenza di accentuare la
caratterizzazione assistenzialistica degli interventi, nonostante la necessità
prioritaria delle prestazioni sanitarie (9).
Analoghe considerazioni valgono
per l’accordo intervenuto fra il Governo e il Terzo Settore in merito alla
decisione di «riorientare, senza
estenderne l’ambito, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità anche
verso azioni di sostegno del Terzo Settore», anche perché riteniamo
praticamente irrealizzabile l’obiettivo «di determinare
non una nuova area di assistenza e di parcheggio, ma interventi flessibili e
mirati volti a un inserimento effettivo nel mercato del lavoro di disoccupati
di lungo periodo». Infatti, com’è universalmente riconosciuto, una delle
esigenze fondamentali per l’inserimento lavorativo non è la permanenza più o
meno lunga in un’area qualsiasi, ma il possesso di una adeguata formazione
professionale, formazione che deve essere fornita dalle apposite strutture
specialistiche.
L’autopromozione del Terzo Settore
L’intesa sottoscritta dal Governo
e dal Terzo Settore rappresenta la tappa di un percorso avviato da alcuni anni.
Anche se numerose sono state le
iniziative autopromozionali del Terzo Settore, dirette ad ottenere dal Governo
e dal Parlamento più ampi spazi ed agevolazioni di natura economica per la
gestione degli interventi di emarginazione (10), ci limitiamo a presentare
quelle più significative.
La ricerca effettuata nel 1993 da
McKinsey & Company
In primo luogo va osservato che
la ricerca è stata svolta dalla società McKinsey & Company in
collaborazione con il Consorzio nazionale della cooperazione di solidarietà
sociale, il gruppo più importante del Terzo Settore (11).
Secondo gli autori dell’indagine,
le persone svantaggiate in Italia ammonterebbero a circa il 6,8 per cento della
popolazione, e cioè 3 milioni e 900 mila; il 3,3 per cento degli abitanti non
sarebbero in grado di provvedere ai propri bisogni perché non autosufficiente
(12): 810 mila “anziani bisognosi di assistenza” (13), 650 mila “portatori di
handicap fisico e mentale”, 270 mila “malati di mente”, 110 mila “malati
terminali” e 150 mila “utilizzatori di droghe” (alcolisti e tossicodipendenti)
per un totale di 1 milione e 900 mila soggetti. Gli autosufficienti
svantaggiati (il 50 per cento dei “malati di mente”, il 75 per cento degli
“utilizzatori di droghe”, 55 mila “minori con problemi di adattamento” e 1
milione 150 “carcerati in semilibertà o
ex, poveri, senza tetto, immigrati, oltre a disoccupati di lungo periodo”)
rappresenterebbero il 3,5 per cento della popolazione.
I ricercatori della Società
McKinsey, non tenendo conto che, contemporaneamente al prolungamento della
durata media della vita, si è verificato un notevole incremento dei livelli di
autonomia, ripetono il vecchio e ormai logoro luogo comune secondo cui «il bisogno di assistenza extra-familiare è
destinato ad aumentare, perché i nuclei familiari si stanno restringendo (14), perché si allunga la vita media e perché
alcuni tipi di svantaggio sono tipicamente senili o peggiorano con l’età».
Nell’indagine in oggetto viene
notevolmente drammatizzata la situazione: si arriva ad affermare che il
problema degli anziani bisognosi di assistenza sarebbe “esplosivo”, mentre è
noto che negli ultimi anni c’è stata una notevole riduzione delle richieste di
assistenza da parte degli anziani totalmente o parzialmente autosufficienti,
sia per l’aumento dei livelli culturali e il miglioramento delle condizioni
economiche, sia per gli effetti positivi della predisposizione, seppur ancora
gravemente carente, di prestazioni e servizi alternativi al ricovero.
Resta, invece, drammatica
– e lo ripetiamo da anni – la questione delle cure sanitarie per gli
anziani colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza: questione che
investe il settore sanitario.
Anche altre valutazioni della
McKinsey non sono assolutamente condivisibili. Ad esempio, quelle relative al
previsto ma non dimostrato aumento dei malati di mente e dei portatori di
handicap. Ma è soprattutto preoccupante che nei riguardi delle persone svantaggiate
venga indicato che i «bisogni di
sussistenza» sono quelli più importanti, mentre le esigenze primarie, per
questi soggetti, come per tutti i cittadini, riguardano la salute, la casa,
l’istruzione, il lavoro, la cultura, ecc.
A nostro avviso va, inoltre,
precisato che, se non si punta all’emarginazione dei più deboli, ad esempio dei
malati cronici non autosufficienti, la fascia delle persone con esigenze di
assistenza sociale, perché incapaci di provvedere a se stesse, è assai limitata
e non supera il 2-3 per cento della popolazione (15), percentuale notevolmente
inferiore alla cifra del 6,8% ipotizzata dalla McKinsey.
L’impostazione assistenzialistica
dei problemi e delle soluzioni è particolarmente presente nella ricerca in
oggetto non solo in merito agli anziani, compresi quelli non autosufficienti,
ma anche nei riguardi dei portatori di handicap.
A nostro avviso sono anche
decisamente fuorvianti e unidirezionali le indicazioni sulla diversa efficacia
dei servizi che riportiamo testualmente dalla ricerca:
– pubblico «Ampia
diffusione del servizio, ma con elevati costi di intermediazione, senza
verifica qualità del servizio fornito»;
– profit «Caratteristiche
di rapidità, flessibilità e qualità del servizio, ma approccio focalizzato sul
profitto e quindi selettivo su servizi e clientela»;
– nonprofit «Approccio
finalizzato al soddisfacimento delle esigenze dell’utente (perciò
tendenzialmente innovativo), personalizzato e flessibile (finalità
solidaristica), ma scarsamente diffuso e poco conosciuto».
Il rapporto del CNEL
Sulla stessa linea
assistenzialistica degli interventi per le persone in difficoltà della ricerca
testè esaminata, si pone il rapporto “Il ruolo degli organismi non profit nel settore assistenziale”
elaborato dal CNEL, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, in data 21
aprile 1998.
Nel documento, redatto su
richiesta della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati (16), non
c’è una sola parola sulla prevenzione del bisogno assistenziale e sulle
conseguenti iniziative da assumere a livello nazionale, regionale e locale da
parte delle istituzioni pubbliche e private.
A parte i soliti luoghi comuni
sulla «esigenza di contenimento della
spesa pubblica» (che in materia di assistenza sociale è fra le più basse
dei paesi industrializzati), sulla «progressiva
senilizzazione della popolazione» (17), del restringimento della famiglia
(18), nel rapporto del CNEL non c’è neanche un cenno ai diritti delle persone
in difficoltà, nemmeno quelli sanciti da leggi in vigore.
Nella ricerca è segnalato che «i settori assistenziali nei quali è,
dunque, ipotizzabile il raggiungimento da parte degli organismi non profit, di
una posizione significativa possono, così, essere individuati: nelle case di
riposo e abitazioni protette, negli asili nido, nei settori assistenziali
innovativi (assistenza domiciliare agli anziani, istituti per anziani e
handicappati, servizi a persone affette da problemi sanitario-sociali,
consultori per alcolisti e tossicodipendenti, istituti per minori in stato di disagio,
servizi di pasti a domicilio, consultori familiari)». Si osservi che i
ricercatori del CNEL non soltanto inseriscono gli asili nido fra le strutture
assistenziali (e non fra i servizi educativi), ma ripropongono addirittura gli
istituti assistenziali per anziani, handicappati e minori come se fossimo
ancora negli anni ’60-’70.
Per quanto riguarda gli anziani
non autosufficienti, non possiamo tacere sul fatto che i ricercatori del CNEL
in un altro rapporto redatto per la Commissione Affari sociali della Camera dei
deputati nella stessa data di quello sopraricordato, avevano esplicitamente
richiesto che la competenza ad intervenire venisse assegnata all’assistenza.
In sintesi possiamo affermare che
quest’altro documento presenta le seguenti gravissime e pericolose
caratteristiche negative:
a) non
prende in esame le condizioni delle persone “non autosufficienti”, non tenendo
conto (volutamente?) che i soggetti presi in esame sono colpiti da malattie o
da loro esiti (cancro, demenza, ecc.) e quindi necessitanti di cure sanitarie,
spesso intensive;
b) ignora
totalmente – il che è incomprensibile e ingiustificato sul piano etico,
giuridico e scientifico – le vigenti disposizioni di legge che fin dal
1955 riconoscono il diritto degli anziani cronici non autosufficienti alle cure
sanitarie, senza limiti di durata, comprese – occorrendo – quelle
praticate in ospedale e in altre strutture sanitarie (ad esempio, le RSA -
residenze sanitarie assistenziali);
c) propone
la creazione di un fondo speciale per l’assistenza ai non autosufficienti,
ignorando (intenzionalmente?) che tale risorsa esiste dal 1978 (Fondo sanitario
nazionale) e che a questo fondo i lavoratori hanno versato e versano i
contributi aggiuntivi stabiliti dal Parlamento con la legge 692/1955 proprio allo
scopo di garantire senza limiti di durata le cure sanitarie anche ai vecchi
colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza, contributi aggiuntivi
non soppressi da leggi successive.
L’audizione del direttore della Johns HopKins University
Molto inquietante è stata la posizione espressa
dal direttore della Johns HopKins University (USA), Lester Milton Salamon,
nell’audizione svoltasi su richiesta della Commissione Affari sociali della
Camera dei Deputati il 5 novembre 1997.
Infatti, non solo non ha mai
detto una sola parola sulle esigenze e sui diritti degli utenti dei servizi ma,
come se si trattasse di persone totalmente incapaci, è arrivato al punto di
affermare che le organizzazioni non profit «non
si limitano ad erogare servizi ma sono anche dei veicoli per dare voce e
autorità alle persone» (19). Peccato che finora il Terzo Settore non abbia
avviato iniziative concrete per l’affermazione e il rispetto dei diritti della
fascia più debole della popolazione, in particolare di coloro che non sono in
grado di autodifendersi.
Secondo Salamon «le organizzazioni non profit possono dare
un importante contributo alla soluzione dei problemi del Welfare nelle società industriali avanzate, ma
devono farlo come partner dello
Stato, sostituendosi ad esso», sostituzione che è possibile (ma certamente
non auspicabile) solamente se riguarda attività di emarginazione dei più
deboli.
Nella sua lunga esposizione, il
direttore della John HopKins University non ha portato un solo esempio di
intervento del Terzo Settore a difesa delle esigenze e dei diritti della fascia
più debole della popolazione nei vari Paesi in cui ha analizzato la situazione
(Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Svezia, Ungheria e
Giappone).
Per quanto riguarda il finanziamento delle
campagne elettorali negli Stati Uniti, Salamon ha ammesso che «organizzazioni non profit effettivamente
sono state coinvolte nello scandalo, perché uno dei modi per aggirare le leggi
in materia di controllo della spesa elettorale è proprio quello di costituire
una organizzazione non profit, inviare ad essa i contributi e poi riciclare i
fondi per la campagna elettorale».
Le proposte del
Forum
A scanso di equivoci, ricordiamo
che siamo sempre stati favorevoli alla cooperazione sociale, quella autentica,
e che abbiamo promosso la costituzione di alcune cooperative sociali negli anni
’70.
Rammentiamo anche le iniziative
assunte a difesa delle cooperative quando l’Amministrazione comunale di Torino
aveva deciso di indire gare di appalto al massimo ribasso per 17 comunità
alloggio per adolescenti e 5 per handicappati adulti, nonché 14 servizi di
appoggio a minori e 11 di assistenza educativi, servizi che complessivamente
riguardavano circa 1300 persone (20).
Premesso quanto sopra, dobbiamo
dire che le nostre perplessità sull’attuale impostazione del Terzo Settore,
purtroppo, trovano puntuale conferma anche nel documento approvato dal
Consiglio nazionale del Forum il 21 novembre 1997.
Non ci sembra accettabile, in
primo luogo, che il Forum del Terzo Settore (o qualsiasi altro organismo) possa
rivendicare «un ruolo da protagonista e
di interlocutore primario (...) nel
percorso di costruzione e affermazione» di un nuovo Stato sociale, in
quanto tutte le organizzazioni di interesse collettivo hanno pari dignità,
indipendentemente dal fatto di aver o non aver aderito al Forum.
Inoltre, è semplicistico e
soprattutto fuorviante sostenere che «lo
sviluppo di un forte Terzo Settore, in una società moderna va perseguito e
promosso anche perché rappresenta da questo punto di vista un modo di
sviluppare e rafforzare una “appartenenza sociale” per soggetti che rischiano o
vengono esclusi dalle reti più forti di cittadinanza contribuendo per questa
via a costruire o ricostruire meccanismi di collegamento fra inclusi ed esclusi,
tra aree forti e aree deboli della società e del Paese».
Com’è noto da moltissimi decenni,
per realizzare veramente l’appartenenza sociale, è indispensabile intervenire
prioritariamente a livello preventivo. Infatti, è ovvio che se i settori della
sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e gli altri ambiti di
intervento sociale espellono le persone più deboli, si dilaterà l’area
dell’emarginazione. Di conseguenza l’assistenza, come l’esperienza insegna,
assume la connotazione di contenitore di emarginati e di esclusi, siano i
servizi gestiti dal settore pubblico, dal privato speculativo o dal Terzo
Settore non profit (21).
A questo riguardo, tanto per fare
qualche esempio, non risulta che finora il Forum del Terzo Settore si sia
attivato per:
– contrastare l’esclusione degli
handicappati dalla scuola pubblica e privata dell’obbligo;
– far sì che i soggetti in
possesso della necessaria capacità lavorativa vengano assunti dalle normali
aziende pubbliche e private;
– evitare che gli anziani malati
cronici non autosufficienti non vengano estromessi dalla competenza del
Servizio sanitario nazionale;
– ottenere la chiusura degli
istituti di ricovero, previa istituzione dei servizi alternativi.
Perché il Forum del Terzo Settore
non sostiene quanto previsto dalla Costituzione e cioè che l’assistenza deve
intervenire solamente nei confronti di coloro che sono privi di mezzi economici
e incapaci di provvedere alle loro esigenze? Perché non interviene affinché
anche agli assistiti vengano fornite adeguate prestazioni da parte della
sanità, della scuola, della casa, della previdenza e degli altri settori di
interesse comunitario?
A questo riguardo occorre
interrogarsi sul significato da attribuire alla mancanza di qualsiasi
opposizione reale da parte del Forum al ruolo di contenitore delle persone
deboli, escluse dal contesto sociale, attualmente svolto dall’assistenza.
Nell’articolo “Gratuità,
volontariato e settore non profit” (22), Mons. Nervo afferma quanto segue: «C’è frequentemente negli enti pubblici
– Comuni, USL, Regioni – la tendenza a scaricare sul Terzo Settore la
gestione dei servizi, soprattutto quelli più impegnativi e più scomodi,
attraverso i vari strumenti che la normativa offre: convenzioni, appalti al
prezzo più basso, appalti concorso. La conseguenza è che il Terzo Settore
rischia di diventare il gestore privato del denaro pubblico, completamente
dipendente dal pubblico (chi paga comanda), una specie di parastato o di
“parassita” dello Stato».
Mentre Mons. Nervo ritiene che «questo rischio si supera se la società
civile contribuisce anche con altre risorse spontanee alla realizzazione dei
servizi alla persona», a noi sembra che dalla caduta della partecipazione
degli anni ’70, non vi siano più sufficienti forze di base che intervengano per
la difesa dei diritti delle persone più deboli.
Siamo ritornati alla situazione
degli anni ’60 in cui la stragrande maggioranza del volontariato operava con
azioni consolatorie, dirette a rendere più tollerabile l’emarginazione, non per
prevenirla o per superarla (23). Anzi, in quel periodo la stragrande
maggioranza del volontariato non solo non si opponeva alla politica di
internamento dei minori, ma aveva contrastato l’approvazione della legge
sull’adozione e la sua applicazione.
Non si può nemmeno tacere sul fatto
che negli anni ’60 i gestori delle più importanti strutture dell’assistenza (e
cioè gli istituti di ricovero per minori, per handicappati e per anziani) erano
enti non profit (IPAB, istituzioni religiose, fondazioni, ecc.) (24): anche da
parte loro le resistenze contro le innovazioni furono estremamente rilevanti.
Certamente non si può fare di
ogni erba un fascio, ma i nostri riferimenti sono tratti da situazioni
oggettive, facilmente verificabili.
Considerazioni
conclusive
1. A nostro avviso il Terzo
Settore dovrebbe dimostrare con atti concreti che le attività svolte sono
conformi ai diritti degli utenti. Ad esempio, viola il diritto delle cure
sanitarie degli utenti la gestione di strutture facenti capo all’assistenza
destinate agli anziani malati cronici non autosufficienti.
2. Le cooperative, in particolare
quelle sociali, devono essere autentiche, caratterizzate cioè dalla consistente
presenza di soci che svolgono la duplice funzione di dirigenti e di lavoratori.
Troppe sono le cooperative fasulle, create solo allo scopo di ottenere commesse
di lavoro.
3. Per quanto riguarda il
personale, è grave che non sia ancora risolto il problema dei soci-lavoratori
ai quali, in base alla legge 381/1991 «non
si applicano i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro
subordinato ed autonomo». Ne deriva che ai soci lavoratori possono essere
corrisposti “stipendi” anche in misura inferiore al 50% degli importi stabiliti
dai contratti collettivi di lavoro.
Le conseguenze sono gravissime:
– lo sfruttamento incivile dei
soci-lavoratori (25);
– la più che comprensibile demotivazione
nello svolgimento delle mansioni assegnate;
– una inaccettabile turnazione del personale, il
quale – evidentemente - lascia la cooperativa non appena trova un lavoro
meglio retribuito, con conseguenze certamente negative e spesso disastrose per
gli utenti, soprattutto quelli ricoverati presso strutture residenziali.
Le comunità alloggio per minori e
quelle per handicappati adulti hanno valenze positive solamente se i rapporti
fra gli utenti e gli operatori sono stabili. Se il personale cambia troppo
frequentemente, non si può più parlare di legami educativi, ma di semplice
badanza con le ovvie nefaste ripercussioni sull’utenza. Finalmente anche i
Sindacati si sono mossi. Ad esempio, è stata denunciata «la patologia costituita dal dilagare di cooperative false»
operanti in particolare nel campo dell’assistenza sociale che «possono non applicare i contratti e pagare
meno oneri sociali» (26).
4. Occorre tener presente il «numero consistente di aziende che generano
ONLUS (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) per ottenere appalti o
quote di mercato che altrimenti non le avrebbero viste protagoniste» (27).
Questa situazione è destinata ad avere un’espansione assai rilevante a seguito
dell’approvazione della legge 68/1998 sul collocamento obbligatorio al lavoro
(28).
5. Riteniamo, altresì, necessaria
e urgente la definizione di norme precise sulle condizioni che devono essere
soddisfatte affinché una organizzazione possa essere definita “non profit”. Al
riguardo occorre ricordare che il nostro ordinamento consente che le
organizzazioni non profit possano svolgere attività lucrative (29). Un esempio
significativo è quello del Cottolengo di Torino che alcuni anni or sono acquistò
per 40 miliardi gli alberghi di lusso di Ischia, già di proprietà Rizzoli.
6. Come abbiamo più volte (e finora inutilmente
rilevato) la scelta degli operatori e degli altri addetti ai servizi per le
persone, in particolare quelli incapaci di autodifendersi, è una condizione di
fondamentale importanza per una idonea qualità della vita degli assistiti (30).
Per raggiungere questo obiettivo è altresì
necessario evitare per quanto possibile che venga assunto personale con gravi
disturbi della personalità. Infatti, gli handicappati intellettivi gravi, i
dementi senili, ecc. non sono in grado né di reagire alle violenze subite, né
di segnalarle.
È pertanto necessario che tutti gli operatori,
prima di essere assunti per lo svolgimento di attività sia-
no sottoposti, con tutte le garanzie di riservatezza del caso, a un esame
approfondito della loro personalità (31).
Centri scientificamente riconosciuti validi,
scelti di comune accordo dagli enti e dai sindacati dei lavoratori, dovrebbero
essere incaricati di rilasciare una dichiarazione attestante che l’operatore è
adeguato per le caratteristiche della sua personalità e per la sua
professionalità, a svolgere determinate attività con soggetti non
autosufficienti.
Ovviamente dovrebbe essere
garantita la totale riservatezza nei confronti di coloro che non ottenessero la
suddetta certificazione, riservatezza totale anche nei riguardi dell’ente che
li ha indirizzati, al quale nulla deve essere comunicato né direttamente né
indirettamente, a esclusione di quanto scritto nella certificazione consegnata
direttamente a ciascun operatore ritenuto idoneo.
7. Anche al fine di verificare la
consistenza delle finalità solidaristiche delle cooperative sociali, è
necessario valutare quali siano i loro rapporti con le organizzazioni
dell’utenza e con i gruppi di volontariato soprattutto per quanto riguarda gli
obiettivi perseguiti e le concrete attività svolte.
Inoltre, sarebbe estremamente positiva e molto
significativa la presenza nei collegi sindacali delle cooperative di almeno un
rappresentante delle associazioni di utenti e dei movimenti di volontariato.
Quale esempio significativo di cooperative
falsamente sociali vanno segnalate quelle che obbligano i parenti di assistiti
a diventare soci, versando non solo la quota sociale ma anche un consistente
deposito infruttifero. Approfittando dello stato di necessità del congiunto, i
familiari sono costretti anche ad accettare condizioni capestro in merito agli
oneri economici a loro carico. Le suddette cooperative si riservano inoltre il
potere discrezionale di dimettere i soggetti ricoverati.
Per evitare questi e altri
gravissimi abusi occorrerebbe che i regolamenti riguardanti le condizioni di
ammissione, dimissione e permanenza degli utenti fossero sempre sottoposti
all’approvazione dei Comuni singoli e associati se si tratta di persone
assistite e dalle ASL nei casi di soggetti malati.
(1) Cfr.
“Un nostro grido di allarme di vent’anni fa purtroppo ignorato”, Prospettive assistenziali, n. 124,
ottobre-dicembre 1998.
(2) Cfr.
Pier Luigi Donetti, “Il manicomio chiuso a Collegno (Torino) riapre altrove -
Cristalli al posto dei muri - Denuncia: venti ospiti dell’ospedale psichiatrico
finiti sotto chiave a Bessolo di Ivrea”, Corriere
di Rivoli, Collegno e Grugliasco, 23 aprile 1999.
(3)
Fanno parte del Forum permanente del Terzo Settore: ACLI, ADA, ADICONSUM,
AGESCI, AiBi, AICS, ANOLF, ANPAS, ANSI, ANTEA, ARCI, ARCIRAGAZZI, Associazione
Ambiente e Lavoro, Associazione per la Pace, Associazione Nazionale Centri
Sociali, Comitati Anziani e Orti, AUSER, AVIS, CILAP, CIPSI, CISP, CNCA, CNV,
COCIS, Comunità di Capodarco, Conferenza dei Presidenti delle Associazioni e
delle Federazioni di Volontariato, CSI, CTG, CTM, CTM-MAG, CTS, ENDAS, EVAN,
Federazione Compagnia delle Opere non profit, Federsolidarietà-Confcooperative,
FIMIV, FITEL, FITUS, FIVOL, Volontari nel mondo - FOCSIV, Fondazione Cesar,
Fondazione Exodus, Legambiente, LILA, Mani Tese, MFD, MOVI, Movimento di Difesa
del Cittadino, MOVIMONDO, PGS, Servizi Civili e Sociali, Settore delle
Cooperative sociali della ANCST - Lega, UISP, US, ACLI e VIS. Aderiscono come
osservatori: AGE, Agenzia Mediterranea, AIMPA, Associazione per i diritti del
pedone e utenti del trasporto pubblico, CGDES, CNESC, CNOS, Federconsumatori,
FICT, Gruppo Abele, MAG 3 FInance, SOS razzismo.
A nostro
avviso dovrebbero far parte del Terzo Settore solamente i soggetti privati che
producono beni. Non dovrebbero pertanto esservi incluse né le organizzazioni di
volontariato che, fra l’altro, hanno anche il compito di vigilare sul rispetto
dei diritti degli utenti da parte di tutti gli enti gestori di servizi, né le
IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, dato che si tratta di
enti pubblici.
(4)
Nell’accordo non sono nemmeno indicate le iniziative da assumere per il
passaggio dei lavoratori idonei dalle cooperative alle normali aziende private
e pubbliche.
(5) La
proposta era stata fatta dal Capaldo nella sua funzione di Presidente della
Fondazione italiana del volontariato e della Banca di Roma. Ricordiamo che la
Fondazione italiana del volontariato è stata istituita dalla Banca di Roma con
uno stanziamento iniziale di 18 miliardi.
(6) Cfr.
il n. 6, giugno 1995 della Rivista del
volontariato, edita dalla Fondazione italiana per il volontariato.
(7)
Questa facoltà di scelta da parte delle aziende è stata purtroppo inserita
nella legge 12 marzo 1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”,
riportata integralmente nel n. 126 di
Prospettive assistenziali ed ivi commentata da M.G. Breda. La facoltà di
scelta è stata attivamente sostenuta dal Forum del Terzo Settore. Cfr. Avvenire del 16 settembre 1998.
(8) Da
notare che, ancora una volta, si fa riferimento solo ai redditi e non anche ai
patrimoni posseduti.
(9) In
seguito verranno portati altri elementi a sostegno della nostra ipotesi.
(10)
Numerose ed importanti agevolazioni sono state concesse al Terzo Settore con il
decreto legislativo n. 460/1997 sulle ONLUS, organizzazioni non lucrative di
utilità sociale. Ricordiamo, altresì, che in base all’art. 4 della legge
381/1991, «le aliquote complessive della
contribuzione per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale
dovute dalle cooperative sociali, relativamente alla retribuzione corrisposta
alle persone svantaggiate di cui al presente articolo, sono ridotte a zero».
L’esenzione dai contributi suddetti riguarda anche le persone svantaggiate con
piena capacità lavorativa.
(11) Il
documento conclusivo della ricerca con il titolo “Comprendere le esigenze della
solidarietà sociale e il ruolo della cooperazione sociale” è stato pubblicato
su Impresa sociale, n. 16, 1994.
(12)
Facendo solo riferimento alla non autosufficienza, ne deriva che, anche per i
ricercatori della McKinsey & Company, non si tratterebbe di persone malate.
(13) Fra
virgolette sono riportate le definizioni della ricerca.
(14) Non
si tiene in considerazione che la famiglia si è estesa poiché è aumentato il
numero delle generazioni (spesso almeno tre) che ne fanno parte.
(15)
Cfr. “Quantificazione delle prestazioni di assistenza sociale fornite dal
Comune di Torino nel 1998”, Prospettive
assistenziali, n. 123.
(16)
Ricordiamo che la legge di riforma dell’assistenza, o più precisamente la legge
quadro sui servizi sociali, è all’esame della Commissione Affari sociali della
Camera dei Deputati. Si veda, al riguardo, l’editoriale dello scorso numero “La
riforma dell’assistenza: pessimo il testo unificato predisposto dal Comitato
ristretto della Commissione Affari sociali della Camera dei deputati”.
(17)
Vedi quanto è stato da noi scritto in precedenza sull’aumento dei livelli di
autonomia delle persone anziane. A nostro avviso un settantenne di oggi non può
essere paragonato ad un individuo della stessa età dell’inizio del secolo:
appare più aderente alla realtà confrontare un settantenne di oggi con un
cinquantenne del 1900. Inoltre, occorrerebbe che finalmente l’inizio della
vecchiaia venisse spostato dagli attuali 65 anni, stabiliti dal progetto
obiettivo “Tutela della salute degli anziani”, ai 75.
(18)
Cfr. la nota 14.
(19)
Lester Milton Salamon ha, invece, richiesto «certezza
del diritto» per la «collocazione
giuridica del settore non profit».
(20)
Cfr. “Gli utenti dei servizi assistenziali: persone o merce”, Prospettive assistenziali, n. 102,
maggio-giugno 1993.
(21) È
scontato che vi sono differenze sul piano economico e sociale a seconda
dell’organismo preposto alla gestione degli interventi, ma è altresì vero che
non si riscontrano le tanto reclamizzate differenze dei costi a parità della
qualità delle prestazioni.
(22)
Cfr. la Rivista del volontariato,
novembre 1997.
(23)
Cfr. F. Santanera e A.M. Gallo, “Volontariato - Trent’anni di esperienze: dalla
solidarietà ai diritti”, UTET Libreria,
Torino, 1998.
(24) Al
31 dicembre 1960 i minori ricoverati in istituti a carattere di internato erano
310.326, gli anziani 107.617, gli handicappati psichici adulti 6.902, 5.913
adulti, 2.964 disabili sensuali e 1.796 handicappati fisici.
(25)
Riportiamo la lettera apparsa su La
Stampa del 7 dicembre 1996: «Il mio
convivente ed io lavoriamo presso una cooperativa sociale, perché considerati
“disagiati” con uno stipendio ai limiti della sopravvivenza: ogni nostra ora
lavorativa viene retribuita un terzo di ciò che la cooperativa percepisce per
il nostro operato. Riusciamo a stento ad arrivare alla fine del mese. A parte
tutto ciò i dirigenti di alcune cooperative (fra i quali anche ex
tossicodipendenti) fanno eseguire lavori presso le loro abitazioni pagando non
di tasca loro come sarebbe giusto, ma detraendo l’importo dal fondo cassa e, di
conseguenza, dalle tasche dei soci stessi. Alcune cooperative invece di
facilitare il reinserimento nella società di chi ha deciso di cambiare vita, lo
sfruttano e non lo tutelano. Ma perché nessuno
interviene?
«Perché dobbiamo essere considerati per sempre disagiati,
a rischio, ex e cose di questo genere? Eppure i nostri sforzi per uscire dalla
spirale della droga sono stati enormi. Questo mi spaventa perché a 40 anni,
dopo quasi 20 anni vissuti ai margini della società, desidero crearmi una vita
normale, da persona, non da ex».
(26)
Cfr. l’articolo “Perché tanto scandalo - Denunciamo i ricatti delle false
cooperative” di Aldo Amoretti, Segretario generale della Federazione italiana
lavoratori del Commercio, aziende, mense e servizi - FILCAMS-CGIL, apparso su l’Unità del 16 agosto 1997. A sua volta,
Ernesto Dalle Rive, presidente della Legacoop del Piemonte, ha dichiarato che
occorre non permettere più che il nome delle cooperative «venga infangato da concorrenti sleali, che sottopagando i
soci-lavoratori e abusando dello strumento cooperativo, riescono ad offrire
servizi a costi bassissimi».
(27)
Cfr. “Se è un’azienda a inventarsi l’ONLUS - Un lettore scandalizzato: le
imprese creano enti non profit per averne vantaggi commerciali”, Vita, 2 aprile 1999.
(28) Cfr.
la nota 7.
(29)
Cfr. G. Tabet, “Il non profit e chi può approfittarne”, Prospettive assistenziali, n. 113.
(30)
Cfr. M.G. Breda e F. Santanera, “Handicap: oltre la legge quadro - Riflessioni
e proposte, UTET Libreria, Torino,
1995.
(31)
Segnaliamo la condanna a 13 anni di reclusione inflitta per pedofilia ad un
educatore dal Tribunale di Milano in data 25 gennaio 1999. Cfr. Prospettive assistenziali, n. 125.
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