Prospettive
assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999
Un libro della comunità di capodarco: falsità e insulti
francesco
santanera
Sbalordimento e indignazione sono
state le mie prime reazioni alla lettura delle parti a me riferite del volume “La logica dell’utopia - Quando nacque la
Comunità di Capodarco”, scritto da Don Angelo Maria Fanucci e pubblicato
nell’ottobre 1998 dalla Cittadella Editrice di Assisi.
Vengono, infatti, segnalati come
avvenuti incontri ai quali non ho partecipato, e sono riportate affermazioni
che non solo non ho mai fatto, ma che in nessun momento ho condiviso e che
ritengo offensive non solo nei miei riguardi, ma anche nei confronti del buon
senso.
Le assurde affermazioni contenute nel libro della Comunità di Capodarco
1. Sono accusato di essere sceso «a Capodarco alla fine di maggio 1971, con
la precisa intenzione di provocare la Comunità» e di aver partecipato
all’assemblea svoltasi il 2 giugno 1971 (1).
Smentisco in modo categorico di
essere andato in quel periodo a Capodarco; non ho quindi partecipato
all’assemblea del 2 giugno 1971, né ho mai preso parte in nessun luogo a
riunioni in cui sia stata discussa l’attività o il futuro o altro argomento
riguardante la Comunità di Capodarco.
2. Mi sono recato a Capodarco un
anno prima della data indicata nel libro di Don Fanucci e precisamente il 16-17
giugno 1970 invitato da don Franco Monterubbianesi, fondatore della Comunità di
Capodarco. In quell’occasione avevo espresso l’auspicio che lo sviluppo (non la
morte!) dell’esperienza di Capodarco non fosse orientato alla istituzione di uno
o più villaggi per soggetti con handicap, ma fosse rivolto alla creazione di
comunità alloggio (allora chiamate “focolari”), sparse nel territorio di
appartenenza delle persone con minorazioni, che avevano l’esigenza di una
struttura abitativa e non potevano vivere a casa loro.
In questi termini avevo scritto a
Don Franco Monterubbianesi il 27 maggio 1970.
Nell’incontro del 16-17 giugno
1970 avevo anche sostenuto che era negativa l’ipotesi, sostenuta da alcuni
Capodarchiani, della creazione di una fabbrica in cui fossero inserite
prevalentemente persone con handicap, ritenendo allora (e ancora oggi) che
occorra promuovere l’inserimento dei suddetti soggetti nelle normali aziende
private e pubbliche.
Successivamente in data 22 luglio
1970, avevo inviato alla Comunità di Capodarco la seguente lettera: «Continuo ad essere estremamente preoccupato
delle Vostre intenzioni di istituire un villaggio a Roma. Ciò anche in
relazione all’ultimo ciclostilato che mi avete inviato. Al riguardo non credo
di aver altro da aggiungere a quanto francamente vi ho detto nell’incontro di
Capodarco, di cui vi ringrazio per la squisita ospitalità. Ritengo solo che,
poiché l’iniziativa del villaggio avrà ripercussioni non solo su di voi, ma su
tutti gli handicappati e sull’intera comunità italiana e forse anche non
italiana, sarebbe utile che voi raccogliate il maggior numero di pareri
eventualmente con l’invio di un questionario. Penso che, oltre ai pareri, si
potrebbe chiedere quali effettive collaborazioni la gente con cui siete in
contatto è intenzionata a dare nei confronti del villaggio, dei focolari e
dell’inserimento lavorativo e sociale. Unisco copia del n. 1-2 del notiziario
dell’AIAS in cui a pag. 59 è riferita un’esperienza molto simile a quella del
villaggio. Grazie ancora di tutto e cordiali saluti».
3. Mai ho sostenuto e nemmeno
pensato che bisognasse «seppellire
Capodarco», né ho mai dichiarato in tutta la mia vita che «le potenzialità rivoluzionarie della
Comunità di Capodarco erano enormi».
Assolutamente inventate sono le
parole che mi sono attribuite da Don Fanucci, addirittura riportate fra
virgolette: «Abbiate il coraggio di
essere quello che siete: il germe della società nuova».
4. Solo un idiota o un visionario
poteva e può sostenere che gli attivisti della Comunità di Capodarco (o di
qualsiasi altra organizzazione) «scomparendo,
come il lievito nella pasta» possano assumere il ruolo di «cellula combattente del proletariato, che
sparisce qui e ricompare più in là, dove le masse riprendono a macinare
futuro».
5. Nel libro c’è un’altra
fandonia. Nell’incontro a cui – lo ripeto – non ho partecipato, avrei
avuto un alleato. Scrive, infatti, Don Fanucci: «Con Santanera si schierò subito il Gruppo “La Pera”». Peccato che
non solo non fossi presente, ma che abbia saputo dell’esistenza del Gruppo “La
Pera” solamente leggendo il libro.
Da notare che Don Fanucci precisa
che il Gruppo “La Pera” era costituito da 5 persone. Ma come potevo mettere in
minoranza le centinaia di sostenitori della continuità della Comunità di
Capodarco alleandomi con 5 individui?
6. Altrettanto falsa è l’altra
affermazione di Don Fanucci che sostiene quanto segue: «Con Santanera si schieravano anche non pochi dei campisti migliori».
Mi scuso, ma nemmeno adesso so chi siano questi “campisti” e che cosa abbiano
fatto e facciano.
7. Le espressioni denigratorie
non sono finite. Sarei responsabile non solo della spaccatura verificatasi
nella Comunità di Capodarco (2), ma anche di aver demolito «la purezza e la vitalità» di molti giovani, mediante le «proposte come quelle di Santanera,
grandiose, ma irrealizzabili, e affascinanti proprio perché irrealizzabili», proposte
da me mai avanzate, ma inventate di sana pianta da Don Fanucci.
Sono altresì frutto
dell’immaginazione di Don Fanucci le frasi riportate nei paragrafi “Una conclusione provvisoria, uno strascico
pesante” e “Quando sconfiggemmo torti
e ragioni”, paragrafi che – lo ricordo nuovamente – sono integralmente
riportati nell’allegato 1.
Non solo non ho mai utilizzato il
tipo di linguaggio attribuitomi (ad esempio non ho mai detto in vita mia – e
nemmeno pensato – «Lo stato borghese
s’abbatte, non si cambia»), ma ho sempre agito in modo diametralmente
opposto.
8. Proprio nel periodo indicato
da Don Fanucci (1971) ero impegnato, come ho fatto fin dal 1962, quando ho
iniziato la mia attività di volontario a tempo pieno, a promuovere iniziative
insieme ad altre organizzazioni fra le quali – lo sottolineo – una delle
più attive era proprio la Comunità di Capodarco.
Fra le suddette attività,
ricordo, in particolare, la promozione e la raccolta delle adesioni per la
presentazione con iniziativa popolare della proposta di legge “Interventi per
gli handicappati psichici, fisici, sensoriali e per i disadattati sociali”,
presentata al Senato in data 21 aprile 1970 con 220 mila firme (3) e la
costituzione e le numerose azioni prodotte dal Comitato nazionale per gli
handicappati a cui aderirono, oltre al Centro Comunitario di Capodarco, le
seguenti organizzazioni: Associazione Giuriste Italiane - Lungotevere delle Armi
18, Roma; Associazione Italiana Genitori - Via Cassiodoro 15, Roma;
Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici - Via Cipro 4/h, Roma;
Associazione Nazionale Assistenti Sociali - presso C.I.S.S. - Corso Vittorio
Emanuele 252, Roma; Associazione Nazionale Donne Elettrici - Via del Corso 262,
Roma; Associazione Nazionale Educatori Gioventù Italiana Disadattata -
Lungotevere Sanzio 11, Roma; Associazione Nazionale Famiglie di Fanciulli
Subnormali - Via Chiana 110, Roma; Associazione Nazionale Invalidi Esiti di
Poliomielite - Via Borelli 7, Roma; Centro Spastici - Via Pacinotti, Pistoia;
Consiglio Nazionale delle Donne Italiane - Via E.Q. Visconti 55, Roma;
Fondazione Zancan - Riviera Tito Livio 17, Padova; Opera Nazionale Mutilati
Invalidi Civili - Piazza Sabazio 31, Roma; Servizio Civile Internazionale - Via
Tacito 50, Roma; Unione Italiana per la Lotta contro la Distrofia Muscolare -
Villa Opicina - Via Basovizza 22, Trieste; Unione Italiana per la Promozione
dei Diritti del Minore (ora Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale)
- Via Artisti 34, Torino, a cui era stata data la segreteria.
Conclusioni
Non riesco a capire i motivi
dell’attacco portato alla mia persona e al mio lavoro da Don Fanucci.
Certo è molto spiacevole essere
definito, sulla base di elementi del tutto inventati, non solo imbecille e
sprovveduto, ma anche un mestatore di zizzania, quando da 37 anni lavoro a
tempo pieno (e non pagato) per l’affermazione dei diritti della fascia più
debole della popolazione, in particolare di coloro che non sono in grado di
autodifendersi.
Allegato 1
Estratti del volume “La logica dell’utopia - Quando
nacque la comunità di capodarco” di don angelo maria fanucci (*)
1° paragrafo: “Seppellire Capodarco”
«Per
andare alla società occorre, sulla scia dell’esperienza che s’è fatta,
costruire qualcosa di integralmente nuovo. E ogni costruzione ex novo suppone la demolizione del
vecchio. E dunque seppellire Capodarco!
Capodarco ha fatto il suo tempo.
«La tesi
fu formalmente espressa da Francesco Santanera, uno di quelli che a Capodarco
erano di casa. Torinese, titolare di una piccola casa editrice alternativa che
dava battaglia su molti fronti. Secondo lui, le potenzialità rivoluzionarie
della Comunità di Capodarco erano enormi. E dunque: “Abbiate il coraggio di
essere quello che siete: il germe della società nuova!”. Scomparendo, come il
lievito nella pasta. O come una cellula combattente del proletariato, che
sparisce qui e ricompare più in là, dove le masse riprendono a macinare futuro.
L’assunzione di questa nuova, decisiva funzione imponeva a Capodarco di
celebrare il proprio funerale. Così com’è Capodarco ha fatto il suo tempo.
Bisogna cancellarlo e reinventarlo, spostandone in avanti la proiezione nel
sociale.
«Con
Santanera si schierò subito il gruppo “La Pera”. Un gruppo dai contorni labili,
cinque persone (due handicappati) fortemente critiche nei confronti della
Comunità. Dicevano: “Ha ragione Santanera, quando sostiene che Capodarco è un
ghetto!”. Coro all’unisono: “Se le cose stanno così, perché non ve ne andate?”.
Non se ne vanno perché la Comunità è anche la loro, e non sopravviverà se non
rivedendo a fondo sia l’ispirazione ideale, sia la prassi. Soprattutto la
visione repressiva della sessualità che dominava in Comunità. Il gruppo “La Pera”
era per una sessualità assolutamente libera. Ebbe vita grama e brevissima.
«La sera
del 4 ottobre 1970, in una riunione fiume, le posizioni si radicalizzarono
ulteriormente. Nonostante un ultimo, titanico tentativo di mediazione operato
da don Franco, a tutti parve che la spaccatura fosse ormai insanabile. Il
gruppo “La Pera” se ne andò a Milano. Dopo qualche mese si sciolse. Quando io
entrai a far parte della Comunità di Capodarco, queste cose erano successe da
poco tempo. Ma nessuno ne parlava con gioia, era piuttosto quello dell’amaro
rammarico il tono dei discorsi in proposito.
«Ma con
Santanera si schierarono anche non pochi dei campisti migliori.
«Per
trent’anni mi sono domandato come fu possibile che quei giovani così preparati
sposassero una tesi così estrema.
«Molti
di loro venivano da robuste esperienze di animazione e di servizio. Erano
fuochi d’artificio quando quei giovani s’incontravano per celebrare il great dream di M.L. King. E la Marcia
della Fede, organizzata dalla Pro Civitate Christiana di Assisi: nel cuore
della notte 15 km a piedi verso Siena, per L’Eucaristia in Piazza del Campo,
decine di migliaia di giovani, goliardia e slancio interiore. E la
manifestazione di Mani Tese a Roma, nel 1971: una giornata intera a gridare la
voglia di novità nella scuola. I mass
media, perduti dietro l’ennesima rimpatriata degli ideologi dello Pseudo
Sessantotto, ignoravano manifestazioni di quel genere, ma noi ne tornavamo a
casa ricaricati, e la linea del Sessantotto minore s’irrobustiva.
«Capaci
di qualsiasi sacrificio, sulla bocca di quei giovani gli slogan fantasiosi di
quegli anni (Vietato vietare!, La
fantasia al potere!, Fate l’amore, non la guerra!) avevano tutt’altro
sapore che sulla bocca dei signorini dei quartieri alti di Roma o di Milano, o
dei borsisti della Normale di Pisa, o degli assistenti di Sociologia a Trento o
di Psicologia a Padova, che puntavano esclusivamente sull’alternativa
ideologica totale, giudicavano assistenziali, revisionisti e fondamentalmente
controrivoluzionari i piccoli impegni concreti che i giovani si assumevano,
pasticciate e non politiche le associazioni e i gruppi che se ne facevano
promotori.
«A quei ragazzi la Comunità lanciava
l’appello a farsi protagonisti d’un mondo nuovo perché ri-fondato a partire
dagli ultimi.
«In
realtà quei giovani soffrivano di una forte contraddizione: quella tra la
purezza e la vitalità del loro slancio, sul quale i giorni passati a Capodarco
avevano sempre un effetto moltiplicatore, e l’atonia dell’ambiente che
ritrovavano tornando a casa e nel quale, teoricamente, quello slancio avrebbe
dovuto diventare vita, struttura, quotidianità. A Capodarco prendevano fuoco,
ma al ritorno a casa li attendeva una situazione oggettivamente soporifera:
mamme, amici, la ragazza, il prete, tutti al lavoro, per spegnere
quell’entusiasmo “tanto bello, ma un po’ infantile”. La coscienza che la realtà
modesta avrebbe avuto la meglio sul sogno magnanimo li rendeva vulnerabili di
fronte a proposte come quella di Santanera, grandiose
ma irrealizzabili, e affascinanti proprio perché irrealizzabili. Ricordo d’aver
gridato più volte a qualcuno di quei ragazzi: “Tu punti sull’impossibile perché
non ce la fai a portare avanti il possibile!”. L’impossibile più... impossibile
per i ragazzi che a Capodarco erano di casa era proprio seppellire Capodarco.
«La
Comunità non accettava di celebrare il proprio funerale; per motivi
sentimentali, perché era quella la culla di tutte le speranze; per motivi
pratici, perché il reperimento di nuove strutture era tutto da sperimentare e
perché, quali che fossero le articolazioni nelle quali in futuro si sarebbe
ridisegnata la vita comune, una struttura di sostegno alle nuove realtà era
indispensabile. Casa Papa Giovanni andava riciclata, non sepolta. Dicevano:
“L’impatto con la società avrà un suo prezzo, ed esso sarà sicuramente elevato,
ma non sarà certamente quello. Il coraggio di essere germe della società nuova?
Certo che ce l’abbiamo! Ma lo coniughiamo con la precisa coscienza del nostro
limite. Sull’orbita che proponete voi giovani, sarà già molto se riusciremo a
cantare per una sola stagione. Non siamo affatto sicuri come voi. Voi sparate a
zero, noi ci poniamo mille domande: riusciremo a realizzare un vero
‘reinserimento’, o dovremo accontentarci d’un ‘insediamento’ qualunque? Quante
energie assorbirà questa operazione? Quanto tempo impiegherà, quella società
che un giorno ci emarginò, a omogeneizzarci, fagocitarci, metabolizzarci?”.
«La
Comunità nella prospettiva politica ci credeva, ma solo con realistica
gradualità, che poteva anche prevedere tempi lunghissimi: l’importante era
cominciare a costruire il futuro che si auspicava nella propria coscienza e nei
rapporti che ognuno andava instaurando».
2° paragrafo: “Una conclusione provvisoria, uno
strascico pesante”
«Nel
momento in cui i campi di lavoro finivano, occorreva pure tirare una
conclusione!
«Il
documento che ne rende ragione, e che esprime, insieme, il pensiero della
Comunità e quello dei campisti, tra i
quali non mancavano mai i cervelloni, è fortemente disomogeneo.
«I
campisti: l’invalido dovrà adattarsi alla società, non meno di quanto la
società dovrà adattarsi all’invalido. La cosa ha più il sapore vago del chiasmo
letterario che della proposta politica.
«Cosa
vuol dire, concretamente, la società s’adatterà all’invalido?
«La
“Circolare agli amici” del settembre 1970 mette sostanzialmente in liquidazione
l’idea del Villaggio, che si riduce a
momento di passaggio in vista del
reinserimento nella società.
«I
conflitti hanno lasciato il segno. La Comunità di Capodarco s’è fatta
inopinatamente cautelosa, “saggia” di una saggezza sconosciuta in passato. La
diaspora non si può più differire, il motore dovrebbe salire su di giri. Invece
esso si raffredda. In una “Lettera agli amici” lo stabile, punto di riferimento
reperito a Roma, viene presentato come un posticino tranquillo, del quale
possiamo fare un luogo d’incontro e di relazione eccezionale. La “Lettera”
afferma: “Dobbiamo procedere per gradi”.
«Era una
conclusione provvisoria.
«Per il
chiarimento definitivo pro o contro il “Programma seppellire Capodarco”, dopo
una lunga e controversa preparazione Santanera scese a Capodarco alla fine di
maggio 1971, con la precisa intenzione di provocare la Comunità: o sì o no.
«Nell’assemblea
del 2 giugno furono fuoco e fiamme. Un botta e risposta serratissimo.
«Santanera
e i giovani ribattevano: non potete pretendere di risolvere i problemi
dell’emarginato se non prendete di petto le problematiche politiche generali. Lo stato borghese s’abbatte, non si cambia!:
lo dicono tutti!
«La Comunità:
ma il cambiamento sociale ha i suoi ritmi, ed esige una molteplicità di
contributi: non saremo certo noi a determinarlo!
«No, vi
sbagliate! Le condizioni del cambiamento ci sono tutte! L’esplosione delle
contraddizioni è imminente: manca solo la miccia. Proprio qui vi aspetta la
storia, nessuno come voi ha la possibilità di far esplodere il sistema:
dovunque andrete sorgerà un centro di cambiamento radicale, una formidabile
aggregazione di forze destinata ad espandersi incontenibilmente nel tessuto
sociale, a macchia d’olio. Basta che abbiate il coraggio di seppellire
Capodarco.
«No, vi
sbagliate voi! L’evoluzione della società non è al punto che voi dite, i ritmi
e le regole del cambiamento sociale che voi avete messo in preventivo esistono
solo nei vostri desideri; né noi siamo all’altezza di aggredire la società nei
termini che voi auspicate; seppellire Capodarco per insediarci nei quartieri e
vicino alle fabbriche vuol dire scomparire nel giro di poco tempo».
3° paragrafo: “Quando sconfiggemmo torti e
ragioni”
«La
Comunità scelse, Santanera se ne andò scrollando le spalle, la rottura fu
totale. Con lui se ne andarono la maggior parte dei giovani alle cui attese
egli aveva dato forma.
«Un
costo altissimo. Ma in gioco c’era la vera natura della Comunità di Capodarco.
Per loro la Comunità era un fatto solo
politico. La Comunità sapeva d’essere anche
un fatto politico. Fra le due concezioni c’era un abisso: quello che emerge da
tutta la nostra storia.
«Altre
volte si sarebbero riproposti nella nostra storia conflitti simili, mai però
della stessa durezza.
«Chiudo
gli occhi e mi vedo davanti splendide giovinezze ferite. Gioiose,
generosissime, ferite dalle nostre scelte. Se don Franco, o don Vinicio, o
Dionisio, o Luigi Donati, o Gianni chiudono gli occhi, ne vedono altri, più
numerosi. Sono loro che hanno stravolto la navigazione di piccolo cabotaggio
che anche io avevo messo in preventivo, quando avevo deciso di fare il prete
per benino. Tanti, intelligenti, generosi. Fra il ’68 e il ’77, a Capodarco prima,
poi a Fabriano e a S. Girolamo. Un profilo unico sotto mille volti diversi.
Puri, duri, determinati, tutti dalla parte del Vogliamo tutto, e subito.
«Ma noi,
anche nei nuovi contesti dell’avvenuta diaspora comunitaria, non potevamo
ripetere altro che il “No” di quel giugno del 1971. Depositari di una superiore
Saggezza, che non avevamo meritato e nemmeno richiesto. Io posso apostrofare
Giuliano di Livorno, Benedetto di Corridonia, Andrea di Firenze. Marisa, e
Michele, e Maurizio, ognuno di quelli che prima di me hanno fatto la Comunità
di Capodarco, potrebbero apostrofarne una fila infinita. Lo faccio io per loro.
«Ragazzi
(ché tali siete rimasti dentro di noi!), splendidi amici, possibili compagni di
strada, reagiste al nostro “No” dileguandovi. Perdonateci. Tutti insieme. Come
Pipetta con don Lorenzo. Noi pure, insieme ai vostri torti, sconfiggemmo anche
le vostre ragioni.
«Pesante.
Una vera e propria lacerazione. In alcuni documenti essa venne come rimossa; o
almeno minimizzata; emerge intera nella “Lettera agli amici” del novembre del
1971.
«In
controluce vi aleggia una specie di stanchezza. È tempo di sintesi e di
riflessione.
«La
gratitudine verso i ragazzi che in estate hanno profuso le loro energie a
Capodarco è sincera come sempre, ma la sofferenza vince. La Comunità sa ormai
d’essere portatrice di un’istanza politica connaturata, che non solo
l’autorizza, ma l’impegna a perseguire tematiche generali. Ma...
«Ma non
potevamo non essere saggi. Il bene che volevamo a quei ragazzi non poteva
indurci a tradirli accreditando le semplificazioni del problema che essi
proponevano.
«La fede
di fondo nell’uomo era la stessa che nutrivano i giovani, ma non è solo la
perversa strutturazione dei rapporti di produzione che genera emarginazione: il
problema è molto più complesso. Cambiare le strutture? Certo. Ma tutto sarà
inutile se non cambieremo anche le coscienze. Nel rispetto della coscienza di
tutti, la gradualità è d’obbligo.
«Per
avviare tutti ad una comprensione della dimensione politica che sia veramente
comunitaria, da qualche giorno ha preso il via il primo gruppo di studio, al
quale ne seguiranno altri, per un esame attento della condizione dell’uomo
nella società di oggi: tenendo però presente che in Comunità c’è anche chi ha
bisogno dei fondamenti primi della cultura, oltre che di professionalità. Il
gruppo di studio per un esame attento delle condizioni dell’uomo nella società
presente faceva capo a Dionisio Pinna. Le sue “lezioni” evidenziavano le
implicazioni politiche e culturali del problema dell’emarginazione,
spalancavano gli occhi sui processi di oppressione che gli ignari “alunni”
avevano subito e dei processi di liberazione dei quali erano stati inconsci
protagonisti.
«In
chiusura della “Lettera agli amici” del novembre 1970, angosciose parole
assolutamente nuove: Per favore, a Natale statevene a casa!. Dovevano dire: Non
venite, perché non ce la faremmo a reggere alle vostre provocazioni.
«Dissero
invece (pensa un po’!): perché vengono i nostri parenti».
(1) Allo
scopo di consentire ai lettori di valutare l’estrema gravità delle stravaganze
pubblicate nel volume di Don Fanucci, nell’allegato 1 sono riportati
integralmente i tre paragrafi del libro che hanno sollevato il mio
sbalordimento e la mia indignazione.
(2) Nel
volume si fa anche riferimento ad un incontro avvenuto il 4 ottobre 1970. Anche
a questa riunione, di cui ho saputo l’esistenza dalla lettura del libro, non ho
preso parte.
(3) Le
caratteristiche salienti della proposta di legge di iniziativa popolare erano:
la prevenzione delle situazioni disadattanti, l’obbligatorietà dei trattamenti
riabilitativi, l’inserimento dei soggetti con handicap presso le famiglie
d’origine o, in caso di privazione parziale o totale, di assistenza morale e
materiale da parte dei genitori, presso nuclei affidatari o adottivi, la
creazione di focolari (oggi comunità alloggio) di 8-10 posti, l’inserimento
prescolastico, scolastico, lavorativo e sociale, il superamento delle barriere
architettoniche.
(*) Sono
state omesse solamente le note, perché ininfluenti per la comprensione del
testo.
www.fondazionepromozionesociale.it