Prospettive
assistenziali, n. 127, luglio-settembre 1999
Ventimila bambini hanno
diritto ad una famiglia ma restano in istituto - un dramma dimenticato
Gabriella
Cappellaro (*)
L’argomento “bambini in istituto”
evoca sicuramente nel nostro immaginario sentimenti di pena e di tristezza,
l’idea di un posto dove i bambini vivono una certa costrizione, non sono per
nulla contenti, al massimo alternano alla malinconia momenti di euforia e di
iperattività. Un posto per l’appunto deprimente. Poi cerchiamo di scacciare
questi cattivi pensieri, dicendoci che oggi non è più come una volta, che non
ci sono più i dormitori, il pane scarso e gli educatori con la bacchetta.
Tuttavia non è raro che quando i nostri figli non si comportano bene, un po’
per scherzo un po’ per minaccia di un qualche provvedimento repressivo, agitiamo
il fantasma del collegio, per consolare noi e minacciare loro, a significare
sia che non ne possiamo più, sia che speriamo che nostro figlio venga a più
miti consigli se gli facciamo intravvedere la minaccia di un abbandono da parte
nostra.
Famiglia e istituto
Sembra allora che il concetto di
famiglia e quello di istituto siano antitetici. Ma è davvero così? O solo così?
O così semplice? È proprio così che la pensiamo? Per tutti i bambini?
Se portiamo il nostro bagaglio
emotivo sul terreno di una riflessione ragionata e allo stesso tempo
empaticamente partecipe dei bisogni del bambino, riusciamo a trarre delle
interessanti considerazioni.
Innanzi tutto che l’istituto,
prima ancora che antitetico alla famiglia, è culturalmente superato. Per
culturalmente si intende tutta quella serie di conoscenze e di competenze che
una società si fa: sociologiche, antropologiche e psicologiche che ci dicono
essere la famiglia il luogo privilegiato di crescita per un bambino. Questo
concetto, fatto proprio dalla nostra legislazione, ribadito nella Convenzione
internazionale dei diritti del bambino, è un concetto che si fonda
sull’osservazione dei bisogni del bambino: solo la famiglia può soddisfarli
perché sono bisogni di crescita in termini relazionali.
L’istituto non riesce a fare la
stessa proposta proprio per come è concepito e strutturato: il bambino non vi
trova un senso di appartenenza, non può costruire delle relazioni privilegiate,
e tuttavia, quando costretto a soggiornarvi per tempi dilatati, in attesa di
conclusioni dell’iter giudiziario o di improbabili cambiamenti della sua
famiglia, sazia il suo bisogno di figure di attaccamento attraverso
attaccamenti e investimenti illusori, precari e negati, alle persone che gli
vivono accanto, alle immagini dei genitori naturali depositate nella sua mente,
finendo così per colludere con quanti non si pongono il problema di quella
efficace tutela che si esprime come progetto per il futuro.
A rendere evidente tutto ciò
basta confrontare le modalità di accesso all’istituto per come si sono
progressivamente affermate.
Un tempo l’istituto era
considerato in due modi, a seconda dei privilegi di nascita o di stato sociale:
– il luogo privilegiato della
integrazione educativa, culturalmente raffinata, della famiglia di elevato rango
e possibilità economica,
– oppure, con sistemazioni
molto meno confortevoli, il luogo dei “senza famiglia”, orfani e bastardi, di
quelli che, attraverso l’obbligatoria partecipazione a processioni,
manifestazioni pubbliche e funerali, dovevano espiare la loro minorità per
essere senza famiglia e ringraziare la società che si occupava di loro.
Questi due modi estremamente
diversi, di concepire l’istituto, sono oggi culturalmente superati: il primo
perché la famiglia funzionante raramente fa delega educativa, non per bambini
piccoli, e comunque per tempi brevi; il secondo perché gli orfani trovano
subito una famiglia sostitutiva e la categoria dei bastardi è fortunatamente
scomparsa.
E tuttavia questi due modi
antichi, in dissolvenza, si sovrappongono nel nostro immaginario e danno luogo
ad una forma confusa e confondente: quella che l’istituto possa essere, in casi
particolari, di numero peraltro elevato, una alternativa alla famiglia, idea
per di più anche molto pericolosa perché sottende tutta una serie di concetti
adultocentrici che poco hanno a che vedere con i reali bisogni dei bambini.
La famiglia, fonte di modelli
relazionali, non può essere sostituita dall’istituto.
I bambini istituzionalizzati
Se andiamo a vedere la storia dei
ventimila e più bambini in istituto, vediamo che per la maggior parte di essi
si è pensata la sistemazione in istituto a motivo di un fallimento conclamato e
decretato della famiglia:
– il bambino è stato allontanato
dalla famiglia,
– la famiglia non è in grado di
farcela,
– è in corso un procedimento
presso il Tribunale per i minorenni,
– in qualche modo la famiglia,
direttamente o indirettamente, ha declamato falliti i suoi compiti.
Nella Banca Dati Minori 1993
della Regione Veneto, su 1006 minori istituzionalizzati, il motivo prevalente
sono i problemi relazionali della famiglia, mentre la durata
dell’istituzionalizzazione raggruppa la maggior parte dei minori tra meno di un
anno e tre anni, per arrivare ad oltre dieci anni.
L’istituto si trasforma così nel
luogo di conservazione dei fallimenti familiari, ne diventa il tirannico,
geloso e crudele custode, il prolungamento di un malinteso potere della
famiglia sul bambino.
Ma se abbiamo all’inizio
riflettuto che l’istituto è superato e che non può quindi essere una
alternativa alla famiglia, dobbiamo allora molto interrogarci su che senso
abbia ricoverare in istituto questi bambini la cui famiglia vive una fase di
fallimento, discorso oltretutto operativamente rischioso, perché quando il
bambino è in istituto, spesso gli operatori sociali, bombardati da mille altre
situazioni, possono ora rivolgere a queste altre il loro pensiero, nella
convinzione che per il momento il bambino gode di protezione, e loro possono
finalmente pensare a qualcuna delle altre mille questioni.
Così, il bambino che vive in
istituto, spesso è dimenticato in istituto: non nel senso che l’operatore non
sappia che ci sono delle esigenze per quel bambino, ma non pensa più che si
tratti di un problema pressante e tende a rinviarlo.
D’altra parte, la protezione offerta
dall’istituto non viene esperita come competitiva dalla famiglia naturale
(diversamente dall’affido eterofamiliare che più direttamente richiama
l’inadeguatezza dei genitori naturali), si presta a tante giustificazioni, la
prima delle quali consiste nell’invocare la propria povertà, e non la propria
relazionalità patologica, che invece è questione alla base di tutti i
maltrattamenti e le trascuratezze nei confronti dei bambini.
E, paradossalmente, sta proprio
qui, nell’assenza di attributi che lo rendano competitivo con la famiglia, la
caratteristica di fondo dell’istituto, scelto come alternativo alla famiglia.
La negazione e il misconoscimento
delle difficoltà relazionali e del fallimento della famiglia, diviene così, con
la sistemazione in istituto dei bambini che sono l’evidenza di tale fallimento,
la negazione e il misconoscimento dei loro bisogni di relazione. Tali bisogni,
negati e misconosciuti, imploderanno nella psiche dei bambini, con la
conseguenza di gravi patologie e devianze.
Tale pesante procedura a danno
dei minori, mascherata dietro un garantismo che non può essere che
adultocentrato, diviene addirittura aberrante quando si tratta di bambini
piccolissimi, dove si riscontra il peggio del misconoscimento e il massimo del
danno.
Gli studi sul bambino, sia
attraverso le osservazioni dirette che la clinica, hanno ormai portato
all’evidenza come sia fondamentale, tanto più il bambino è piccolo, fin da
subito, la soddisfazione adeguata dei suoi bisogni, attraverso figure di
attaccamento e di riferimento.
Illusoria e criminale allora,
oltre che superata, la convinzione che l’istituto possa costituire quel “luogo
neutro” dove il neonato possa restare in attesa di una sua sistemazione, in
tempi magari definiti “brevi” secondo i parametri degli iter giudiziari, ma assolutamente devastanti, veri e propri “buchi
neri” per il bambino che fin dalla nascita, socialmente competente, procede
alla costruzione del suo Sé.
Il fattore tempo è della massima importanza
Che cosa accade in termini di
tempo per un bambino che sta in istituto perché la sua famiglia non ce l’ha
fatta ad esprimere una genitorialità corretta nei suoi confronti? Sappiamo che
comunque il bambino costruisce degli attaccamenti alle figure surrogate che
trova in istituto: si tratta però di persone che, per il turn over, per il fatto che l’accudimento del bambino non è che
l’esercizio della loro professionalità e quindi a tempo definito e limitato,
non possono soddisfare i bisogni emotivo-affettivi del bambino. Così questi
investimenti sono destinati a subire delle delusioni, frequentemente parallele,
peraltro, ad una fortissima idealizzazione della famiglia da cui i bambini sono
stati allontanati, idealizzazione per di più alimentata dall’allontanamento
stesso vissuto come una punizione: «è colpa mia se i miei genitori non ce
l’hanno fatta». Quello che tante volte si legge sulla stampa: «il bambino era
così attaccato alla sua famiglia...» è proprio il frutto del sentirsi in colpa
e di questo bisogno di riempire i vuoti affettivi attraverso una forte
idealizzazione dei genitori naturali.
Il bambino è socialmente competente fin dalla nascita
Noi spesso valutiamo il neonato
con parametri cognitivi e sulla base di apprendimenti evolutivi che sono
successivi: poiché non comunica verbalmente, diciamo allora che ha capacità
relazionali limitate, che non capisce e non ricorda.
E invece il bambino fin dalla
nascita ha tutti i potenziali per costruire delle relazioni importanti e ciò
che accade quando il bambino è piccolissimo, ciò che sente e percepisce con una
raffinatezza incredibile è determinante per lui, fa sì che riconosca con
assoluta chiarezza la qualità della disponibilità affettiva di chi si prende
cura di lui.
Qualche mese fa, la stampa
nazionale ha riportato il caso di un bambino down, nato nell’ospedale di una grande città e rifiutato alla
nascita: gli operatori del reparto si sono offerti per tenerlo un mese a testa.
Forse questa soluzione consolava gli operatori, ma non era affatto a misura di
bambino!
SI dovrebbe oggi poter partire
dal presupposto che almeno un reparto di pediatria abbia per scontata la
convinzione che il bambino ha invece bisogno di figure privilegiate di
attaccamento fin dai primi giorni.
Poiché invece questa convinzione
non è per nulla scontata, allora si opta ancora per l’istituto, proprio
partendo dal concetto di attaccamento, ma svuotato dalla sua portante valenza
affettiva: il bambino in istituto non si attaccherà e quando si troverà una
soluzione, il bambino sarà affettivamente ancora sterile.
Accade invece che il bambino avrà
dei vuoti, più o meno prolungati, parzialmente riempiti da frammentarie e
illusorie esperienze di attaccamento, esperienze che non costituiranno certo
risorsa per le sue vicende successive.
L’istituto è antitetico alla famiglia
L’istituto è dunque antitetico al
concetto di famiglia, ma non a quello di famiglia comunque, è antitetico al
concetto di famiglia sana, capace di relazioni positive, mentre collude con
quello di famiglia disfunzionale.
Tutto questo richiede una seria
revisione dei nostri parametri culturali.
Tutti conveniamo che sarebbe
meglio che un bambino crescesse dove è nato, ma se questo non può accadere, a
volte fin dalla nascita, a volte per fatti gravi che pregiudicano la sua
crescita, dobbiamo dargli delle alternative alla famiglia naturale, che siano
delle alternative a misura di bambino, anche se non sono l’ottimo, debbono
tuttavia essere al meglio, così come recita l’art. 3 della Convenzione
internazionale sui diritti dell’infanzia: «In
tutte le azioni riguardanti bambini, se avviate da istituzioni di assistenza
sociale, private o pubbliche, tribunali, attività amministrative o corpi
legislativi, i maggiori interessi del bambino/a devono costituire oggetto di
primaria considerazione».
Questo ci porta a considerare più
seriamente di quanto si sia fatto finora sull’affido eterofamiliare.
Gli istituti
Aprendo una breve parentesi, ci
chiediamo allora se possa esserci un’eredità lasciata dagli istituti? Parlare in questi termini può essere
pericoloso. Meglio chiedersi se possa e debba essere utilizzata una formula
diversa dalla organizzazione “famiglia” quando si tratta di minori. Per
rispondere a questa domanda, bisogna premettere due osservazioni.
La prima riguardante il fatto
che, diversamente da qualsiasi altro istituto che per essere inquadrato deve
essere specificato (“Istituto di credito, Istituto tecnico, Istituto di
bellezza”), curiosamente quello per l’infanzia non ha bisogno di attributi, è
l’istituto per eccellenza, e questo la dice lunga sulla richiesta general
generica, non competitiva e non qualificata che all’istituto viene fatta: «Assisti con prudenza, assisti ma non
troppo, assisti stando alla larga, assisti senza qualificarti, senza
personalizzare», quando invece sappiamo che senza specificazione mirata non
c’è intervento con senso costruttivo per il bambino.
E la seconda osservazione è
quella riguardante la confusione rischiosa tra il termine protezione e il
termine tutela, usati in forma intercambiabile, ma in realtà con una valenza
assai diversa, per contenuto e aspetto temporale: la protezione implica
l’intervento nell’immediata situazione di sofferenza di un bambino, la tutela
comporta la formulazione di un progetto nel tempo.
Ciò premesso, la sola formula di
organizzazione, diversa dalla famiglia, che può essere convenientemente
utilizzata per i bambini, è quella, depurata dai turn over e imperniata su educatori stabili, realizzata da piccole
comunità molto specializzate che accolgono un bambino allontanato da una
situazione di grave pregiudizio, lo aiutano a rendersi conto di quello che gli
è accaduto, e permettono di fare un lavoro di pensiero per un progetto mirato
di tutela, e quindi per tempi brevi e definiti.
È la formula dell’accoglienza
qualificata, specializzata spesso attorno al problema dell’abuso, del primo
intervento, essendo ormai inconcepibile e inammissibile quella del soggiorno a
tempo indeterminato. Oppure è la formula dell’adolescente che, alle
problematiche della famiglia d’origine, somma quelle sue proprie di svincolo
dal contesto di appartenenza.
Ma non è certo la trasformazione
logistica dell’edificio istituto che lo rende adeguato a simili interventi
specializzati, anche se questo equivoco modo di procedere è molto diffuso.
Attaccamento e addestramento
Il bambino in istituto può al
massimo avere un bell’addestramento che è molto diverso dal buon attaccamento.
Mentre l’attaccamento è una relazione soddisfacente con figure di riferimento
importanti e stabili in un contesto stabile in grado di fornire senso,
direzione, obiettivi sociali alla crescita, l’addestramento, e la storia ci
dice quanto pericoloso possa diventare, quando si situa su una trama
relazionale frammentata, priva di slancio affettivo e quindi di senso pieno, è
quella faccenda in cui uno reprime la sua vita emotiva, impara una serie di
manovre e di comportamenti più o meno funzionali a farlo sopravvivere alla meno
peggio nell’ambiente in cui si trova, ma quanto poi a pensare alla persona
addestrata in termini di compiutezza, di maturità, di soddisfazione delle sue
esigenze psicologiche, siamo molto lontani.
La concezione che ha sostenuto
nel tempo gli istituti è quella della competenza a fornire stimoli educativi
incisivi, forti, atti a costruire dei comportamenti sociali idonei, su mandato:
– della famiglia,
– dello Stato.
E questo è andato avanti per
tutto il periodo in cui il concetto di educazione è stato inteso soprattutto
come trasmissione di valori precostituiti.
L’educazione e gli istituti
La rivisitazione del concetto di
educazione, degna di questo nome solo quando fondata su rapporti positivi, la
scoperta della pedagogia nera, la riflessione sull’importanza della relazione,
gli approfondimenti sul significato della famiglia oggi, la trasformazione dei
ruoli fissi dei genitori all’interno della famiglia in funzioni relazionali
scambievoli, portano ad una ormai ineludibile chiarificazione del concetto di
istituto, che invece allo stato dei fatti continua a fungere da contenitore
senza essere più in grado peraltro di erogare alimento soddisfacente in epoca,
quella attuale, in cui ciò che conta non è la trasmissione di valori, ma una
funzione relazionale fornita di senso.
Sappiamo che cosa succede ai
ragazzi dopo anni di permanenza in istituto in nome del presunto diritto della
famiglia d’origine a non essere sostituita: fragili, repressi, immaturi, calano
nella realtà la sete di rivincita sulla vita che è stata così avara con loro,
con risultati devastanti.
Diritto alla famiglia
Oggi si fa tanto parlare della
famiglia, ma troppo spesso in termini assolutamente parziali, perché astratti.
Non si dovrebbe parlare della famiglia in astratto, del diritto della famiglia,
quanto dei diritti dei membri della famiglia, tenendo presente che questi
diritti si debbono proporre in termini convenientemente gerarchizzati: il
diritto del più debole, il bambino, deve essere preso in primaria
considerazione rispetto ai diritti dei più forti, gli adulti, che fondano i
propri diritti sulla capacità di soddisfare al meglio quelli dei membri deboli.
Perché accade esattamente
l’opposto?
Il bambino fin dalla nascita è
portatore di diritti allo stesso modo dell’adulto, solo che non può farli
valere, bisogna che i genitori li facciano valere per lui. Il diritto del
genitore sul bambino non è un diritto di proprietà sul bambino, come purtroppo
spesso si vede molti genitori declamare in nome dei legami del sangue. Il
legame biologico è il punto di partenza che abilita al meglio il genitore ad
esprimere una genitorialità corretta nei confronti di suo figlio, ma è solo il
punto di partenza.
L’istituto dunque non è più il
luogo della delega da parte della famiglia e non può nemmeno esserlo da parte
dello Stato in nome della famiglia, proprio perché la centralità della famiglia
e l’esercizio di quella tutela che solo l’organizzazione famiglia può esprimere
nella vita del bambino, non ammette deleghe.
E ciò anche in considerazione
dell’importanza del fattore tempo. Le lunghe procedure per la definizione dello
stato giuridico di un bambino, gli rendono invivibile l’istituto perché gli
sottraggono, spesso in maniera irreparabile, la possibilità di rendere
narrabile la propria storia.
Ogni persona si costruisce
attraverso la propria storia, che deve prima essere narrata, per diventare poi
autonarrazione, autobiografia. La narrazione è il racconto che l’adulto di
riferimento, nella posizione di testimone privilegiato, restituisce al bambino
che ne è il protagonista, via via che cresce, perché ne diventi l’interprete
attivo e consapevole. La narrazione, il prima - l’adesso - il poi, è un
progetto di senso compiuto, a più tappe, che dà senso alla vita del bambino e
permette al bambino, che ne diventa partecipe, attraverso il racconto
dell’adulto e la propria personale e sempre più consapevole elaborazione, di
sentirsi calato nella propria storia, di sviluppare una passione per la propria
vita passata tale da alimentare in modo positivo la propria vita futura.
Ma per aiutare in questo il
bambino, bisogna davvero aver molto investito affettivamente su di lui, nelle
sue potenzialità e nei suoi desideri.
Così, dopo quei lunghi anni
trascorsi in istituto, e le banche dati ci assicurano che purtroppo si tratta
di lunghi soggiorni, il bambino perde il senso della propria narrazione e con
essa il senso della vita stessa.
Il concetto di famiglia
astrattamente espresso e quello di istituto, considerato, contradditoriamente,
sia superato che abilitato a far da contenitore di fallimenti familiari, per
molti motivi si prestano dunque a indebite sovrapposizioni e sostituzioni,
attraverso cui la nostra cultura esprime proposte ambigue.
Il testo unificato (1)
A decifrare il grado di cultura
espresso dal testo unificato per la modifica della 184/83, si coglie un
notevole arretramento circa i traguardi raggiunti in merito alla conoscenza del
bambino, dei suoi bisogni e dei suoi diritti quindi. In questo testo non
compare il concetto di bambino maltrattato, l’affido familiare è attivato a
scadenza fissa per problemi della famiglia e non già per bisogni di bambini in
condizioni di pregiudizio.
Cosicché si deduce che tutti quei
bambini, e sono tanti, così maltrattati e così carenziati e così impigliati in
percorsi giudiziari lunghissimi, da risultare impossibilitati all’adozione, non
potranno godere della sola alternativa possibile alla famiglia naturale, e cioè
una famiglia alternativa attraverso l’affido eterofamiliare, ma resteranno dove
già si trovano, in istituto per l’appunto!
La famiglia deve rappresentare
invece, non solo la base, ma anche il mezzo e l’obiettivo del recupero di un
bambino maltrattato, il modello di riferimento, restando peraltro ben attenti
sia da forzature all’indietro, tese al mantenimento della famiglia naturale a
tutti i costi, sia da un’interpretazione riduttiva e semplificata del concetto
di famiglia. Nessun legame di sangue può sostituire una relazionalità malata,
così come deve essere chiaro che il concetto di famiglia implica un intreccio
relazionale non improvvisabile o costruibile attraverso l’assemblaggio di
persone dotate solo di competenze addestrative.
La famiglia è purtroppo
facilmente adulterabile e si presta a mille sofisticazioni abilmente
mascherate, ma quella a misura di bambino è organismo necessario, vitale e
fruibile solo allo stato puro.
(*)
Psicologa, esponente dell’Associazione “Bambino chiama aiuto” di Vicenza.
Relazione tenuta al convegno “Adozione in pericolo - Esigenze e diritti dei
bambini senza famiglia: le proposte di legge in discussione in Parlamento”,
svoltosi a Genova il 29 maggio 1999.
(1) Si
tratta del testo unificato proposto al Senato per la riforma dell’adozione e
dell’affido, riportato sul n. 126 di Prospettive
assistenziali (n.d.r.).
www.fondazionepromozionesociale.it