Prospettive assistenziali, n. 128, ottobre-dicembre 1999

 

CAMBIAMENTI PIù SIGNIFICATIVI DEL SETTORE ASSISTENZIALE DAL 1960 AL 1998

FRANCESCO SANTANERA

 

 

PARTE PRIMA: CENNI SULLA SITUAZIONE NEL 1960

 

Persone ricoverate in istituto

Come risulta dai dati dell’Annuario statistico dell’assistenza e della previdenza sociale (Istat, Vol. X, 1963) al 31 dicembre 1960 i minori ricoverati erano:

– 112.956 negli orfanotrofi;

– 87.594 negli “istituti per soli minori poveri o abbandonati” (1);

– 61.402 nelle colonie permanenti e cioè negli “istituti che accolgono per periodi piuttosto lunghi bambini linfatici, anemici, predisposti alla tubercolosi, ecc.”. In realtà, quasi sempre i fanciulli erano ricoverati per motivi socio-economici (2);

– 18.464 negli istituti “per altre categorie di ricoverati”;

– 10.081 negli istituti per “minorati psichici”;

– 8.699 nei brefotrofi “in allevamento interno”, di cui 3.768 non riconosciuti dai genitori (3);

– 7.624 negli “istituti per anormali sensoriali”;

– 3.506 in strutture per “minorati fisici”.

Dunque, alla data del 31 dicembre 1960 i minori ricoverati in istituti a carattere di internato erano 310.326 (4).

Inoltre, alla data del 31 dicembre 1960 risultano ricoverati:

– 107.617 “vecchi indigenti”;

– 6.902 “minorati psichici adulti”;

– 5.913 adulti in strutture di ricovero anche per minori, anziani e handicappati;

– 2.964 “anormali sensoriali” adulti;

– 1.796 “minorati fisici” adulti.

Il totale  generale dei ricoverati al 31 dicembre 1960 era dunque di 435.518 persone (5).

 

Una miriade di organismi assistenziali

Uno smisurato numero di enti, organi e uffici era preposto negli anni ´60 allo svolgimento delle attività assistenziali. Salvo casi del tutto eccezionali, essi operavano per l’esclusione dal contesto sociale della fascia più debole della popolazione. Infatti, l’intervento più praticato era il ricovero in istituto (in molti casi anche in ospedali psichiatrici) di bambini e di adolescenti, di handicappati, di anziani autosufficienti e di malati cronici non autosufficienti e degli altri soggetti in gravi difficoltà socio-economiche.

Le competenze ministeriali in materia di assistenza erano esercitate da (6):

– la Presidenza del Consiglio dei Ministri doveva vigilare su numerosi enti assistenziali, fra i quali l’Opera nazionale per gli invalidi di guerra, l’Ente nazionale per la distribuzione dei soccorsi in Italia, l’Opera nazionale di assistenza all’infanzia delle Regioni di confine, il Commissariato per la gioventù italiana, l’Unione italiana ciechi, l’Ente edilizio per i mutilati e invalidi di guerra;

– al Ministero dell’interno erano attribuite importantissime funzioni. La direzione generale per l’assistenza pubblica era competente in materia di legislazione assistenziale, alta vigilanza sulle IPAB, assegnazioni ordinarie e straordinarie agli Enti comunali di assistenza, ai Comitati provinciali di assistenza e beneficenza pubblica ed agli enti assistenziali a carattere nazionale, ricovero di minori normali e “anormali” (7) in istituti di beneficenza e stipula delle relative convenzioni, acquisti per l’assistenza in natura, piani generali per la distribuzione di generi assistenziali, affari attinenti all’Amministra­zione per le attività assistenziali italiane e internazionali (Aai). La direzione generale degli affari generali e del personale interveniva per la creazione degli enti morali e l’assistenza agli invalidi. La direzione generale dell’amministrazione civile provvedeva alla vigilanza sulle associazioni, interveniva per l’assistenza ai profughi, agli apolidi, sovrintendeva alle attività di polizia concernenti i minori, i girovaghi, i malati di mente, gli intossicati, gli accattoni, la delinquenza minorile, gestiva gli affari concernenti le colonie marine e montane, controllava l’istituto di Fermo per gli orfani del personale della pubblica sicurezza e l’Opera nazionale per l’assistenza ai vigili del fuoco. I sussidi al clero benemerito e bisognoso e per scopi di beneficenza e istruzione erano di competenza delle direzioni generali degli affari di culto e del fondo per il culto;

– al Ministero del lavoro spettavano l’assistenza agli anziani, agli invalidi del lavoro, agli orfani dei lavoratori, agli emigranti ed ai rimpatriati ed alle loro famiglie, la preparazione e collaborazione nella stipula e ratifica di progetti, trattati ed accordi in materia di assistenza sociale, la vigilanza e tutela degli istituti ed enti di previdenza e di assistenza sociale, il finanziamento della previdenza e dell’assistenza sociale, la sovrintendenza sulle colonie marine e montane e sulle scuole per la preparazione e il perfezionamento degli assistenti sociali, la gestione del servizio sociale rivolto agli assegnatari delle case per i lavoratori, la vigilanza dell’Ente nazionale per l’assistenza agli orfani dei lavoratori italiani (Enaoli) e dell’Opera nazionale dei pensionati d’Italia (Onpi);

– al Ministero di grazia e giustizia facevano riferimento gli uffici distrettuali di servizio sociale per i minorenni, gli istituti ed i centri di rieducazione maschili e femminili, e l’assistenza ai carcerati, ai liberati dal carcere ed ai loro familiari;

– al Ministero della sanità erano attribuite competenze nei confronti dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia (Onmi), l’ente più importante operante in Italia nel campo dell’assistenza, nonché in materia di assistenza alla maternità e all’infanzia e al recupero delle persone con handicap.

Altre funzioni assistenziali (8) erano esercitate dai Ministeri del bilancio, delle finanze, del tesoro, degli affari esteri, dell’agricoltura, della difesa (opere nazionali di assistenza per gli orfani dei militari dell’arma dei carabinieri, Istituto Doria per gli orfani dei marinai morti in guerra, Opera nazionale per i figli degli aviatori, Opera di assistenza per gli orfani dei militari di carriera nell’esercito), dell’industria, dei lavori pubblici, della marina mercantile (assistenza e ricovero di orfani di marittimi, assistenza dei lavoratori portuali, istituzioni di assistenza per i pescatori, sussidi), della pubblica istruzione (vigilanza su casse e patronati scolastici, convitti nazionali ed educandati, Ente nazionale di assistenza magistrale, Istituto nazionale “Giuseppe Kirner” per l’assistenza ai professori delle scuole medie ed ai loro congiunti), nonché da tutti gli altri ministeri e dalla Cassa per il Mezzogiorno.

Un ruolo di primaria importanza era assegnato alla pubblica sicurezza ed alla  polizia femminile a cui spettava e spetta l’attuazione dell’art. 154 del regio decreto 18 giugno 1931 n. 773 che recita: «Le persone riconosciute dall’autorità locale di pubblica sicurezza inabili a qualsiasi lavoro proficuo e che non abbiano mezzi di sussistenza, né parenti tenuti per legge agli alimenti e in condizione di poterli prestare, sono proposte (...) per il ricovero in un istituto di assistenza e beneficenza del luogo o di altro comune» (9).

Per quanto riguarda gli altri organismi aventi compiti assistenziali ricordiamo:

– l’Onmi, Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, che disponeva di una sede nazionale, 94 uffici provinciali e 8.050 comitati comunali. Le competenze riguardavano le gestanti e madri povere, i minori appartenenti a famiglie bisognose o in situazioni di abbandono, l’istituzione e gestione degli asili nido;

– gli Eca, Enti comunali di assistenza, presenti in tutti gli 8.050 Comuni, che provvedevano all’erogazione di sussidi a persone in stato di povertà e al ricovero di minori e adulti (10);

– i Comuni (8.050) preposti agli inabili al lavoro (minori, handicappati, adulti e anziani);

– le Province (94) incaricate di assistere le gestanti e madri nubili, i minori figli di ignoti o riconosciuti da un solo genitore limitatamente a quelli per i quali la prima richiesta di assistenza era stata avanzata entro il 6° anno di età, i malati di mente, i ciechi ed i sordi poveri rieducabili;

– i patronati scolastici (7.038 comunali e 94 comitati provinciali) incaricati di fornire assistenza agli alunni poveri delle scuole elementari. Nel 1960 erano stati 1.674.073;

– le casse scolastiche (2.173) delegate a soccorrere gli allievi bisognosi delle scuole medie;

– gli enti di assistenza per gli orfani con le relative sedi nazionali e provinciali (11);

– la sede nazionale e le 94 provinciali dell’Aai, Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali, con compiti di aiuto alimentare e sostegno tecnico ad enti pubblici e privati;

– 9.407 Ipab, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza con prevalenti attività di ricovero di minori, handicappati e anziani (12);

– 154 consigli di patronato per i liberati dal carcere e per l’assistenza alle famiglie dei detenuti;

– 142 case di rieducazione, riformatori, uffici distrettuali di servizio sociale;

– il Commissariato della gioventù italiana (ex Gil) con una sede nazionale e 94 uffici provinciali;

– la sede nazionale e le 94 sedi provinciali dell’Ente nazionale per la protezione morale del fanciullo;

– 94 uffici presso le prefetture;

– 94 comitati provinciali di assistenza e beneficenza pubblica;

– 5.718 altri centri di assistenza dipendenti da enti pubblici (13).

In conclusione, mentre la legge 27 luglio 1967 n. 685 relativa al programma economico quinquennale, indicava al paragrafo 89 che gli organi investiti di pubbliche funzioni di assistenza erano oltre 40 mila, in realtà il loro numero superava i 50 mila (14).

La situazione era talmente complessa (leggi di difficile comprensione, sovrapposizione di competenze, vuoti di intervento, mancanza di controlli validi, stanziamenti gravemente carenti, personale insufficiente e impreparato, ecc.) che il gesuita Salvatore Lener aveva affermato che essa «non a torto fa evocare al profano l’immagine biblica del caos primitivo» (15).

 

Un esempio del caos assistenziale esistente

Il minore nato fuori dal matrimonio non riconosciuto o riconosciuto dalla sola madre:

1. dalla nascita al 15° anno di età era assistito dalla Provincia tramite gli istituti provinciali per l’infanzia, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab) o istituti privati aventi sedi nella provincia o al di fuori di essa;

2. dal 15° al 18° anno era assistito dall’Onmi;

3. dal 18° anno in poi dall’Eca;

4. se al momento della prima richiesta di assistenza il minore non riconosciuto o riconosciuto dalla sola madre aveva superato il 6° anno di età, la competenza non era più della Provincia ma del­l’Onmi;

5. se il minore veniva legittimato oppure era riconosciuto anche o solo dal padre, la competenza era demandata dalla Provincia all’Onmi;

6. se il minore riconosciuto dalla sola madre aveva un’età da zero a 15 anni e rimaneva orfano, la competenza passava dalla Provincia ad uno dei numerosi enti di assistenza per orfani sempre che la defunta appartenesse ad una delle categorie previste dalle leggi istitutive degli stessi enti;

7. se il minore era riconosciuto da madre profuga, competente era il Ministero degli interni o la Regione. Quando però acquisiva il domicilio di soccorso la competenza poteva essere trasferita alla Provincia sempre che non si verificasse l’ipotesi di cui al punto 4;

8. se il minore riconosciuto dalla madre era cieco o sordomuto, la competenza assistenziale resta­va alla Provincia anche dopo il 15° e il 18° anno di età;

9. se il minore era insufficiente mentale, la competenza veniva determinata a seconda che la Provincia o l’Onmi o altri enti avessero o meno istituito i servizi (non obbligatori) per i suddetti sog­-getti;

10. se il minore era gravemente disadattato, alcune o tutte le competenze potevano passare al tribunale per i minorenni, all’istituto di rieducazione o all’ufficio distrettuale di servizio sociale del tribunale per i minorenni;

11. se il minore era segnalato dall’autorità di pubblica sicurezza per il ricovero in istituto, la competenza era del Comune;

12. se il minore era fisicamente handicappato, alcune o  tutte le competenze potevano essere assunte dal Comune;

13. se il fanciullo riconosciuto dalla madre aveva bisogno di assistenza scolastica, questa era prestata non dall’ente che lo assisteva, ma dal patronato scolastico se frequentava la scuola elementare, dalla cassa scolastica se era inserito in una scuola media;

14. salvi i casi di assoluta urgenza, la madre nubile e il minore da essa riconosciuto erano assistiti dalla Provincia territorialmente competente secondo il domicilio di soccorso, anche se la residenza effettiva era altrove (il domicilio di soccorso si acquisisce solo dopo due anni di residenza nello stesso luogo);

15. il minore nato fuori del matrimonio era inoltre soggetto ai cambiamenti di istituto causati dalle disponibilità degli enti erogatori, dalla ricettività degli enti ricoveranti e dalle loro regole statutarie (ad esempio dimissioni al raggiungimento di una certa età).

 

Dati elettorali

Negli anni ´60 era molto accentuata la sempre presente caratteristica clientelare dell’assistenza. Numerosi sono stati i politici di grido che hanno utilizzato le situazioni di bisogno della fascia più debole della popolazione per la loro ascesa politica.

Uno strumento molto utilizzato era (ed è) la raccolta di voti e preferenze. Ad esempio, nelle elezioni per la Camera dei Deputati del 7 maggio 1972, la DC otteneva nel capoluogo piemontese il 27.63% dei voti, ma raggiungeva il 96.62% nei seggi interni del Cottolengo.

 

Violenze e maltrattamenti

Le condizioni di vita di ricoverati erano, spesso, estremamente gravi, a volte di livello subumano. Ad esempio, nell’istituto Santa Rita di Grottaferrata, diretto da Maria Diletta Pagliuca, gli inquirenti avevano trovato «13 ragazzi che dormivano sistemati in coppie su sette lettini, tranne l’A. che dormiva solo, ciascuno con la testa verso la spalliera e legati tra loro per le gambe. Anche le braccia erano avvinte mediante catenelle assicurate con lucchetti o con legacci di stoffa alle opposte spalliere del letto; l’ambiente era impregnato di fetore» (16).

Da notare che dalle prime segnalazioni circa le gravi carenze educative e strutturali dell’istituto S. Rita alla chiusura della struttura trascorsero ben 18 anni!

Occorre anche segnalare che, se il comportamento degli enti pubblici in molte situazioni era stato deplorevole avendo lasciato incancrenire situazioni estremamente lesive della dignità delle persone, non sempre la magistratura aveva agito in modo esemplare. Ad esempio, il Pretore di Capriati Volturno, il 15 maggio 1970, aveva assolto per aver agito in stato di legittima difesa, tale P.O., accusato di abuso di mezzi di correzione in danno di un ragazzo di 12 anni cui aveva procurato lesioni «fissandogli ai piedi due pezzi di ferro dal complessivo peso di kg 3,450 a mezzo di catena con lucchetto», pezzi che erano stati messi per evitare che il ragazzo stesso ricoverato presso l’istituto Padre Montorsoli, si potesse allontanare come aveva già fatto più volte (17).

 

Una sentenza scandalosa

Constatata l’estesissima disapplicazione della legge sull’adozione speciale e la conseguente impossibilità dei minori in situazione di totale privazione delle cure morali e materiali da parte dei genitori e dei parenti di essere inseriti in famiglie adottive, l’Anfaa e l’Ulces, verso la fine degli anni ´60, denunciarono la situazione all’autorità giudiziaria. Ne seguì l’inchiesta del Pretore Infelisi che fece ispezionare gli istituti di assistenza di Roma, accertando numerose e gravissime irregolarità.

Alcuni titoli dei giornali: «Pretore indaga a Roma sulle adozioni difficili - Il magistrato ha sequestrato libri all’Opera maternità e infanzia»; «Perché se la legge è ineccepibile, solo pochissimi riescono ad adottare bambini? Molti istituti si opporrebbero per non perdere le rette delle Province»; «Si allarga lo scandalo degli orfanotrofi - Vivai di corruzione a spese dello Stato»; «Non segnalavano i bimbi da adottare per continuare a percepire le rette».

In particolare l’indagine giudiziaria rivelò che numerosi erano gli istituti di assistenza che avevano omesso di inviare al giudice tutelare l’elenco dei minori ricoverati negli istituti, elenchi prescritti dall’art. 314/5 della legge 5 giugno 1967 n. 431 sull’adozione speciale. Fra gli imputati c’era Mons. Patrizio Carol Abbing, Presidente della Città dei ragazzi di Roma e dell’Associazione italiana delle Città dei ragazzi.

Per assolverlo, il Giudice istruttore Antonio Alibrandi, arrivò a sostenere – incredibile ma vero – che «non essendo l’assistenza sociale attività la cui titolarietà è riservata alla pubblica amministrazione e quindi pubblico servizio, l’esercizio di essa non costituisce esercizio di pubblico servizio»  (18).

A seguito del provvedimento suddetto, vennero prosciolti tutti i dirigenti degli istituti privati che non avevano rispettato gli obblighi sanciti dalla legge sull’adozione speciale.

 

Ruolo dell’assistenza

La diffusa situazione di violenza nei confronti degli assistiti era la conseguenza diretta della concezione, sostenuta da molte organizzazioni private, che l’apparato pubblico aveva nei confronti della fascia più debole della popolazione. Al riguardo è significativo quanto aveva affermato il Ministero dell’interno nella relazione sul bilancio dello Stato del 1969: «L’assistenza pubblica ai bisognosi (...) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i ser­-vizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari (...)».

Dunque, gli assistiti erano considerati dal Ministero dell’interno, l’organo con i più rilevanti poteri in materia di assistenza, un pericolo per il resto della popolazione, di conseguenza essi dovevano essere esclusi dal contesto sociale.

 

 

PARTE SECONDA: LE PRINCIPALI VICENDE DAL 1960 AL 1998

 

Fra i cambiamenti che hanno inciso sulla vita delle persone e sui nuclei familiari e sulla cultura dell’integrazione sociale, indichiamo quelli più importanti.

 

Dal ricovero in istituto ai servizi

onnicomprensivi

A partire dal 1962 i gruppi di base, in particolare l’Anfaa e l’Ulces, hanno svolto una intensa attività diretta ad informare amministratori, operatori e opinione pubblica sulle deleterie conseguenze psico-fisiche provocate sulla personalità dei minori dalla carenza di cure familiari e dal ricovero in istituto.

Allo scopo sono state utilizzate le numerose ricerche e pubblicazioni che fino a quel momento erano rimaste confinate nel limitatissimo ambito degli specialisti (19).

L’iniziativa non solo ha rivelato alla popolazione le gravi sofferenze dei bambini e ragazzi istituzionalizzati, ma ha anche evidenziato le gravissime violenze perpetrate in molte, troppe strutture di ricovero. Ha messo, inoltre, in luce l’estesa irresponsabilità con cui amministratori e operatori allontanavano, spesso senza alcun valido motivo, i figli dai genitori in difficoltà, soprattutto quando si trattava di persone con limitate o nulle capacità di autodifesa. Da sottolineare che le spese per questi deleteri interventi erano di gran lunga superiori al costo di adeguati servizi di sostegno alle famiglie d’origine, all’adozione e all’affidamento familiare a scopo educa­tivo.

A seguito delle numerose e documentate denunce, le forti resistenze delle persone e dei gruppi sostenitori dell’emarginazione incominciarono a cedere.

Gli operatori e gli amministratori più sensibili hanno appoggiato con sempre maggior forza le iniziative del volontariato dei diritti.

Sono sorti i primi servizi alternativi al ricovero (aiuti economici, assistenza domiciliare, ecc.) e soprattutto è emersa a poco a poco l’esigenza di una radicale reimpostazione dei servizi primari non assistenziali (sanità, casa, scuola, ecc.), reimpostazione da un lato fondata sulla prevenzione del bisogno, delle malattie e del disagio e, dall’altro, sulla loro capacità di rispondere a tutte le molteplici e complesse esigenze degli utenti più deboli.

A proposito della casa, della sanità, della scuola e degli altri settori sociali, si è cominciato a parlare di servizi onnicomprensivi e cioè di servizi non riservati a particolari categorie, ma aperti a tutti (20).

Sorsero, così, le iniziative di superamento delle scuole speciali per handicappati fisici, insufficienti mentali, ciechi, sordi e per l’eliminazione delle classi differenziali.

Un importante ruolo promozionale è stato svolto dalla proposta di legge di iniziativa popolare “Interventi per gli handicappati psichici, fisici e sensoriali e per i disadattati sociali” presentata al Senato il 21 aprile 1970 con 220 mila firme (21).

 

L’adozione speciale e la legge 184/1983

Dalle iniziative dei gruppi di base a cui aderirono parlamentari, giuristi, magistrati, donne e uomini di cultura, amministratori, operatori e organizzazioni sociali, scaturì la legge 5 giugno 1967 n. 431 che introdusse nel nostro ordinamento l’istituto giuridico dell’adozione speciale.

Rispetto alle norme precedenti, si compì una vera e propria rivoluzione copernicana nel senso che lo scopo dell’adozione non era più quello di concedere alle persone senza figli la possibilità di avere discendenti; la finalità essenziale era, invece, quella di dare una famiglia ai minori completamente privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti.

Conseguentemente, venne sottratto agli enti pubblici di assistenza e agli istituti privati di ricovero il potere (a volte, era un arbitrio esercitato anche in modo crudele) di dare o non dare in adozione – a loro esclusivo piacimento – i bambini privi di famiglia.

Nello stesso tempo, le famiglie di origine, resesi conto delle negative conseguenze dell’istituto per i loro figli, accettarono sempre meno la pratica del ricovero; maturarono così le prime positive esperienze di inserimento in famiglie adottive dei bambini sottratti agli istituti; crebbe la pressione delle organizzazioni sociali per la regolamentazione dell’adozione dei minori stranieri (provenienti soprattutto dal terzo Mondo); sorsero i primi servizi di affidamento familiare a scopo educativo. Vennero così create le condizioni per ottenere dal Parlamento l’approvazione della legge 4 maggio 1983 n. 184 “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”.

I risultati acquisiti sono estremamente positivi: dai 310 mila minori ricoverati in istituto nel 1960 si arriva ai 16-20 mila del 1999; i minori italiani e stranieri adottati dal 1967 al 1998 sono oltre 87 mila.

 

Le persone con handicap: dall’internamento alla vita sociale

 

Negli anni ´60 ai ciechi, ai sordi, agli handicappati intellettivi e spesso anche alle persone colpite sul piano fisico non veniva riconosciuto il diritto, spettante a tutti gli esseri umani, di vivere in famiglia, di essere curati e riabilitati quando le prestazioni di prevenzione non avevano evitato l’insorgere di minorazioni. Ai suddetti soggetti non è consentita la frequenza della scuola insieme ai loro coetanei “normali”: estremamente rare le possibilità di inserirsi positivamente nella vita sociale e produttiva.

In quel periodo, nei casi in cui i genitori non erano in grado (in primo luogo per la mancanza di mezzi economici) di provvedere alle esigenze dei propri figli, l’intervento prevalentemente assunto dai servizi pubblici e privati era ancora una volta il ricovero in istituti e, a volte, in manicomi.

Al riguardo è illuminante la testimonianza di Ro­berto (22), con gravi difficoltà motorie a causa di un trauma infantile, ricoverato presso il Cottolengo di Torino dalla nascita fino all’età di 35 anni: «Vivevamo tutti insieme in un camerone-dormitorio: lì mangiavamo, giocavamo e naturalmente pregavamo e sentivamo la messa. La mattina ci svegliavamo alle cinque (...). In questo luogo ho vissuto per dieci anni, poi mi hanno trasferito in un altro reparto di adolescenti dove venivano divisi quelli più intelligenti dagli handicappati psichici più gravi».

Roberto quindi è «trasferito in un cronicario, dove ci sono tutti anziani (...); avevo 18 anni, avevo voglia di vivere, ero pieno di energia, come potevo stare tra 80/90 vecchi solo con la compagnia di sei ragazzi della mia età? Ed invece, io e i miei coetanei, vivevamo lì in un grosso camerone dove si faceva di tutto, dove doveva svolgersi tutta la nostra esistenza, dove ogni giorno moriva qualcuno».

Più tardi, verso i 25 anni, Roberto incomincia a prendere coscienza delle sue esigenze e, in merito alle sue scelte religiose, riferisce quanto segue: «In istituto non è possibile manifestare i propri dubbi. Appena ho provato a farlo mi hanno subito rinfacciato di mangiare il piatto della provvidenza e di sputarvi sopra» (23). Viene quindi trasferito per sei anni tra gli anziani in modo che non possa continuare a far capire ai suoi compagni che avevano il diritto ad un’esistenza diversa e di esporre ad essi «i miei dubbi religiosi».

Nel 1981 Roberto esce dal Cottolengo e da allora vive autonomamente in un alloggio messo a disposizione dal Comune di Torino, insieme a Piero, colpito da focomelia ai quattro arti, ricoverato al Cottolengo per i primi 24 anni della sua vita.

Dunque, la semplice messa a disposizione di un alloggio privo di barriere architettoniche può essere per gli handicappati fisici una reale alternativa al ricovero in istituto e una concreta possibilità di una vita libera.

La pressione sociale esercitata dalla già citata proposta di legge di iniziativa popolare (ricordiamo che era stata sottoscritta da 220 mila elettori, per la raccolta delle firme erano stati effettuati centinaia fra dibattiti e convegni ed erano state scritte parecchie decine di articoli) determina l’approvazione della legge 30 marzo 1971 n. 118, che contiene alcune norme riguardanti l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici pubblici, nelle istituzioni scolastiche e nei mezzi di trasporto.

Inoltre, per gli handicappati è previsto che «l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltosi l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali».

Infine, vi sono norme concernenti la riabilitazione, le comunità alloggio, la formazione professionale e le pensioni.

Anche se molte delle disposizioni della legge 118/1971 vengono scarsamente applicate (24) essa rappresenta una prima rottura rispetto al passato.

Scarsi sono gli inserimenti lavorativi di handicappati, inserimenti che sono di fondamentale importanza per la realizzazione di una reale autonomia personale e familiare e per una attiva partecipazione alla vita sociale.

Infatti, la legge 2 aprile 1968 n. 482 è malamente applicata e, molto spesso, è utilizzata da falsi inva­lidi.

I sindacati dei lavoratori, salvo casi del tutto eccezionali, non dimostrano alcuna solidarietà concreta nei confronti degli handicappati disoccupati. Anzi, nell’allegato A dell’accordo stipulato con il Ministro del lavoro Gianni De Michelis e la Confindustria in data 22 gennaio 1983 sottoscrivono la seguente dichiarazione: «Il Governo adotterà le seguenti misure amministrative o legislative per:

– la sospensione dell’avviamento obbligatorio per le aziende in stato di crisi e di ristrutturazione;

– il computo, ai fini dell’aliquota d’obbligo, degli invalidi riconosciuti tali in corso di rapporto di lavoro (25);

– la sospensione della possibilità di scorrimento (26);

– il controllo da parte degli istituti previdenziali ed assistenziali competenti sulla permanenza e le caratteristiche dello stato invalidante all’atto dell’avviamento al lavoro» (27).

Sulla stessa linea si pone, purtroppo, la proposta di legge 3321, presentata alla Camera dei deputati in data 4 dicembre 1985 dai deputati Vincenzo Mancini, Bianchi, Garocchio, Pisicchio e Rossattini della Dc, Lodi Faustini Fustini e Pallanti del Pci, Ferrari Marte del Psi, Caria e Ghinami del Psdi, Arisio del Pri, Mancuso della Sinistra indipendente e Benedikter del Partito popolare sudtirolese per esonerare i partiti, i sindacati e le organizzazioni senza fini di lucro dall’obbligo di assumere gli handicap­pati.

Molto deludente la legge quadro sull’handicap n. 104/1992, caratterizzata dalla presenza di ben 22 “possono” (le Regioni possono, i Comuni e le USL possono) per cui, salvo alcune agevolazioni, alle persone con minorazioni non è stato riconosciuto alcun nuovo diritto.

La legge 162/1998, a sua volta, ha aggiunto altri 3 “possono” al testo precedente.

Una pugnalata al diritto al lavoro delle persone con handicap (28) è stata inferta dal presidente della Fondazione italiana del volontariato, Pellegrino Capalbo che, in alternativa al loro inserimento nelle comuni aziende pubbliche e private, ha proposto la loro collocazione presso cooperative sociali perché «con l’aiuto di volontari, esse riescono a dare un lavoro dignitoso a soggetti “svantaggiati” per i quali sarebbe impossibile inserirsi in un normale circuito produttivo» (29).

Purtroppo la proposta della Fondazione italiana per il volontariato, sostenuta da Franco Bentivogli, ex componente della segreteria nazionale della Cisl, è stata fatta propria in larga misura dal Parlamento con la legge 12 marzo 1999 n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.

 

Dalla repressione manicomiale ai servizi di igiene mentale

 

«Gli ammalati a letto, lasciati nei loro escrementi sono lavati da altri malati che provvedono con una spugna e una vecchia latta vuota. Alle 17.30 una buona parte dei malati vengono regolarmente legati ai letti con cinghie di iuta e così rimangono fino al mattino nello sporco e nel fetore. Non hanno nessuno che li aiuti, non possono far altro che rimanere immobili senza neppur poter bere. Anche di giorno alcuni malati sono costretti da una specie di cintura che immobilizza le braccia; oppure li legano per un piede; talvolta li fissano al termosifone. La sporcizia è indescrivibile: le ciotole annerite, il cibo pessimo, i tavoli li puliscono con la segatura e la scopa del pavimento».

Questo avviene nel manicomio di Torino nel 1970 (30). Si tratta di una realtà agghiacciante, presente in tutti gli ospedali psichiatrici del nostro paese.

La mobilitazione di operatori, ricordiamo in particolare Franco Basaglia, intellettuali, associazioni, movimenti di base e di una parte dei sindacati dei lavoratori, ha obbligato le autorità competenti a introdurre cambiamenti.

Come spesso avviene quando le strutture di emarginazione sono messe in discussione, la prima iniziativa delle istituzioni è diretta a migliorare le strutture stesse, non a superarle, nemmeno in parte. Seguendo questa linea la legge 18 marzo 1968 n. 431 stabilisce che lo Stato «concorre ai maggiori oneri derivanti alle province e agli enti da cui dipendano ospedali psichiatrici per l’assunzione delle nuove unità di medici, psicologi, infermieri, assistenti sanitarie visitatrici e assistenti sociali».

Sono inoltre previsti contributi statali per il rinnovo e il miglioramento delle attrezzature tecnico-sanitarie «nei casi in cui la quota della retta di degenza stabilita ai sensi delle vigenti disposizioni non riesca a coprire le spese correnti».

Vengono altresì erogati finanziamenti per la costruzione di nuovi ospedali.

La legge 431/1968 abroga, infine, «l’articolo 604 n. 2 del codice di procedura penale per quanto attiene all’obbligo dell’annotazione dei provvedimenti di ricovero degli infermi di malattie mentali e della revoca di essi nel casellario giudiziario».

Ma – com’è noto – la disposizione che determina una netta rottura con il regime manicomiale è la legge 13 maggio 1978 n. 180 (31), le cui norme sono successivamente inserite nella legge di riforma sanitaria 23 dicembre 1978 n. 833.

Le caratteristiche essenziali della nuova normativa sono:

– il riconoscimento che i disturbi mentali devono esser considerati una malattia da curare. Di qui il trasferimento della competenza dagli assessorati provinciali all’assistenza e beneficenza alle Regioni e alle Unità sanitarie locali, a cui sono attribuiti i compiti di prevenzione, cura e riabilitazione analogamente a quanto stabilito per le altre patologie;

– la priorità dei servizi e presidi extra ospedalieri;

– l’introduzione di misure di tutela e garanzia dei diritti delle persone malate;

– la creazione, all’interno degli ospedali generali, di servizi di degenza psichiatrica con un numero di posti letto non superiore a quindici;

– il divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici e il loro graduale superamento;

– il divieto di inserire persone con disturbi psichici negli ospedali psichiatrici esistenti, salvo – in via transitoria – che si tratti di pazienti già ricoverati anteriormente all’entrata in vigore della legge 180/1978.

Tuttavia molti anni di sofferenza devono ancora subire i malati. Infatti il 17 luglio 1997 la Com­missione affari sociali della Camera dei deputati segnala che «molte persone hanno vissuto fino a pochi giorni fa dentro gli ospedali psichiatrici in condizioni per lo più spaventose, con un’organizzazione sanitaria quasi sempre orientata alla semplice custodia e quasi mai alla riabilitazione e al reinserimento», e precisa altresì che «dalle stesse visite effettuate negli ex ospedali psichiatrici, dislocati nel nostro Paese, si è potuta constatare la drammatica condizione dei malati ancora ricoverati» (32).

 

Sciolti 50 mila enti, organi e uffici di assistenza

Le lotte degli anni ´60/´70, volte sia all’individuazione delle necessità fondamentali di vita delle persone, in particolare di quelle con gravi difficoltà, sia al riconoscimento della piena dignità di tutti i cittadini e le conseguenti innovazioni introdotte (adozione, affidamento familiare a scopo educativo, comunità alloggio, case famiglia, inserimento scolastico, lavorativo e sociale degli handicappati, diritto di tutti i cittadini alle cure sanitarie, ecc.) (33), mettono in gravissima crisi il potere degli enti pubblici di assistenza.

La loro resistenza è tenacissima. Numerosi sono gli istituti, in particolare quelli gestiti da religiosi, che si oppongono all’attuazione della legge sull’adozione. Si pensi, inoltre, al tentativo operato dall’Opera nazionale invalidi di guerra, dall’Associazione mutilati ed invalidi di guerra,  dall’Associazione nazionale vittime civili di guerra, dall’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, dall’Unione nazionale mutilati per servizio e dalla libera associazione mutilati e invalidi civili che, dopo aver per anni litigato fra di loro per meschine questioni di potere, istituiscono in fretta e furia una commissione per contrapporsi alla richiesta della loro privatizzazione. Aberranti le conclusioni: «La generalità dei cittadini invalidi costituisce nel suo complesso un insieme nettamente distinto del popolo italiano (...) addita, pertanto, come indispensabile e indilazionabile una radicale e completa riforma di struttura nel settore degli invalidi che, prescindendo dalla causa invalidante, sia attuata differenziando chiaramente i cittadini portatori di invalidità permanente dai cittadini sani o incidentalmente sani».

Ciò premesso, la commissione chiede addirittura «la delega dello Stato ad un unico ente di diritto pubblico di ogni azione di pubblico intervento, e quindi dell’istruzione, l’addestramento professionale degli invalidi e del loro collocamento al lavoro, dell’assistenza sanitaria limitatamente agli esiti dell’invalidità permanente, di quella sociale, morale e giuridica e della cura di ogni altra provvidenza che possa essere a loro rivolta» e rivendica che l’amministrazione del richiesto ente di diritto pubblico sia «espressione diretta ed esclusiva delle associazioni di categoria» (34).

La pressione popolare sconfigge non solo il tentativo di creare un unico organismo nazionale per gli handicappati, ma pone anche le condizioni per lo scioglimento dei 50 mila enti, organi e uffici pubblici operanti nel campo dell’assistenza e beneficenza. Al riguardo, ricordiamo le leggi 18 novembre 1975 n. 764 “Soppressione dell’ente Gioventù italiana” e 23 dicembre 1975 n. 698 “Scioglimento e trasferimento delle funzioni dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia” e, soprattutto, il Dpr 24 luglio 1977 n. 616 “Attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 luglio 1975 n. 382”.

 

Il devastante decreto Craxi del 1985

A causa della caduta della partecipazione di base e del cambiamento di posizione dei partiti di sinistra e dei sindacati Cgil, Cisl e Uil, le istituzioni procedono ad una lenta ma continua riorganizzazione del settore dell’assistenza sociale. Mentre prosegue la predisposizione di servizi alternativi per i minori, gli adulti e gli anziani in grado di autodifendersi, ha inizio, a partire dall’approvazione della legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978, il trasferimento illegale dalla sanità all’assistenza della competenza ad intervenire nei confronti degli anziani cronici non autosufficienti. Gli istituti ricoverano sempre meno bambini e fanciulli normali, e adulti con handicap fisici e sensoriali: i posti disponibili sono occupati dai vecchi colpiti da malattie invalidanti e alterdipendenti, espulsi spesso brutalmente, dalla sanità (35).

Il Consiglio sanitario nazionale, su proposta del sociologo Achille Ardigò, con il voto unanime dei rappresentanti delle Regioni, dei datori di lavoro, dei sindacati Cgil, Cisl e Uil, dei commercianti, degli artigiani, dei coltivatori diretti e degli altri componenti, approva in data 8 giugno 1984 un documento che stabilisce che gli anziani non autosufficienti devono essere allontanati dalle strutture sanitarie per essere inseriti nel contesto assistenziale (case di riposo, residenze protette e strutture similari) allo scopo di ridurre gli oneri del servizio sanitario nazionale nella misura massima del 50%, addebitando la differenza agli utenti (36).

Il citato documento del Consiglio sanitario nazionale è stato la base del devastante decreto emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Bettino Craxi in data 8 agosto 1985.

Nonostante che questo decreto avesse un mero valore amministrativo (37) e quindi non modificasse nessuna delle leggi vigenti e i suoi contenuti fossero chiaramente illegali (dirottamento dei vecchi colpiti da malattie inguaribili e da non autosufficienza dalla sanità all’assistenza, ricovero in strutture quasi sempre non valide e con personale professionalmente non preparato, attribuzione ai ricoverati di pesanti oneri economici, ecc.), non vi furono proteste per cui venne attuato dalle Regioni e dalle Usl. Piena conferma ottenne anche dai Comuni, nonostante che ad essi fossero attribuiti compiti e spese non previsti da alcuna legge.

Realizzato il trasferimento dalla sanità all’assistenza dei vecchi malati cronici, compresi i malati di Alzheimer e gli altri soggetti colpiti da demenza senile, l’illegale e disumana procedura è stata ed è tuttora estesa alle persone colpite da disturbi psichiatrici con limitata o nulla autonomia.

La situazione risultante è quella già descritta nel III capitolo concernente gli utenti illegali dell’assistenza e riassunta nella tabella 1.

In alcune zone del nostro Paese vengono anche rinchiusi nelle Rsa gli handicappati intellettivi gravi privi di sostegno familiare. Ciò avviene soprattutto dove i movimenti di base sono assenti o inattivi.

 

Diritto canonico ed emarginazione

La chiesa cattolica ha emarginato per lungo tempo i suoi figli a causa della origine o della loro condizione psico-fisica.

Fino alla promulgazione (25 gennaio 1983) del vigente diritto canonico, erano attuate le seguenti norme del vecchio codice:

– «Art. 984 - Sono irregolari per difetto: gli illegittimi sia per illegittimità occulta, sia conosciuta se non siano stati legittimati»;

– «Art. 232, par. 2 - Sono esclusi dalla dignità cardinalizia: a) gli illegittimi anche se per susseguente matrimonio siano stati legittimati»;

– «Art. 331, par. 1 - Sui vescovi. Affinché sia idoneo, ognuno deve essere nato da legittimo matrimonio, non però legittimato sia pure da un susseguente matrimonio»;

– «Art. 320, par. 2 - Coloro che accedono alle dignità abbaziali o prelatizie devono avere le stesse qualità che il diritto canonico richiede per i vescovi».

Coloro che erano nati fuori del matrimonio, per poter accedere al sacerdozio, dovevano ottenere una speciale dispensa. Anche gli handicappati erano discriminati dalle disposizioni del precedente codice canonico, che stabiliva:

– «Art. 984, comma 2 - Sono irregolari per difetto gli imperfetti fisici i quali non possono servire al ministero dell’altare sia certamente per debilitazione, sia decentemente per deformità»;

– «Art. 984, comma 3 - Sono irregolari per difetto coloro che sono epilettici o insufficienti mentali e coloro che siano o che siano stati posseduti dal demonio. Se dopo aver ricevuto gli ordini diventano tali e consti con certezza che prima erano liberi, l’ordinario può nuovamente permettere ai suoi soggetti l’esercizio degli ordini ricevuti».

Le suddette norme sono state sostituite dal canone 1029 che così si esprime: «Siano promossi agli ordini soltanto quelli che, per prudente giudizio del Vescovo proprio o del Superiore maggiore competente, tenuto conto di tutte le circostanze, hanno fede integra, sono mossi da retta intenzione, posseggono la scienza debita, godono buona stima, sono di integri costumi e di provate virtù e sono dotati di tutte quelle altre qualità fisiche e psichiche congruenti con l’ordine che deve essere ricevuto».

A sua volta il nuovo canone 1041 stabilisce quanto segue: «Sono irregolari a ricevere gli ordini: 1. Chi è affetto da qualche forma di pazzia o da altra infermità psichica, per la quale, consultati i periti, viene giudicato inabile a svolgere nel modo appropriato il ministero (...)».

 

 

 

(1) Fra virgolette sono riportate le denominazioni dell’Istat.

(2) Nel 1960 erano stati assistiti 392.724 minori in colonie estive con pernottamento, 185.538 in colonie estive diurne e 16.936 in campeggi estivi organizzati per fini assistenziali.

(3) Secondo l’Istat, i bambini dei brefotrofi “in allevamento esterno” e cioè affidati a persone o ad altri istituti al 31 dicembre 1960 erano 92.502, di cui 74.999 riconosciuti da uno o da entrambi i genitori, 17.345 non riconosciuti e 158 legittimi.

(4) Nel 1960, presso strutture per la ricezione diurna (scuole materne, doposcuola, ricreatori, ecc.), erano stati assistiti 1.410.566 minori.

(5) Nel 1960 le presenze nei dormitori pubblici e negli asili notturni erano state 2.829.557.

(6) Elenchiamo solamente le competenze principali.

(7) La denominazione “anormali” è stata tratta dalla documentazione del Ministero dell’interno.

(8) Cfr. Competenze ministeriali in materia di assistenza, “Prospettive assistenziali”, n. 1, gennaio-febbraio-marzo 1968.

(9) Dalla legge sono considerati “inabili al lavoro” non solo i soggetti con gravi menomazioni fisiche, sensoriali, intellettive e con disturbi psichici, ma anche i minori di anni 15 e le persone anziane.

(10) Gli Eca erano strutture autonome rispetto ai Comuni.

(11) Segnaliamo, in particolare i seguenti: Opera nazionale per gli orfani di guerra, Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti dello Stato, Opera nazionale orfani di militari di carriera dell’esercito, Centro di assistenza del ministero Difesa.Marina, Opera nazionale per i figli degli aviatori, Istituto postelegrafonici (orfani dei dipendenti del ministero delle poste e delle telecomunicazioni), Opera di previdenza a favore del personale delle Ferrovie dello Stato, Opera nazionale di assistenza per gli orfani dei militari dell’arma dei carabinieri, Ente nazionale di assistenza per gli orfani dei militari della guardia di finanza, Fondo d’assistenza, previdenza e premi per il personale della pubblica sicurezza, Ente nazionale di assistenza magistrale (orfani di maestri, ispettori didattici e scolastici), Istituto nazionale “Giuseppe Kirner” (orfani dei professori di scuola media), Istituto nazionale Umberto e Margherita di Savoia (orfani operai deceduti per infortuni sul lavoro), Ente per l’assistenza agli orfani degli agenti di custodia, Opera nazionale di assistenza ai vigili del fuoco, Istituto nazionale assistenza dipendenti enti locali, Fondazione figli degli italiani all’estero, Ente nazionale per l’assistenza alla gente di mare, Opera nazionale per l’assistenza agli orfani di sanitari italiani, Opera nazionale per il mezzogiorno d’Italia (orfani di guerra dell’Italia meridionale), Istituto “Andrea Doria” (orfani dei marinai morti in guerra), Associazione nazionale famiglie caduti e mutilati dell’aeronautica, Opera nazionale invalidi di guerra, Associazione nazionale combattenti e reduci, Associazione nazionale ex internati, Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati, Opera nazionale per l’assistenza agli orfani anormali psichici, Ente nazionale per l’assistenza degli orfani delle zone di confine, Ente nazionale per l’assistenza agli orfani dei lavoratori italiani (finanziato quest’ultimo da trattenute sulle paghe dei lavoratori).

(12) Nella seduta della Camera dei deputati del 17 febbraio 1982, l’On. Marisa Galli aveva dichiarato che i beni mobili ed immobili delle Ipab ammontavano in quel periodo a 30-45 mila miliardi.

(13) Conferenza stampa del Gruppo parlamentare comunista sul tema “Bilancio 1974 - Miliardi per non assistere - Gli enti inutili e dannosi per l’infanzia”, Roma, 12 dicembre 1973.

(14) Le istituzioni caritative e assistenziali operanti sulla sfera di azione della Chiesa cattolica erano 13.027.

(15) Salvatore Lener, Lo Stato sociale contemporaneo, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma, 1996.

(16) Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera, Il paese dei celestini - Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, Torino, 1973.

(17) Ibidem.

(18) L’ordinanza del giudice istruttore Alibrandi è stata commentata da Giorgio Battistacci “Assolto per aver violato la legge sull’adozione speciale”, in Prospettive assistenziali n. 30, aprile-giugno 1975. Nello stesso numero è stato riportato integralmente il provvedimento in oggetto.

(19) Si veda, ad esempio, John Bowlby, Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Editrice Universitaria, Firenze, 1962.

(20) Cfr. Gianni Alasia, Gianni Freccero, Mario Gallina e Francesco Santanera, Assistenza, emarginazione e lotta di classe: ieri e oggi, Feltrinelli, Milano, 1975.

(21) Il testo della proposta di legge è riportato su Prospettive assistenziali, n. 5/6, gennaio-giugno 1969.

(22) La testimonianza di Roberto è stata pubblicata su “Com-Nuovi tempi” del 27 giugno 1983. Si veda, altresì, l’articolo “Nuovi istituti, vecchia emarginazione e gli stessi danni. La storia di Roberto e Piero per continuare a riflettere”, in Prospettive assistenziali, n. 78, aprile-giugno 1987. Si tenga presente che in quel periodo, il Cottolengo richiedeva al momento dell’ammissione, che venisse sottoscritta la seguente dichiarazione: “Io sottoscritto faccio rispettosa domanda alla Direzione della Piccola casa della Divina Provvidenza di essere accolto nella Famiglia invalidi, promettendo, da parte mia, di accettarne liberamente l’ordinamento che mi verrà imposto”.

(23) Infatti il padre generale del Cottolengo, Luigi Borsarelli, in data 19 settembre 1974, scrive a Roberto la seguente lettera: «Don Elia ha voluto sottoporre al mio giudizio il tuo caso di coscienza. Come risposta ho espresso a lui il mio parere e lo esprimo adesso anche a te: che io non mi sento di importi d’autorità di compiere un atto che non sia sincero e spontaneo, però desidero anche dirti che lascio a te tutta la responsabilità di una simile decisione presa in questa casa che ti ospita. Mi è stato anche detto che è da alcuni anni che hai chiesto ai tuoi superiori di esimerti dal compiere un gesto che, per te, è solo una formalità esteriore: devo darti atto che sei stato ossequiente a quanto ti è stato chiesto, però anch’io condivido la loro preoccupazione; se tu sei maggiorenne, lì con te ci sono dei ragazzi non sufficientemente maturi, portati per età a scegliere ciò che è più comodo, e non cjò che è un serio impegno religioso. Non vorrei che il tuo esempio fosse per loro un pretesto per chiedere come te l’esenzione da quello che sentono un peso, senza una matura convinzione personale, mentre io ci tengo che con il pane della Divina Provvidenza abbiano ad assimilare anche un po’ di formazione religiosa che li accompagni, se è possibile per tutta la vita: ci impegnamo gratuitamente ad un servizio di carità proprio per poter comunicare un dono spirituale che noi riteniamo il più prezioso. Quindi ti chiederei di scegliere un ambiente di tutti adulti dove la tua libertà in fatto di pratica religiosa dia meno motivo di meraviglia. Se vuoi andar nell’infermeria S. Giuseppe dove so che ci sono dei letti vuoti e dove saresti ancora sempre della famiglia invalidi, io sarei contento, basta che ti metta d’accordo con il tuo rettore. Spero che vorrai accettare questa soluzione che non lede i tuoi diritti e risolve pacificamente il tuo problema».

(24) Per quanto riguarda le barriere architettoniche, il regolamento di attuazione che doveva essere emanato «entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge», venne promulgato solamente dopo ben sette anni (Dpr 27 aprile 1978 n. 384).

(25) In base alla legge 482/1968 i lavoratori diventati invalidi durante lo svolgimento di attività lavorativa non erano conteggiati nella percentuale di handicappati aventi diritto al collocamento obbligatorio. Ciò anche allo scopo di incentivare la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.

(26) Per ciascuna delle categorie di handicappati (invalidi di guerra, per servizio, del lavoro, civili, ecc.) la legge 482/1968 prevedeva una percentuale per il collocamento obbligatorio. Nel caso in cui una categoria non avesse iscritti, era previsto che la relativa percentuale potesse essere trasferita a favore di altri.

(27) Incredibile la giustificazione sostenuta da Doriana Giudici, responsabile del settore nazionale del mercato del lavoro della Cgil, a seguito delle numerose e vive proteste delle associazioni degli handicappati: «Può essere successo che alle due di notte, nel momento in cui il gruppo ristretto dei tre segretari, dei dirigenti della Confindustria e dei Ministri hanno firmato l’accordo, il foglio sia stato firmato per errore». Al riguardo va segnalato che Cgil, Cisl e Uil non hanno mai smentito ufficialmente l’accordo. Secondo G. Selleri, presidente dell’Aniep «il blocco delle assunzioni degli handicappati fu contrattato dai Sindacati in cambio della rinuncia da parte della Confindustria a non insistere sulla questione del primo giorno di malattia» (cfr. Orizzonti aperti, n. 1-2-3, 1984).

(28) Mentre è giusto riconoscere il diritto al lavoro anche degli handicappati con capacità lavorativa ridotta, ma proficua ai fini produttivi, è ovvio che a coloro che non sono in grado di svolgere una valida attività operativa dovrebbero essere garantite dagli enti pubblici prestazioni di assistenza sociale.

(29) Si osservi che Pellegrino Capalbo fa riferimento non solo a tutti gli handicappati, compresi quelli con piena capacità lavorativa, ma anche agli svantaggiati, e cioè a coloro che presentano difficoltà di qualsiasi natura.

(30) Associazione per la lotta contro le malattie mentali - Sezione autonoma di Torino, La fabbrica della follia - Relazione sul manicomio di Torino, Einaudi, Torino, 1971.

(31) Come è noto, il Parlamento aveva approvato la legge 180/1978 per evitare il referendum proposto dal Partito radicale per l’abrogazione della legge manicomiale 14 febbraio 1904, n. 36.

(32) Nella relazione è scritto che sono stati circa 80 mila i pazienti che hanno lasciato gli ospedali psichiatrici dopo il 1980; un terzo di questi è deceduto e gli altri sono stati inseriti in comunità terapeutiche o riabilitative, in RSA, in istituzioni geriatriche o in strutture private. Alla data del 16 luglio 1997 risultavano ricoverate in istituti manicomiali ancora 17.078 persone, di cui 11.892 presso strutture pubbliche e 5.186 in strutture private.

(33) Ricordiamo, inoltre, le leggi istitutive della pensione sociale e dell’assegno di accompagnamento, la riforma del diritto di famiglia, la creazione dei consultori familiari e lo sviluppo della scuola materna e degli asili nido.

(34) Cfr. l’articolo “Criterio unitario nell’assistenza” in I diritti dell’invalido civile, ottobre 1970.

(35) La disumana riorganizzazione dell’assistenza era stata segnalata tempestivamente da Prospettive assistenziali nell’editoriale “I nulla” del n. 64, ottobre-dicembre 1983, ma nessuno aveva ed ha raccolto il grido di allarme.

(36) Il Consiglio sanitario nazionale sapeva benissimo che si trattava di anziani malati. Infatti nel documento era precisato che «storicamente il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero o paraospedaliero».

   (37) Cfr. la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 10150/1996.

 

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