Prospettive
assistenziali, n. 128, ottobre-dicembre 1999
Editoriale
il
testo di legge sui servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli e ignora
la prevenzione dell’emarginazione
Come abbiamo segnalato nell’editoriale dello scorso
numero di Prospettive assistenziali,
il testo di legge concernente “Disposizioni per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali” presenta aspetti estremamente
negativi.
In primo luogo sottrae ingenti risorse ai poveri per
darle anche ai ricchi. Infatti, dispone l’abrogazione delle disposizioni,
vigenti dal 1890, che destinano esclusivamente alle persone ed ai nuclei
familiari in gravi difficoltà socio-economiche i patrimoni immobiliari e
mobiliari delle IPAB, Istituzioni pubbliche d’assistenza e beneficenza,
ammontanti a ben 37 mila miliardi, ed i relativi redditi, prevedendo che i
suddetti beni e rendite possano essere utilizzati a favore di tutti i
cittadini, compresi quelli che hanno disponibilità finanziarie sufficienti per
provvedere autonomamente alle proprie esigenze.
In secondo luogo viola la Costituzione, il cui primo
comma dell’art. 38 sancisce quanto segue: «Ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Il testo in oggetto non
stabilisce alcun diritto esigibile per le persone (minori senza famiglia,
handicappati intellettivi con limitata o nulla autonomia e privi del sostegno
dei genitori, ecc.) che, se non ricevono prestazioni di assistenza sociale non
possono continuare a vivere (si pensi, ad esempio, ai neonati trovati vivi nei
cassonetti della spazzatura) o cadono inevitabilmente nel baratro
dell’emarginazione sociale. Addirittura, cancella i limitati diritti promulgati
dalla legge 2838 del 1928 e dai regi decreti 773 del 1931 e 383 del 1934 (1).
In terzo luogo, il testo in esame prevede il
trasferimento della competenza ad intervenire, nei confronti degli anziani
colpiti da malattie invalidanti (cancro, demenza, pluripatologie, ecc.) e da
non autosufficienza, dalla sanità (che attualmente deve curarli in base a leggi
vigenti dal 1955) all’assistenza, con le seguenti conseguenze:
• passaggio dalla gratuità al pagamento da parte dei
degenti di rette ammontanti anche a 100-140 mila lire al giorno;
• perdita del diritto esigibile alle cure sanitarie,
ricoveri compresi, e assegnazione degli interventi alla discrezionalità
dell’assistenza e quindi con l’inserimento nelle liste di attesa, anche di 2-3
anni, per il ricovero in case di riposo e altre strutture assistenziali
(residenze protette, ecc.).
In quarto luogo, mentre le autorità governative e
parlamentari continuano a ripetere che non vi sono risorse economiche
sufficienti per riconoscere il diritto all’assistenza (spesso si tratta
addirittura di garantire la sopravvivenza!) per i cittadini più bisognosi, il disegno
di legge prevede che le prestazioni dei servizi sociali possano essere rivolte
non solamente a tutti i cittadini italiani, compresi quindi quelli benestanti,
ma anche ai soggetti abbienti appartenenti all’Unione europea ed ai loro
familiari, nonché agli stranieri presenti in Italia per motivi di lavoro e in
possesso di regolare permesso di soggiorno, o in attesa di rinnovo dello
stesso.
In sostanza, non esistono i finanziamenti per i
servizi rivolti ai bisognosi (2-3% della popolazione); ci sono, invece, per
quelli (indubbiamente di maggiore entità!) rivolti a tutti i cittadini.
Incredibile, ma vero!
Campo di
azione degli interventi e servizi sociali
In base all’art. 2 del testo unificato “Disposizioni
per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, il
campo d’azione di questo nuovo settore di attività è estremamente ampio, quasi
illimitato.
Infatti, ai sensi del 2° comma dell’art. 1, per
interventi e servizi sociali si devono intendere «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di
servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a
rimuovere e superare le situazioni di disagio e di difficoltà che la persona
umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal
sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede
di amministrazione della giustizia» (2).
Ne consegue che il nuovo settore può svolgere funzioni
nei campi della casa, della scuola, della formazione professionale, dei trasporti,
del tempo libero, della cultura, ecc. Si creeranno, pertanto, assurde
interferenze e complicazioni con le attuali strutture amministrative e il
relativo personale, a tutto danno dei cittadini.
Inoltre, i Comuni potrebbero istituire attività
rivolte anche se non soprattutto a coloro che posseggono risorse economiche
sufficienti per soddisfare i propri bisogni fondamentali, come, ad esempio,
laboratori di danza, di pittura, di teatro e di musica, turismo cittadino ed
extra-urbano, soggiorni di vacanza per minori, adulti e anziani, ecc. (3).
Servizi
sociali a pagamento
È puerile l’affermazione secondo cui i servizi
verrebbero forniti solo a pagamento a coloro che hanno adeguati mezzi economici
e che, in questo modo, i costi non graverebbero sulla finanza pubblica.
È puerile in quanto non c’è nel nostro Paese una sola
prestazione sociale erogata dal settore pubblico, direttamente o tramite enti
privati convenzionati, che sia stata o sia pagata dai cittadini benestanti in
base al costo sostenuto dagli enti pubblici.
Ne deriva che lo sviluppo dei servizi istituiti per i
suddetti utenti determinerà maggiori oneri economici a carico dello Stato.
Secondo alcuni, l’assistenza domiciliare è un servizio
sociale che il settore pubblico dovrebbe garantire a pagamento anche ai
benestanti. L’effettivo costo orario, comprendente tutte le spese dirette e
riflesse, si aggira per la gestione diretta o convenzionata sulle 25-30 mila
lire. È ovvio che, invece di pagare queste somme, i benestanti si rivolgeranno
al settore privato e soprattutto alle collaboratrici familiari che lavorano in
nero, le cui richieste non superano le 10-15 mila lire all’ora.
Se il servizio venisse fornito ai benestanti dall’ente
pubblico a prezzi inferiori al costo effettivo, si ripeterebbe ancora una volta
l’abuso, già molto esteso, dell’assistenza erogata alle persone ed ai nuclei
familiari che hanno i mezzi per provvedere autonomamente alle loro esigenze
(4).
Sul piano generale, occorrerebbe, altresì, tenere
conto che in moltissimi casi non solo le prassi clientelari, ma anche le leggi
vigenti consentono ai benestanti di beneficiare di prestazioni che dovrebbero
essere rivolte esclusivamente alle persone ed ai nuclei familiari in condizioni
di bisogno (5).
Estendere i servizi sociali a tutti i cittadini
significa nei fatti privilegiare coloro che hanno più forza contrattuale e,
quasi sempre, minori esigenze.
Ignorata la
prevenzione del bisogno assistenziale
Com’è ovvio, se è necessario predisporre i necessari
interventi per le persone e per i nuclei familiari in difficoltà
economico-sociali, dovrebbero essere assolutamente prioritarie le iniziative
rivolte alla prevenzione delle situazioni di disagio e di povertà.
Occorrerebbe, dunque, operare affinché i settori
fondamentali e insostituibili della vita (sanità, casa, scuola, formazione
professionale, trasporti, previdenza, ecc.) fossero concepiti e organizzati in
modo da rispondere alle esigenze di tutti gli utenti, compresi
– evidentemente – quelli in difficoltà.
Le esperienze acquisite nella lotta contro
l’emarginazione sociale dei più deboli dimostrano in modo incontrovertibile che
le iniziative che sono state di maggior aiuto per le persone in gravi
condizioni personali e sociali non sono state quelle relative all’assistenza o
ai servizi sociali, bensì quelle riguardanti la riabilitazione, l’inserimento
scolastico degli allievi con handicap, la costruzione di case dell’edilizia
economica, la non creazione e l’abbattimento delle barriere architettoniche, il
collocamento obbligatorio al lavoro, l’adozione dei minori privi di sostegno
morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi,
l’erogazione della pensione sociale, ecc. È questa un’ulteriore conferma che la vera prevenzione dell’esclusione non
si realizza quasi mai con gli interventi dei servizi sociali e dell’assistenza
(preposti proprio alla gestione delle persone e dei nuclei familiari posti ai
margini della società), ma operando affinché tutti i settori di interesse
sociale (sanità, scuola, ecc.) siano predisposti in modo da accogliere
pienamente anche i soggetti più deboli.
Per quanto concerne il lavoro, esso dovrebbe essere
assicurato anche ai soggetti con handicap, compresi quelli che garantiscono un
rendimento proficuo per l’azienda, anche se inferiore alla media dei lavoratori
non colpiti da menomazioni.
Certamente, per poter garantire adeguati interventi a
coloro che presentano gravi difficoltà socio-economiche, occorre reperire le
risorse necessarie, inziativa che – in primo luogo – dovrebbe comportare
l’abolizione dei numerosi privilegi e abusi: soppressione dell’integrazione al
minimo delle pensioni INPS nei confronti di coloro che dispongono di patrimoni
e/o redditi sufficienti per vivere, analoga iniziativa per quanto riguarda gli
assegni e le pensioni sociali e di invalidità (6), blocco della concessione del
reddito minimo di inserimento a coloro che posseggono patrimoni, compreso
l’alloggio in cui vivono. A coloro che non hanno redditi, ma posseggono
l’alloggio in cui abitano non dovrebbero essere erogati contributi a fondo
perduto, ma prestiti da rimborsare in occasione del superamento della
situazione di bisogno o all’apertura della successione ereditaria.
Invece di richiamare la prevenzione come intervento
prioritario, il testo attualmente all’esame dell’Aula di Montecitorio persegue
altre finalità. Infatti, al di là delle affermazioni di comodo, non solo non
individua alcuna attività di prevenzione, ma pone le basi per creare un sistema
di controllo sociale nei confronti dei soggetti più deboli.
Non ci azzardiamo a sostenere che la suddetta finalità
sia prevista allo scopo di penalizzare le persone incapaci di autodifendersi: è
anche possibile che i Parlamentari che hanno partecipato alla redazione del
testo ritengano che questa modalità sia la migliore soluzione attualmente
praticabile per i suddetti soggetti.
Malati di
Alzheimer e anziani cronici non autosufficienti
Per quanto riguarda i malati di Alzheimer e sindromi
correlate e gli anziani sofferenti a causa di altre infermità inguaribili
(circa 500-800 mila persone), riprendendo quanto abbiamo già affermato,
ricordiamo che l’art. 15 del testo in esame prevede che restino ferme «le competenze del Servizio sanitario
nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione per le patologie
acute e croniche, particolarmente per i soggetti non autosufficienti».
Questa formulazione non conferma, come potrebbe
apparire a prima vista, la totale (o almeno la primaria) competenza del
Servizio sanitario nazionale, così come avviene per i malati giovani e adulti.
Stabilisce, invece, che il Servizio sanitario
nazionale deve intervenire esclusivamente per quanto concerne le prestazioni
mediche, infermieristiche e riabilitative e non in merito a tutti gli altri
aspetti.
Inoltre – fatto importantissimo – per le altre competenze
riguardanti il soggetto malato (ammissione, scelta del posto letto, dimissione,
norme sulla idoneità dei locali, qualificazione e numero degli addetti, oneri
economici a carico dell’utente, ecc.) le disposizioni di riferimento non sono
più quelle del Servizio sanitario nazionale, ma del settore assistenziale.
Di conseguenza, l’utente non ha più il diritto
esigibile alle cure del Servizio sanitario nazionale, ma le sue istanze
rientrano nel settore dell’assistenza/beneficenza, le cui prestazioni sono –
salvo casi del tutto eccezionali – di gran lunga meno valide rispetto a quelle
che la legge impone alla sanità.
Sulla base delle suddette considerazioni, si è
arrivati al punto che nella Regione Emilia-Romagna il responsabile dell’anziano
malato cronico non autosufficiente (colpito da cancro o da demenza o da altre
gravi patologie) non è un medico, ma un assistente sociale!
Infatti il primo comma dell’art. 18 della legge della
Regione Emilia-Romagna 3 febbraio 1994 n. 5 dall’altisonante titolo “Tutela e valorizzazione
delle persone anziane - Interventi a favore di anziani non autosufficienti” è
così redatto: «Al fine di garantire
all’anziano non autosufficiente o a rischio di non autosufficienza un corretto
e completo svolgimento del necessario percorso assistenziale, l’assistente
sociale del Servizio assistenza anziani che compie la valutazione di cui alla
lettera a) del comma 1 dell’art. 15 assume la responsabilità del controllo
dell’attuazione degli interventi previsti nel programma assistenziale personalizzato».
A sua volta il sopra citato articolo 15 stabilisce che
il “Settore assistenza anziani” ha il compito di «compiere una prima valutazione della situazione dell’anziano al fine
di avviarlo, secondo il tipo di bisogno, alla rete dei servizi sociali o,
tramite l’Unità valutativa geriatrica, a quella dei servizi integrati
socio-sanitari», servizi che appartengono tutti al settore dell’assistenza
sociale e non fanno parte del Servizio sanitario nazionale.
Ne consegue, altresì, che, mentre i giovani e gli
adulti malati cronici non autosufficienti possono rivolgersi autonomamente ai
servizi sanitari, gli anziani aventi le stesse condizioni di salute sono
costretti a superare lo sbarramento del “Settore assistenza anziani”. Una
gravissima violazione – a nostro avviso – del principio di uguaglianza dei
cittadini stabilito dalla Costituzione e un oltraggio alla dignità delle
persone anziane.
Si tenga, inoltre, in debito conto che l’Assessorato
ai servizi sociali della Regione Emilia-Romagna, allo scopo di occultare la
condizione di “malati” degli anziani malati cronici non autosufficienti, nella
scheda BINA (Breve indice di non autosufficienza), ha inserito fra le
“condizioni di disagio prevalente” (e non fra le malattie!) le neoplasie,
l’ictus, la demenza, i traumi e le fratture.
Con il trasferimento delle competenze primarie dal
Servizio sanitario nazionale all’assistenza stabilito dal testo di legge
attualmente all’esame della Camera dei deputati, ne deriva, inoltre, che mentre
per tutti gli oneri riguardanti i malati giovani o adulti il riferimento è il
Fondo sanitario nazionale, per le persone anziane malate e non autosufficienti
viene previsto dall’art. 15 del testo in esame un finanziamento specifico, da
definire nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali.
Da notare che, ai sensi del 4° comma del sopra
richiamato art. 15 del testo di legge «qualora
le Regioni non provvedano all’impegno contabile delle quote di competenza entro
i termini indicati nel riparto di cui al 2° comma del presente articolo (e
cioè in sede di prima applicazione entro 90 giorni, n.d.r.), il Ministro per la solidarietà sociale, di
concerto con il Ministro della sanità, sentita la Conferenza unificata di cui
all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997 n. 281, provvede alla
rideterminazione e riassegnazione dei finanziamenti alle Regioni».
In parole semplici, se le Regioni sono inadempienti,
non viene nominato un commissario ad acta
incaricato dell’esecuzione dei provvedimenti non assunti, ma sono revocati i
finanziamenti, con le evidenti gravissime conseguenze negative per i vecchi
malati!
Malati
psichiatrici
Purtroppo, in base alle finalità del testo di legge in
oggetto, il dirottamento dai diritti esigibili della sanità alle semplici
aspettative dell’assistenza (o dei servizi sociali) riguarderà certamente anche
i vecchi colpiti da malattie psichiatriche aventi una autonomia limitata o
nulla.
Si tratta di un trasferimento che è effettuato da anni
e che si è intensificato con la prevista chiusura definitiva dei manicomi (7).
Ad esempio, la Regione Piemonte ha deciso alcuni mesi
fa di trasferire alla competenza dell’assistenza (altra dimostrazione delle
nefaste conseguenze della cosiddetta integrazione fra i servizi sociali e la
sanità) ben 550 persone, tutte degenti da oltre venti anni presso strutture
manicomiali. Il pretesto adottato per la loro definitiva esclusione sociale è
stato il cambiamento (improvviso!) della loro condizione da “malati” a
“disabili”.
Anche l’autorità giudiziaria non è intervenuta, come
è documentato in questo numero nell’articolo “I giudici tutelari non difendono
il diritto alle cure sanitarie dei pazienti psichiatrici e degli anziani
cronici”.
Invece di opporsi a questa evidentissima e gravissima
violazione dei fondamentali diritti umani, il Comune di Torino, come hanno
fatto altri enti locali piemontesi indipendentemente dalle forze politiche che
li governano, ha accettato con la delibera n. 9909336/19 del 26 ottobre 1999 di
prendere in carico ben 38 ex degenti presso ospedali psichiatrici, dando in tal
modo anche attuazione all’aberrante principio secondo cui i malati inguaribili
vanno considerati dei poveretti da assistere.
Persone
colpite da handicap
L’art. 14 del testo “Disposizioni per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali” prevede che «per realizzare la piena integrazione delle
persone disabili (...) nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei
normali percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i
Comuni, d’intesa con le Aziende unità sanitarie locali, predispongono, su
richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito
dal comma 2».
Il progetto individuale comprende «oltre alla valutazione diagnostico funzionale, le prestazioni di cura
e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla
persona a cui provvede il Comune in forma diretta o accreditata, con
particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le
misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà,
emarginazione ed esclusione sociale».
Dunque, il testo di legge affida ai servizi sociali,
sia pur su richiesta dell’interessato, il compito di definire d’intesa con le
Aziende sanitarie, gli interventi occorrenti in materia di prevenzione, terapia
e riabilitazione dei soggetti con handicap.
Da un lato c’è una evidente disparità fra i cittadini
privi di menomazioni, per i quali non è prevista alcuna possibilità di
rivolgersi ai servizi sociali, essendo essi ritenuti – giustamente – in
grado di poter accedere direttamente alle prestazioni del Servizio sanitario
nazionale.
Inoltre, non si comprende per quali motivi occorra
appesantire l’iter di accesso alle attività sanitarie, prevedendo la
possibilità di intervento dei servizi sociali, i quali – fra l’altro – se
agissero in modo corretto, dovrebbero dotarsi del necessario personale medico.
Quindi, noi temiamo fortemente che si intendano
attribuire ai servizi sociali funzioni di controllo nei confronti dei soggetti
(e non solo di quelli con handicap) che hanno difficoltà ad ottenere le dovute
prestazioni sanitarie, abitative, scolastiche, formative, ecc.
Se non si volesse esercitare su queste centinaia di
migliaia di cittadini un controllo sociale, come abbiamo già scritto, sarebbe
sufficiente – e a nostro avviso doveroso – adeguare gli uffici preposti alla
sanità, alla casa, alla scuola, alla formazione professionale, in modo da
renderli in grado di rispondere anche alle esigenze della fascia più debole
della popolazione.
Ne deriva, altresì, il sospetto che le ripetute
affermazioni del testo in esame siano dirette non tanto all’aiuto dei soggetti
in difficoltà (risolvibile come abbiamo appena indicato), ma soprattutto al
loro controllo sociale. Al riguardo citiamo alcune parti del testo in oggetto:
• l’art. 3, lettera a, in cui si fa riferimento al «coordinamento
ed integrazione (dei servizi sociali, n.d.r.) con gli interventi sanitari e dell’istruzione, nonché con le politiche
attive di formazione, di avviamento e di reinserimento al lavoro»;
• l’attribuzione alle Regioni nell’ambito dei servizi
sociali rivolti alle persone in situazione di bisogno della «definizione di politiche integrate in
materia di interventi sociali, sanità, istituzioni scolastiche, avviamento al
lavoro e reinserimento nelle attività lavorative, servizi del tempo libero,
trasporti e comunicazioni» (art. 8, lettera b);
• la competenza dei servizi sociali per la «determinazione dei principi e degli
obiettivi della politica sociale attraverso il Piano nazionale degli interventi
e dei servizi sociali» (art. 9, lettera a);
• la delega al Piano nazionale degli interventi e dei
servizi sociali della definizione delle «azioni
da integrare e coordinare con le politiche sanitarie, dell’istruzione, della
formazione e del lavoro» (art. 18, lettera c);
• «le
prestazioni integrate di tipo socio-sanitario e socio-educativo per contrastare
dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura
preventiva, di recupero e reinserimento sociale» (art. 22, lettera h);
• «i percorsi
integrati socio-sanitari tramite servizi e misure economiche per favorire
l’inserimento sociale, l’istruzione scolastica, professionale e l’inserimento
al lavoro di persone con disabilità psico-fisica» (art. 22, lettera i).
Conclusioni
In sostanza, il testo in esame attribuisce ai servizi
sociali non solo il compito di collaborare con gli altri settori di
intervento, ma consente che essi si sostituiscano in tutto o in parte alle
attività della sanità, della casa, della scuola, della formazione professionale,
ecc.
In questo modo, forse perché ritenuti dotati del
potere dell’onnipotenza, i servizi sociali acquisirebbero le capacità
necessarie per fornire adeguate risposte ai soggetti più deboli: anziani malati
cronici, pazienti psichiatrici non autosufficienti, persone senza casa e/o
lavoro, fanciulli che presentano difficoltà scolastiche, ecc.
Un compito certamente irrealizzabile, ma che crea le
condizioni per una gestione emarginante della fascia più debole della
popolazione, in particolare di coloro che hanno capacità di autotutela nulle o
limitate.
Le nefaste conseguenze subite finora dagli anziani
malati cronici non autosufficienti “beneficiari” di una strumentale
integrazione fra i servizi sociali e la sanità, sono evidenti a tutti coloro
che hanno tenuto e tengono gli occhi aperti.
(1) Nel testo in esame è
conservata l’attuale esigibilità dei diritti esclusivamente per quanto riguarda
le erogazioni economiche a carattere permanente.
(2) Fra virgolette è
riportato il 2° comma dell’art. 128 del decreto legislativo 112/1998
(richiamato dal 2° comma dell’art. 1 del testo in esame, così redatto: «Ai sensi della presente legge, per
“interventi e servizi sociali” si intendono tutte le attività previste
dall’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 112»).
(3) A nostro avviso, i
finanziamenti statali e regionali dovrebbero essere destinati esclusivamente ai
soggetti indicati nel citato primo comma dell’art. 38 della Costituzione. A
loro volta, i Comuni dovrebbero utilizzare solo risorse proprie per la
creazione delle attività che potremmo definire accessorie.
(4) Certamente è positiva
l’erogazione del servizio di assistenza domiciliare a persone aventi redditi
limitati. In questi casi può essere giustamente richiesta una contenuta
partecipazione alle spese sostenute dall’ente pubblico.
(5) Cfr. l’articolo “Per
assistere i benestanti i soldi ci sono”, Prospettive
assistenziali, n. 118, aprile-giugno 1997.
(6) A nostro avviso
l’indennità di accompagnamento dovrebbe continuare ad essere erogata
indipendentemente dai beni e dai redditi posseduti, in quanto è finalizzata a
compensare le maggiori spese derivanti dalla presenza di minorazioni.
(7)
Cfr. l’editoriale del n. 124, ottobre-dicembre 1998 di Prospettive assistenziali “L’eutanasia da abbandono: lettera aperta
al Ministro della sanità, On. Rosy Bindi”,
lettera rimasta finora senza alcuna risposta.