Prospettive
assistenziali, n. 129, gennaio-marzo 2000
come sto difendendo il diritto del mio tutelato alla frequenza
gratuita del centro diurno per handicappati
intellettivi
Carlo comini
Sono il
genitore di fatto (in quanto convivo con la mamma) di P.E., un giovane con
ridotte capacità intellettive che all’età di 3 anni è rimasto orfano del padre.
Ora ha 26 anni. Abitiamo a Brescia. Nel 1996 è stato dichiarato interdetto ed
io ho accettato di fare il suo tutore.
La vicenda che sto per presentarvi è iniziata nel maggio
1997 quando è arrivata a casa la cartolina che invitava a presentarsi
all’Ufficio Servizi sociali del Comune di Brescia con i documenti relativi alla
dichiarazione dei redditi, le eventuali spese di trasporto per il CSE, Centro
socio-educativo, e dell’affitto.
Essendo il
tutore, mi sono recato in quell’ufficio, dove mi hanno detto che, in base alla
nuova delibera del Consiglio comunale, la retta prevista per la
compartecipazione al costo del servizio del CSE sarebbe stata ricalcolata e
che, in quanto tutore, avrei dovuto firmare l’impegno di pagamento della
medesima. Al momento io non ho firmato dicendo: “Come faccio a firmare un
impegno di cui non conosco nemmeno la cifra?” (in quanto veniva calcolata in
base al reddito e con una formula abbastanza complicata) e perciò ci saremmo
risentiti quando avessero fatto il conteggio. Dopo l’arrivo a casa della
lettera che stabiliva l’entità della cifra, io aspettai alcuni mesi e comunicai
che non avevo intenzione di fare quella firma, perché ritenevo che in base alle
leggi italiane quel servizio era da ritenersi non a pagamento, per cui non
avrei pagato i bollettini postali che mensilmente mi mandavano.
Passò
quasi un anno e, in occasione del trasferimento di P.E. da un CSE ad un altro
proposto dal NDZH, Nucleo dipartimentale zonale handicap, venni convocato tramite
raccomandata per esplicare le pratiche necessarie per l’inserimento nel nuovo
CSE (tra l’altro con una scorrettezza gravissima, cioè comunicandomi in data 3
giugno 1998 che P.E. dal 28 maggio era dimesso dal CSE che frequentava) e che
l’ammissione al nuovo servizio era subordinata alla sottoscrizione della
richiesta per accedere al servizio e al relativo impegno di pagamento.
Andai e
firmai solo la richiesta per poter accedere al servizio; gli uffici non
comunicarono nulla alla cooperativa che gestiva il CSE, per cui P.E. risultava
non ammesso. Pensavo che non sarebbero arrivati al punto di lasciarlo a casa
dal vecchio CSE da un giorno all’altro perché le dimissioni di una persona da
un servizio come questo, quando non sono selvagge, vengono fatte gradatamente e
possono durare anche mesi (questo io so per certo perché lavoro in un CSE come
educatore). Un altro motivo per cui pensavo che non lo avrebbero lasciato a
casa era perché, essendo stata decisa dal NDZH l’ammissione (servizio dell’USSL
che decide su valutazioni di tipo tecnico qual è il servizio che una persona
deve frequentare, tant’è che se una persona volesse iscrivere in forma privata
il figlio in un determinato CSE non può farlo se non c’è il parere favorevole
del NDZH), nel momento che a livello di uffici comunali hanno subordinato
l’ammissione al servizio alla firma della garanzia, avevano compiuto un’azione
di abuso di potere (per quanto appena menzionato sarei stato contento se mi
querelassero). Però in quel momento non me la sentivo di intraprendere
un’azione giudiziaria.
Il giorno
in cui P.E. è stato lasciato a casa in quanto la cooperativa non se la sentiva
di proseguire l’intervento su di lui perché, risultando dimesso, non aveva più
la copertura assicurativa, sono andato dal Giudice tutelare con alcuni articoli
di giornali dove risultava che su
questo argomento a Monza e a Busto Arsizio alcuni genitori avevano vinto la
causa nei riguardi dei rispettivi Comuni. Ho spiegato al Giudice in primo luogo
che, sia per l’impossibilità come famiglia di gestirlo per tutto il giorno nei
giorni lavorativi, sia per il bene del mio tutelato, era utile che frequentasse
il Centro per poter proseguire nel progetto educativo e di socializzazione che
aveva iniziato; in secondo luogo ho segnalato che il Comune pretendeva la firma
e di conseguenza gli ho chiesto come dovevo comportarmi per poter esercitare
gli stessi diritti dei genitori di Monza e di Busto Arsizio senza danneggiare
gli interessi di P.E.
Il giudice
mi ha risposto: lei firmi e non paghi, aggiungendo in modo molto corretto che
in questo modo avrei avuto la possibilità di esercitare il diritto di
opposizione; ha anche precisato che non poteva garantirmi niente circa l’esito
che la controversia avrebbe potuto avere.
Subito
dopo sono andato a firmare l’impegno di spesa e, solo nel momento che ho
consegnato firmata la cosiddetta garanzia, la funzionaria ha telefonato alla
cooperativa dicendo che P.E. poteva accedere al servizio.
Nello
stesso giorno sono stato sollecitato a pagare la retta dei mesi arretrati
perché altrimenti mi avrebbero dovuto mandare un’ingiunzione di pagamento, cosa
che – ho detto – era da tempo che aspettavo in quanto era il presupposto per
poter intraprendere l’azione giudiziaria di opposizione al pagamento della
retta stessa.
Nei primi
giorni del mese di settembre 1998 arriva l’ingiunzione che ho consegnato
all’avvocato Adriano Scapaticci, che aveva già supportato una quindicina di genitori
della bassa bresciana nel formulare la lettera di disdetta all’impegno che
avevano precedentemente sottoscritto. L’avvocato nel ricorso ha sostenuto che
le leggi 51 del 1982 e 131 del 1983 prevedono che i servizi che hanno come
obiettivo la socializzazione dei soggetti con handicap fanno eccezione a quelli
denominati “servizi alla persona”,
anche perché le relative norme rispondono ai principi costituzionali
previsti dall’art. 38. L’avvocato ha infine evidenziato che queste norme non
sono mai state abrogate.
Nei giorni
seguenti ho chiesto alla Sezione dell’ANFFAS di Brescia, di cui sono socio, di
poter essere sostenuto nell’eventuale pagamento delle spese processuali. In
considerazione dell’interesse generale della questione il Consiglio della Sezione
aveva deliberato un contributo nella misura del 50% delle spese.
Nella
prima udienza il Giudice di Pace, dopo aver sentito gli avvocati, mi ha chiesto
perché mi rifiutavo di pagare; ho detto che vi erano state altre cause
intraprese da genitori per lo stesso problema, che comunque ritenevo che il
carico familiare della gestione di un parente con forte handicap sia già molto
pesante e che era sbagliato penalizzare ulteriormente le famiglie anche in
termini economici. In primo luogo perché molti Comuni calcolano anche il
reddito dei fratelli per determinare la retta (portando ulteriori disparità
rispetto ai componenti delle famiglie dove non c’è nessuna persona con
problemi). L’altro elemento che ho presentato riguardava la disparità rispetto
ad una famiglia normale ed è che, nei momenti di aggressività, oltre alle
difficoltà di riuscire a gestire il congiunto, possono essere provocate rotture
di porte, lavandini, ecc.: anche in questi casi vi sono delle spese aggiuntive
che non derivano dalla normale usura; e, da ultimo, ho sottolineato che il
coinvolgimento emotivo e l’impegno che a volte i fratelli dedicano per
assistere il congiunto handicappato, quando i genitori non riescono a farcela
da soli (soprattutto se si tratta di un genitore solo), debbano essere
riconosciuti come un interessamento che non deve essere penalizzato. Alla
seconda udienza il Giudice di Pace, dopo aver ascoltato gli avvocati, ha detto
che riteneva di aver acquisito elementi sufficienti per decidere sul caso. Nel
marzo 1999 è uscita la sentenza:
rigettava l’ingiunzione emessa dal Comune.
Dopo la
sentenza ho mandato una raccomandata al Sindaco chiedendo che fosse dichiarato
nullo per violazione di norme imperative (quelle per le quali il Giudice mi aveva
dato ragione) l’impegno sottoscritto allo scopo di ottenere la riammissione di
P.E. al CSE. Il Comune di Brescia (di centro-sinistra di nome, non so come
definirlo di fatto) come risposta mi ha mandato una raccomandata speditami
dall’Avvocatura civica e firmata anche dalla Capo della ripartizione dei
Servizi sociali, dove mi si dice che, se io confermo di non voler contribuire
alla retta, l’Amministrazione comunale si vedrà costretta a non pagare la
cooperativa, cercando in questo modo di far ricadere su di me la responsabilità
dell’eventuale dimissione. Ho risposto confermando che ritengo nullo per
violazione di norme imperative l’impegno firmato (che loro stessi hanno dichiarato
essere un contratto unilaterale, e che perciò unilateralmente si può recedere)
e che se loro avessero fatto in modo che P.E. venisse dimesso, mi sarei
riservato di valutare se c’erano gli estremi per un esposto alla Procura della
Repubblica, penso di tipo penale.
Credo che
questa mia lettera abbia dato i suoi frutti, nel senso che non l’hanno dimesso;
purtroppo però con la loro lettera hanno centrato l’altro obiettivo che probabilmente
si erano dati: quello di intimidire gli altri genitori che, dopo la sentenza a
me favorevole, stavano valutando di non pagare la retta, tant’è che il sig.
G.O. mi ha detto: “Vedrà sig. Comini che
dovrà pagare, altrimenti le lasceranno a casa il figlio”.
In
occasione di un programma in diretta di una radio libera bresciana, ho chiesto
al Sindaco se riteneva civile la lettera speditami e quale fosse il suo parere
al riguardo. Si è barricato dietro al fatto che, essendoci una lite giudiziaria
in corso, non poteva pronunciarsi. Non ha nemmeno detto come la pensava,
sollevando le critiche degli ascoltatori.
Dopo
l’incontro avuto con quel genitore (sig. G.O.), ho scritto una lettera a tutti
i Consiglieri comunali in cui li informavo della situazione e chiedevo di
proporre una mozione in Consiglio comunale in cui si precisasse che
l’Amministrazione comunale, nel caso di controversie di tipo economico, si impegnava
di utilizzare esclusivamente le procedure giuridiche per rivalersi delle somme
che riteneva essergli dovute e di non ricorrere più ad atti ricattatori, come
di fatto era la lettera speditami dall’Avvocatura civica.
Questo mio
invito è stato accolto da Rifondazione comunista che ha presentato una mozione
suddivisa in due punti: una prima parte (che è stata approvata) prevedeva che,
in caso di controversie di tipo economico, non ci sarebbe stata alcuna
sospensione del servizio. Nella seconda parte era stabilito che per accedere ai
servizi non si pretendeva più la sottoscrizione dell’impegno di pagamento, ma
solamente la segnalazione da parte degli Uffici delle modalità per l’accesso ai
servizi. Questa parte è stata purtroppo bocciata.
Bisogna
dire che non tutti i mali vengono per nuocere perché, respingendo questa parte
della mozione, l’Amministrazione comunale ha dato il mezzo, ai genitori che volessero
rifiutarsi di pagare, di poter dimostrare in giudizio che erano stati obbligati
a sottoscrivere l’impegno di pagamento, fatto vessatorio che, in caso di
vincita della causa, obbligherebbe il Comune a restituire i soldi da loro già
versati (cosa che non ho potuto fare io perché in precedenza aveva firmato la
mamma di P.E.).
In ogni
caso, essendo stata votata positivamente la prima parte della mozione, alcuni
genitori del Comune di Brescia stanno valutando la possibilità di sospendere il
pagamento della retta se non si sblocca la trattativa in corso tra il Comune
stesso e le associazioni.
Il Comune
di Brescia ha presentato ricorso contro la sentenza del Giudice di Pace
chiedendo che venisse annullata perché la competenza sarebbe del Tribunale amministrativo,
come se si trattasse di un problema di tipo contributivo. Nella replica il mio
avvocato ha ribadito che, essendo una questione di diritto, dovrebbe essere
competenza del Tribunale ordinario; ha evidenziato anche che, in base alle
leggi attuali, l’assegno di accompagnamento non può essere considerato reddito.
Colgo
l’occasione per far sapere ad eventuali genitori di figli con handicap che sei
genitori di Castenedolo (un paese in periferia di Brescia) hanno vinto anche
loro una causa per ora in primo grado; mentre altri tre di Montichiari e due di
Calvisano già da un anno non pagano la retta e in questi ultimi mesi hanno
iniziato un’azione giudiziaria.
A questo
punto vorrei spiegare perché questa azione l’ho fatta da solo e non con gli
altri genitori del Comune di Brescia: cinque anni fa alcuni genitori avevano
presentato ricorso contro un’ingiunzione, ma avevano perduto la causa. Di
conseguenza, quei pochi genitori che conoscevo non se la sentivano di
rivolgersi alla magistratura.
Devo dire
che mi ha aiutato a continuare questa vicenda l’articolo di Carlo Sessano
pubblicato sul
n. 122 di Prospettive assistenziali.
La mia vicenda ha una morale: il cittadino conscio dei propri diritti deve
cercare in ogni modo di farsi rispettare. Anche da solo. Con buona pace di
tutti coloro che, per dar retta a cattivi consiglieri, hanno invece sempre
pagato.
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