Prospettive
assistenziali, n. 129, gennaio-marzo 2000
due forti discorsi del cardinale martini
Riportiamo una sintesi della relazione svolta
dall’Arcivescovo di Milano alla cerimonia inaugurale della prima conferenza
nazionale della sanità (Roma, 24-26 novembre 1999) e del discorso pronunciato
alla vigilia della festa di Sant’Ambrogio, Patrono della Diocesi milanese (6
dicembre 1999) (1).
1. Premesso
che interviene come Vescovo «e quindi a
livello di riflessioni fondative e non di scelte concrete» il Cardinale
Martini, nell’intervento effettuato a Roma, esprime «qualche riflessione sull’etica dello Stato sociale e qualche pensiero
generale sul rapporto tra Stato sociale e società che cambia».
In merito
alla situazione attuale, l’Arcivescovo di Milano, dopo aver affermato che non
c’è dubbio che «ci sia bisogno negli
Stati moderni di un cambiamento da realizzare in modo radicale», ha
precisato che «tale conclusione può
essere foriera di un grave rischio e, insieme, di una grande opportunità. Il
rischio è che, dietro all’affermazione della necessità di una profonda
ristrutturazione dello Stato sociale, si camuffi l’intenzione di cancellare lo
stesso principio di solidarietà tra le diverse fasce della società che lo aveva
ispirato, in nome di una sorta di immediato pragmatismo e di critica
esaltazione dell’individualismo, del puro mercato e dell’iniziativa privata.
L’opportunità, invece, consiste nell’avviarsi decisamente verso la revisione
dei meccanismi e della configurazione dello Stato sociale proprio in nome di
una più reale e sicura tutela dei diritti fondamentali dei soggetti più deboli,
recuperando così la realizzazione delle istanze etiche originarie dello Stato
sociale».
Il
Cardinale Martini ha proseguito sostenendo che «lo Stato sociale, quindi, non va smantellato o dissolto: va
ripristinato e ricostruito attraverso il recupero della centralità di alcuni
valori e di alcuni soggetti».
A questo
riguardo «si tratta di ricordare,
anzitutto, che ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere
soddisfatti mediante i meccanismi del mercato, ci sono esigenze umane
importanti che sfuggono alla sua logica; ci sono dei beni che, in base alla
loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comperare».
Circa i
motivi fondativi dello Stato sociale, l’Arcivescovo precisa: «La prima ragione etica che richiede ed
esige la realizzazione di uno Stato sociale può essere individuata nel diritto
inalienabile di tutti al soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Si tratta – aggiunge
– di un diritto universale, che riguarda
ogni uomo per il solo fatto che è persona; come tale è un diritto che si
manifesta con tutta la sua urgenza nelle persone più deboli, bisognose,
povere».
Di
conseguenza «proprio perché si tratta di
un diritto inalienabile, ci troviamo di fronte a una questione di giustizia e
di verità: non è un problema la cui soluzione può essere lasciata solamente
alla carità volontaria o alla libera iniziativa di qualcuno, che pure sono
importanti e chiedono di essere promossi e valorizzati; è un dovere di stretta
giustizia della società e perciò lo Stato, che ha responsabilità di governo
della società, deve comunque provvedere a che sia adempiuto».
L’Arcivescovo
di Milano incentra la sua riflessione sulla «giustizia
sociale che, da un lato, mira a far sì che a ciascuno, in quanto facente parte
di quel tutto unico e comunionale che è l’umanità, siano garantiti i suoi
diritti inalienabili e che, dall’altro, conduce a esigere da ciascuno la
realizzazione dei suoi doveri fondamentali in armonia con quelli dell’intera
società».
Secondo il
Cardinale Martini, la solidarietà deve essere «intesa come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il
bene comune. Il rispetto e l’attuazione di questo principio, tuttavia, deve
andare di pari passo con la crescita di un’autentica cultura della solidarietà.
È una cultura – puntualizza – che
chiede di superare ogni concezione “assistenziale-sentimentalistica” della
solidarietà stessa e che, nel medesimo tempo, sa riconoscere e mettere in luce
il nesso che intercorre fra efficienza e solidarietà, convinti che
quest’ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di
prossimità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere considerata
anche una “convenienza” per lo stesso funzionamento complessivo della società.
La solidarietà, inoltre, può essere realizzata mediante una pluralità di “reti
di sostegno”, capaci di attuarsi in ordine di una molteplicità di situazioni,
che di per sé non riguardano soltanto i “poveri”».
Secondo
l’Arcivescovo, la ristrutturazione dello Stato sociale «non può certo avvenire accettando quella tendenza radicalmente
neoliberistica che contesta la necessità dell’intervento pubblico e di un
sistema di sicurezza sociale, giungendo a “tagliarli” drasticamente o
addirittura ad abolirli: verrebbero meno, infatti, i principi fondamentali di
giustizia sociale e di solidarietà».
D’altra
parte, precisa che «non si può accettare
l’atteggiamento di chi vorrebbe mantenere lo Stato sociale così com’è,
rigettando ogni ipotesi di riforma strutturale come un tentativo di espropriare
i cittadini dei propri “diritti acquisiti”: in tal modo si darebbe fiato a una
logica sostanzialmente egoista, che finisce col difendere gli interessi corporativi
più forti, a scapito di quelli delle categorie più deboli».
Per una
positiva riforma strutturale dello Stato sociale, ribadisce l’Arcivescovo «va riaffermata la necessità di superare
definitivamente la figura di “Stato assistenziale”, consapevoli che esso,
intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, provoca la perdita
di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da
logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con
enorme crescita delle spese».
Il
Cardinale Martini, «senza prendere
posizione di fronte ai cambiamenti oggi in atto nel sistema sanitario
nazionale», propone alcune linee di riflessione che dovrebbero orientare le
scelte concrete.
Premesso
che «è urgente e necessario riaffermare
la centralità della persona umana (...), la sfida più grande è quella di
rispettare, salvare e promuovere la dignità della persona umana e, in
particolare, di quella persona che si trova in uno stato di sofferenza, di
malattia, di debolezza».
Ne deriva «la necessità di impegnarsi per una
“ripersonalizzazione” della medicina, che favorisca l’instaurarsi di un
rapporto “dalle dimensioni umane” con il malato».
Infatti «ciò che è in gioco è quella umanizzazione
dell’intero sistema sanitario (...). Una umanizzazione sia dei rapporti
medico-malato sia delle diverse strutture sanitarie; ma, ancora più
profondamente, una umanizzazione della condizione del nascere, del soffrire e
del morire».
Per quanto
riguarda l’introduzione in ambito sanitario di criteri gestionali del tipo
aziendalistico, l’iniziativa «è
accettabile e condivisibile se essi sono finalizzati all’ottimizzazione dei
risultati e nella misura in cui servono a ottimizzare l’impiego delle risorse
finanziarie, tecnologiche ed umane».
Tuttavia, «in ogni caso il solo criterio economico non
può essere decisivo e discriminante».
Al
riguardo il Cardinale Martini cita il discorso pronunciato recentemente dal
Papa ai partecipanti alla XIV Conferenza internazionale organizzata dal
Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, che si è espresso nei seguenti
termini: «Non è tollerabile che la
limitatezza delle risorse economiche oggi variamente sperimentata, si
ripercuota di fatto prevalentemente sulle fasce deboli della popolazione e
sulle aree del mondo meno abbienti, privandole delle necessarie cure sanitarie.
Ugualmente non è ammissibile che tale limitatezza conduca a escludere dalle
cure sanitarie alcune stagioni della vita o situazioni di particolare fragilità
e debolezza, quali sono, ad esempio, la vita nascente, la vecchiaia, la grave
disabilità, le malattie terminali».
In merito,
il Cardinale Martini osserva acutamente: «Occorrerà,
per questo, verificare che le numerose “Carte dei diritti del malato” non si
trasformino, nella realtà, in una somma di “diritti di carta”, soprattutto per
persone bisognose, ad esempio, di riabilitazione estensiva o di assistenza a
lungo termine, per persone affette da grave cronicità, che rischiano di essere
escluse dalla tutela della salute».
2. Nel discorso pronunciato in
occasione della festa di Sant’Ambrogio, il Cardinale Martini ha fatto, in
particolare, riferimento ad «un male
oscuro, difficile da nominare, forse anche perché è difficile da riconoscere,
come un virus latente eppure onnipresente. Potremmo chiamarlo col nome di
“pubblica accidia” o di “accidia politica”. È il contrario di quella che la
tradizione classica greca, come pure il Nuovo Testamento, chiamano parresia, libertà di chiamare le cose con il proprio
nome. Si tratta di una neutralità appiattita, della paura di valutare
oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha come conseguenza un
decadimento della sapienzialità politica».
Al
riguardo, ha precisato: «Siamo di fronte
a questo male quando, a un atteggiamento di valutazione responsabile e impegnata
delle diverse proposte culturali presenti nel nostro mondo occidentale, si
sostituisce un aprioristico giudizio di equivalenza formale di ogni progetto o
comportamento e quindi la semplice presa d’atto di una diversità di valutazioni
etiche. Di conseguenza il confronto tra posizioni diverse non dà luogo a quel
dialogare che aiuta a maturare conclusioni condivise, non sfocia in una sintesi
comprensiva. Ciò costringe coloro che hanno responsabilità nella polis, a tutti i livelli, a un lavoro spossante
di bilanciamento delle richieste, anche delle più contraddittorie. Poco conta
allora il peso maggiore che dovrebbero avere le richieste che si appoggiano su
ragioni comprovate dall’esperienza e su un costume consolidato. DI fronte a
esse sta la pretesa, vagamente illuministica, che tutte le opzioni abbiano pari
rilevanza per il costume. È come se le opinioni fossero esposte, l’una accanto
all’altra, come merci uguali in una bancarella delle scelte o in un
supermercato, con la sola differenza che alcune sono più reclamizzate di altre.
Il vizio dell’accidia politica porta a riguardare le diverse opzioni non
secondo il posto che hanno saputo guadagnare dentro la nostra cultura e il
nostro costume, ma come oggetti intercambiabili da scegliersi a piacere secondo
criteri di gradimento.
«Avviene allora che le alte poste in gioco
antropologiche (pensiamo alla vita, alla sessualità, alla famiglia,
all’educazione, al lavoro, alle fragilità sociali) non appena siano affrontate
con un qualche discorso di senso e di valori e si avanzino richieste
conseguenti, vengano rinviate al mittente come attacco a diritti individuali di
“altri”. Non vengono discusse nel merito, ma liquidate sulla base del dogma del
pari valore di ogni opinione o credenza rispetto a credenze diverse od opposte.
Accade così che ci si limiti a esigere rispetto per la propria opinione, senza
impegnarsi a declinare le ragioni per cui quel rispetto vada concesso. In altre
parole il rispetto assoluto dovuto a ogni persona viene confuso con
l’attribuzione aprioristica di una valenza e di una sensatezza identica a
qualunque tipo di proposta. Si ha dunque l’impressione che la proclamazione del
valore del diritto individuale non sia avanzata per garantire pari opportunità
di confronto per le motivazioni di tutte le proposte, ma solo per delegittimare
la possibilità e la serietà del confronto e una possibile soluzione culturale
determinata».
Ne
consegue che «siamo qui di fronte a un
sistema di pensiero che non privilegia né sapienza né intelletto né consiglio,
che confonde la fortezza col semplice consenso di massa, che relega la scienza
e la pietas in settori incapaci di
influire sulla ricerca del meglio» e che la politica «diviene una continua, frammentata e ultimativa richiesta di singoli e
di gruppi di interesse, un succedersi di veti incrociati, che rende faticoso e
alla lunga frustrante il governo della cosa pubblica, per la spinta altalenante
a fare concessioni contrapposte, con un equilibrio sempre instabile. Tutto ciò
destruttura il costume esistente e alla fine introduce surrettiziamente, per
via di fatto e non di motivazioni, un costume nuovo. Se tutte le posizioni
etiche sono equiparate indiscriminatamente, è inevitabile che finisca col
prevalere la posizione che suona immediatamente più facile, più piacevole al
momento e meno impegnativa. Non è più una società “bella e buona” quella a cui
si tende, ma una convivenza fiacca, opaca, frammentata, una società senza
forma».
Il
Cardinale Martini ha quindi rivolto un invito, in particolare ai cattolici,
chiarendo che «la creazione di momenti
innervati dalla concezione altruistica della giustizia può avviare un processo
di normalizzazione sapienziale della politica come ricerca del “bene comune”,
anche con qualche inevitabile sacrificio di beni individuali o di gruppo, ma
insieme con chiarezza sui fini da perseguire coraggiosamente».
Nello
stesso tempo ha asserito che «con pari
coraggio vanno affrontate non solo le avversità, ma anche un certo eccesso di
elogi».
«Tra queste forme pericolose di adulazione – ha
precisato l’Arcivescovo – sta anche la
persuasione o meglio il pregiudizio diffuso che chi opera in politica ispirato
dalla fede debba distinguersi sempre e quasi unicamente per la sua moderazione.
C’è certamente una moderazione buona, che è il rispetto dell’avversario, lo
sforzo di comprendere le sue istanze giuste e anche la relativizzazione
dell’enfasi salvifica della politica. Ma per quanto riguarda le proposte, le
encicliche sociali vedono il cristiano come depositario di iniziative
coraggiose e d’avanguardia. L’elogio della moderazione cattolica, se connesso
con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli
schieramenti, diventa una di quelle adulazioni di cui parlava Ambrogio,
mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un
gruppo, lo spingono al sonno. C’è invece nella dottrina sociale della Chiesa la
vocazione a una socialità avanzata. Essa ha caratteri diversi da quella,
attualmente in auge, di tipo radical-individualistico, libertario
– fautore dei soli diritti individuali – nella quale per lo più viene
fatto risiedere il progressismo. Quella cattolica è piuttosto una socialità di
tipo relazionale, che punta sui diritti della persona, delle comunità a
cominciare dalla famiglia, dei gruppi sociali e infine dello stato di tutti:
una socialità che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso
l’altro. Dentro questo disegno il credente dovrebbe tendere a prendere parte
politicamente per il valore umano più a rischio, che è di solito quello marginale».
(1) Le riflessioni del Cardinale Martini sono state tratte
dagli opuscoli “L’etica dello Stato sociale” e “Coraggio sono io, non abbiate
paura” editi dal Centro ambrosiano, Milano, 1999.
www.fondazionepromozionesociale.it