Prospettive
assistenziali, n. 129, gennaio-marzo 2000
la cura dell’adulto psicotico e la protezione dei suoi figli:
un’integrazione possibile
Damiana massara (1), paolo arnaud (2), maria laura
bracco (2)
Spesso gli
operatori dei Servizi psichiatrici per adulti si trovano in grande difficoltà
di fronte ai figli dei loro pazienti psicotici. Sono infatti consapevoli
dell’obbligo, sia deontologico che legale, di vegliare affinché il loro
sviluppo psicofisico non sia danneggiato dalla patologia dei genitori, ma nello
stesso tempo temono che le misure di tutela dei bambini ostacolino la cura
dell’adulto che costituisce il fine specifico del loro servizio.
La
situazione clinica che verrà illustrata propone la possibilità che, a
determinate condizioni, protezione dei minori e cura degli adulti siano
interventi che, anziché opporsi, si potenzino a vicenda.
Nella rete
di servizi del territorio in cui operiamo è nato da diversi anni un “Gruppo
coordinamento minori”, che si propone di mettere a punto progetti integrati di
presa in carico dei minori in difficoltà e delle loro famiglie.
In tale
prospettiva è stato progettato l’intervento del caso presentato, intervento che
è stato successivamente discusso nel suo svolgimento e valutato nei suoi
sviluppi all’interno di un’iniziativa di aggiornamento sulle famiglie
multiproblematiche condotta da Stefano Cirillo.
I servizi
cominciano a conoscere i problemi della famiglia F. nel gennaio del 1992,
quando i vicini di casa, esasperati, si recano dall’assistente sociale del
Comune dove risiedono per segnalare il disturbo che lo “strano comportamento”
di Pino causa nel caseggiato. Il Sig. Pino ha all’epoca 41 anni, è un
rappresentante di commercio, ha due figli Carlo e Rino di 9 e 3 anni ed è sposato
con la signora Valentina sua coetanea.
A poco a
poco emerge che la stazione dei Carabinieri è inondata di denunce firmate da
Pino, che si sente al centro di una cospirazione orchestrata da una certa
“Minoù” proprietaria di una ditta dei dintorni.
Pino
denuncia tutti. Ha denunciato i proprietari delle automobili che un giorno
l’avevano sorpassato sull’autostrada, nonché l’assistente sociale che ha
cercato di capire cosa stesse succedendo, il comandante dei Carabinieri, la
cartolaia dell’angolo, ecc., tutti
progressivamente implicati nel complotto.
Arriva
addirittura a denunciare il giudice che si occupa del voluminoso fascicolo che
contiene le sue denunce: secondo lui non fa il suo dovere ed è dunque parte
della cospirazione.
Quando il
medico del servizio di salute mentale, messo al corrente della situazione da
parte dell’assistente sociale, convoca i coniugi nel tentativo di comprendere meglio
la situazione, appare chiaro che non vi è alcun margine di contatto né con
l’uno né con l’altra, in quanto anche la signora Valentina è completamente
invischiata nel delirio paranoico e complice acritica delle manovre del marito.
Dalla
scuola, dove l’assistente sociale si reca per un’indagine, inizialmente
giungono notizie secondo cui i bambini stanno bene: durante la loro permanenza
in classe non emergono difficoltà particolari, a parte una leggera balbuzie di
Carlo che comunque viene poco considerata dalle maestre, che sottolineano
invece la sua vivace intelligenza.
In
seguito, in modo confuso e contraddittorio (come se le maestre temessero,
parlando, di scatenare la reazione di Pino) risulta che c’è stato qualche
strano episodio in cui Pino ha esplicitamente agito le sue preoccupazioni
persecutorie, ma di tutto ciò nulla è stato mai possibile chiarire in una segnalazione
precisa.
Il
fratello e la sorella di Valentina, sentiti dalla assistente sociale, sembrano
non volersi immischiare in qualcosa che non considerano “fatti loro”; pur
frequentando la famiglia F. con regolarità, mantengono un certo distacco,
mostrando di non essere particolarmente preoccupati dagli inquietanti discorsi
del signor F. e della situazione di Valentina.
La
famiglia di Pino non vuole neanche parlare con il servizio.
Il quadro
della situazione continua ad aggravarsi con l’approfondimento della conoscenza
che il servizio ne ha.
La
preoccupazione per le condizioni in cui vivono i bambini è sempre maggiore:
dalle copie delle denunce che vengono fornite dagli organi giudiziari emerge,
tra l’altro, che Pino si lamenta di dovere comunicare in casa per mezzo di
bigliettini, anche con i figli, perché le spie li controllano in permanenza
(solo il bagno è zona franca), e di avere dovuto coinvolgere il figlio maggiore
in episodi spiacevoli di scontro con i suoi persecutori e di fuga dagli stessi.
Si prospetta
un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) contemporaneo dei coniugi che pone
non pochi interrogativi e preoccupazioni. È indispensabile procedere ad un
allontanamento dei bambini, e nello stesso tempo prendersi cura dei parenti
adulti tanto resistenti ad ogni proposta terapeutica.
Tra mille
esitazioni e problemi pratici, infine la decisione viene presa: informato il
Tribunale per i minorenni di competenza, il servizio sociale prepara una rete
di protezione per i bambini, individuando una famiglia affidataria e il
servizio di salute mentale predispone il ricovero.
Il giorno
programmato per il TSO, i coniugi F. sono convocati nella Stazione dei
Carabinieri e affidano i figli alla sorella di Valentina che, in seguito agli
eventi della giornata, si offre di occuparsene con il placet del Tribunale per
i minorenni.
Il
ricovero si svolge senza particolari incidenti. Fin da subito, Valentina si
distingue dal marito esprimendo il suo sollievo per l’intervento del servizio
quasi lo stesse aspettando da tempo.
Nel giro
di pochi giorni Valentina, con una adeguata terapia farmacologica, è in grado
di criticare l’impianto delirante e di uscire dall’ospedale, ospite del
fratello e poco distante dalla sorella a cui sono affidati i bambini.
La
famiglia della sorella di Valentina ha già tre figli più o meno dell’età dei
bambini F., ma riesce egregiamente a integrarli nel già complicato ménage famigliare, con l’appoggio della
psicologa del Consultorio familiare che si occupa di seguire gli affidamenti.
Una
psicologa del servizio di salute mentale programma intanto colloqui di sostegno
con il fratello e la cognata con cui vive Valentina.
Invece,
all’uscita dal reparto, dopo un mese di degenza, la condizione sintomatologica
di Pino, purtroppo, è quasi invariata; nonostante la terapia neurolettica
l’impianto delirante è inalterato e il paziente sembra solo avere “imparato”
che deve stare zitto per evitare guai; accetta supinamente gli appuntamenti
settimanali con lo psichiatra curante, che integra nel sistema persecutorio come
emanazione di “Minoù”.
Valentina,
invece, utilizza i colloqui con la sua psichiatra per uscire dalla trappola
delirante in cui è caduta.
I colloqui
hanno permesso infatti di ricostruire la dinamica della “folie à deux” e sostenere Valentina nel suo difficile percorso.
Valentina
è la primogenita di una famiglia con tre figli; si descrive come fragile,
dipendente e bisognosa del sostegno e dell’approvazione materna. Racconta che
la mamma aveva sposato il padre rompendo i ponti con la propria famiglia che lo
disapprovava e si era così ritrovata sola e intrappolata in un rapporto che
secondo Valentina non rendeva merito alla sua intelligenza e alle sue capacità.
Sembra che il padre fosse un uomo molto bello, anche se violento; a Valentina
non piaceva affatto, mentre adorava il nonno che ne aveva fatto le veci nei
primi tre anni di vita, quando i genitori erano emigrati all’estero per lavoro
lasciandola con i nonni paterni.
Valentina
presenta la madre come una donna sola e infelice, di cui ricorda i pianti e la disperazione.
In adolescenza, lei e la sorella minore avevano sentito il peso della
solitudine della madre, che boicottava la loro vita sociale, gelosa dei loro
rapporti al di fuori della famiglia: era come se sentisse che questi le
portavano via le figlie, da cui si aspettava compensazione e compagnia.
Nonostante tutto Valentina aveva conseguito il diploma di ragioniera, aveva
trovato lavoro e si era sposata con Pino.
Dai
colloqui con il fratello, molto preoccupato dalla forma e dalle apparenze
sociali, emerge l’atteggiamento dei familiari verso questo matrimonio; era un
po’ come se “averla sposata”, cioè sistemata, sollevasse loro dalle
preoccupazioni. Anziché metterla in guardia contro il marito, affermava che
doveva considerarsi fortunata: Pino era un buon partito, di bell’aspetto,
guadagnava bene, aveva un buon lavoro, una casa e una macchina.
Quando,
all’età di 24 anni, Valentina aveva conosciuto Pino, non aveva fatto caso ai
suoi strani discorsi che comunque ricordava come sporadici. Il suo incontro con
Pino era giunto alla fine di una lunga resistenza alle pressioni paterne che
rifiutava violentemente (a suon di ceffoni) di imparentarsi con persone
meridionali, mentre tutti i ragazzi a cui Valentina si era interessata erano
proprio meridionali.
Le figlie
erano “costrette” a presentare in famiglia le persone che frequentavano pena il
divieto di uscire; quindi la disapprovazione del padre per le scelte di
Valentina era pesante e continua. La sera che Pino cominciò a corteggiarla
c’era un altro ragazzo che l’attraeva, ma era meridionale e così lei aveva
“ripiegato” su Pino.
Valentina
definisce il rapporto coniugale privo di passione, basato sulla consuetudine e
l’affetto, era un rapporto tranquillo ma sostanzialmente insoddisfacente tanto
che dopo il primo anno di matrimonio era arrivata al punto di decidere di
lasciarlo; aveva poi ceduto alle suppliche di Pino che, piangendo, le
prometteva che sarebbe cambiato. Lei pensava che in fondo, dandogli una
famiglia, poteva essergli utile e così spiega perché è rimasta.
Dopo
alcuni anni di matrimonio aveva lasciato il suo lavoro per fare la segretaria
del marito. Era incinta del secondo figlio proprio nel periodo in cui perdeva,
in rapida successione, entrambi i geni-tori.
Pino, nel
frattempo, aveva intensificiato i suoi aspetti paranoici: quando rientrava dal
lavoro le “riferiva” che fuori dicevano che lei era antipatica e presuntuosa e
la martellava con le proprie convinzioni che ormai manifestava in modo
massiccio.
Dopo il
decesso della madre, preceduto da una lunga e dolorosa malattia, Pino le poneva
l’aut-aut: “o sei con me o non ci sei più”.
Valentina
ricorda di essersi sentita particolarmente vulnerabile e sola, e di avere
ceduto per non sentirsi completamente abbandonata.
Il lavoro
di sostegno di Valentina e l’elaborazione delle sue vicende familiari, accanto
al trattamento farmacologico, ha permesso alla signora di riconquistare un
equilibrio tale per cui, dopo un anno le sono stati affidati i bambini con la
clausola che Pino non viva insieme a loro e incontri i figli solo durante
visite periodiche organizzate dall’assistente sociale del Comune nei locali del
servizio.
Dopo il
ricovero, nel periodo in cui Valentina cerca di risalire la china del baratro
in cui è caduta, suo fratello fa presente ai curanti che vi sono dei problemi
economici e l’unica soluzione adeguata, a suo parere, è quella di ricostruire
la famiglia nucleare originaria, rimettendo Pino in condizione di lavorare e,
soprattutto, di guadagnare bene come prima.
Forse il
maggiore problema che abbiamo dovuto affrontare nella gestione di questo caso,
è stata proprio la pressione dei familiari al ricongiungimento della coppia e
alla “normalizzazione” della famiglia.
La pena
che provano per il cognato che vive da solo, ma anche la sostanziale sfiducia nelle
possibilità di Valentina di cavarsela da sola (forse il dubbio di doversi fare
carico del suo mantenimento), li ha spinti ad accusarci di insensibilità e
faciloneria e a fare pressioni su Valentina perché si facesse carico
dell’infelice Pino.
In questo
clima, Valentina deve affrontare le proprie difficoltà a separarsi anche
legalmente da Pino, verso cui sente una rabbia violenta, ma anche compassione e
sensi di colpa per la disperata solitudine in cui lo lascia la separazione di
fatto.
La
sentenza del Tribunale per i minorenni che impedisce la convivenza dei coniugi,
a protezione dei bambini, è funzionale allo sforzo di Valentina, che non
avrebbe avuto altrimenti la possibilità emotiva di compiere un tale gesto e che
continua tuttora ad occuparsi di Pino accudendone la casa e proseguendo nella
sua funzione di segretaria.
Nel
frattempo, è stata sospesa la terapia neurolettica di Valentina, che si dà da
fare procurandosi lavori saltuari, come stiratrice o baby-sitter, e si
reinserisce nell’ambiente sociale del paese superando le difficoltà del primo
impatto.
Infine
comincia ad esprimere la fantasia di un nuovo e diverso incontro sentimentale,
pur con tutti i timori e le precauzioni del caso.
Non è
nostra intenzione fare del facile trionfalismo ma, la difficile situazione che
abbiamo conosciuto quattro anni fa appare ora stabilizzata in senso positivo,
insperato all’inizio. I bambini, infatti, vivono stabilmente con la madre e
mostrano un sostanziale benessere procedendo nel proprio percorso di sviluppo in
modo adeguato. Ci è parso interessante quindi riflettere su quanto ha
contribuito alla buona riuscita di questo caso.
Dal punto di vista clinico ci pare che la scelta di valorizzare le potenzialità di Valentina rinforzando la sua capacità e individualità sia stata vincente.
A partire
da una condizione di fragilità “imposta” e sostanzialmente interiorizzata da
Valentina, che sentiva di esistere solo nella relazione con un Altro
confermante, il progetto ha rovesciato gli equilibri precedenti puntando sulla
sua competenza e autonomia, valorizzando la sua adeguatezza materna che poteva
dispiegarsi compiutamente qualora avesse preso le distanze da un marito così
disturbante e dalle conseguenze della sua storia familiare.
Dal punto
di vista dell’intervento di rete, bisogna rilevare che i Servizi hanno
impiegato un numero considerevole di operatori (2 psichiatri, 3 psicologi, 1
neuropsichiatra infantile, 1 assistente sociale) provenienti da servizi diversi
come la psichiatria adulti, la neuropsichiatria infantile, il consultorio
familiare e il servizio sociale, che si sono prodigati nello sforzo di
coordinare puntualmente i propri interventi. Il contributo delle diverse
professionalità inoltre è stato fondamentale nel determinare uno scambio
produttivo e vivace nelle fasi di elaborazione e verifica del progetto (1).
Naturalmente,
un simile intervento è estremamente impegnativo e costoso, sia in termini di
energie che di risorse economiche (incluse quelle destinate alla formazione
professionale e alla supervisione). Ma, al di là della soddisfazione degli
operatori per il benessere dei bambini e della madre, non si possono trascurare
gli enormi risparmi che il rientro dei bambini in famiglia ha permesso, a
fronte dei costi di una collocazione istituzionale a tempo indefinito.
(1)
Psicologa presso il Dipartimento di salute mentale dell’A.S.L. n. 8 Regione
Piemonte.
(2)
Psichiatra presso il suddetto Dipartimento.
(1) Le
linee teoriche e teniche di questi interventi sono reperibili in S. CIrillo e
M.V. Cipolloni, L’assistente sociale ruba
i bambini?, Cortina Editore, Milano, 1995.
www.fondazionepromozionesociale.it