Prospettive
assistenziali, n. 130, aprile-giugno 2000
Scandalosamente iniquo il testo sui servizi
sociali approvato dalla Camera dei deputati: tolti ai più deboli
diritti e risorse.
Il 31 maggio 2000 la Camera dei Deputati ha varato la
riforma dei servizi assistenziali e sociali. Il testo approvato, che reca il
titolo: “Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” e che
è riportato integralmente in questo numero, è attualmente all’esame del Senato
(disegno di legge n. 4641).
Il testo suddetto prevede che i Comuni possono
esercitare nei confronti dell’intera popolazione (1) «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione dei
servizi, gratuiti ed a pagamento o di prestazioni economiche destinate a
rimuovere le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana
incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal
sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede
di amministrazione della giustizia» (2).
Dunque, come abbiamo più volte puntualizzato su questa
rivista, l’ambito di applicazione del «sistema
integrato di interventi e servizi sociali» è smisurato: comprende sia le
prestazioni indispensabili per la vita dei soggetti in gravissime condizioni di
disagio (ad esempio l’accoglienza di una persona assolutamente incapace di
provvedere autonomamente alla propria sopravvivenza), sia le attività
assolutamente non essenziali (ad esempio i laboratori di danza, di musica, di
teatro). Infatti, i concetti di bisogno “e di difficoltà” sono estremamente
vaghi e indeterminati, soprattutto se scollegati dall’accertamento della
capacità o incapacità del soggetto di provvedervi con i propri mezzi e con il
sostegno del proprio nucleo familiare di appartenenza.
Inevitabili
interferenze con gli altri settori
di attività
Poiché al «sistema
integrato di interventi e servizi sociali» è stato assegnato dalla Camera
dei Deputati il compito di operare in tutti gli ambiti sociali, escluse solo la
previdenza, la sanità e la giustizia, le sue funzioni si estendono alla scuola,
alla casa, alla cultura, alla formazione professionale, al tempo libero, ecc.
Inevitabili, pertanto, le interferenze ed i conflitti con i suddetti settori.
Ignorata la
prevenzione dell’emarginazione
Come abbiamo più volte precisato (cfr. Prospettive assistenziali, n. 8/9,
ottobre 1968 - marzo 1970), la priorità assoluta degli interventi a favore dei
più deboli dovrebbe essere rivolta alla prevenzione delle situazioni di disagio
e di emarginazione. Purtroppo il testo approvato dalla Camera dei Deputati
ignora del tutto questo fondamentale problema (3).
Non sono
previsti diritti esigibili
per i più
bisognosi
È deplorevole che, ad esclusione delle prestazioni
economiche a carattere continuativo (pensioni di invalidità, assegni sociali,
ecc.), nel testo approvato dalla Camera dei Deputati non sia stato riconosciuto
alcun diritto esigibile alle persone (minori, handicappati, anziani, complessivamente
il 2-3% della popolazione), che per continuare a vivere hanno bisogno di
prestazioni specifiche di assistenza sociale (sussidi economici per situazioni
di emergenza, aiuti domiciliari, accoglienza presso comunità alloggio, ecc.).
Anzi, il provvedimento in esame cancella cinicamente i diritti assistenziali
sanciti nel secolo scorso dal regio decreto 6535 del 1889 e nel periodo
fascista dai regi decreti 773 del 1931 e 383 del 1934 (4).
È estremamente importante asserire che un numero
consistente di Comuni svolge, spesso da decenni ed assicurando i relativi
finanziamenti, le funzioni assistenziali rivolte ai cittadini più bisognosi,
funzioni che la Camera dei Deputati si è rifiutata di riconoscere come
obbligatorie.
Non ci sono, quindi, motivazioni economiche plausibili
nella decisione assunta dalla Camera dei Deputati.
Per assicurare i finanziamenti al 2-3 per cento della
popolazione in reali condizioni di bisogno, le risorse finanziarie sono già
oggi disponibili.
Al riguardo, abbiamo preso in esame i dati relativi al
Consorzio dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino). Nel 1999 la spesa
totale per i servizi assistenziali è stata di lire 67.480 per abitante. Tenuto
conto che la popolazione italiana è di 57 milioni di persone, se le attività
svolte dal suddetto Consorzio, la cui validità è senz’altro accettabile,
venissero estese a tutto il territorio nazionale, il costo complessivo sarebbe
di 3.850 miliardi. Poiché attualmente i Comuni sostengono già oneri per almeno
il 50% della somma suddetta, sarebbero sufficienti 2.000 miliardi per
assicurare alle fasce più deboli della popolazione (ripetiamo il 2-3% degli
abitanti) i servizi assistenziali occorrenti per le persone in reali gravi
condizioni di disagio.
Per l’attuazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali, la Camera dei Deputati ha stanziato (cfr. gli articoli 20 e
28) 107 miliardi per il 2000, 781 per il 2001 e 942 per il 2002: una misera
elemosina a fronte dei 37 mila miliardi di patrimoni e relativi redditi
sottratti ai poveri, come vedremo in seguito affrontando il tema delle IPAB.
È molto significativo che il Governo e la Camera dei
Deputati non si siano affatto preoccupati di accertare, anche in modo
approssimativo, l’ammontare delle spese oggi sostenute da Regioni, Comuni e Province
per l’assistenza e di valutare l’importo delle risorse finanziarie occorrenti
per la copertura delle spese di gestione del nuovo sistema, limitatamente ai
soggetti più deboli.
Per gli investimenti (uffici, comunità alloggio,
centri diurni, ecc.) sono più che sufficienti i patrimoni riconvertibili delle
IPAB.
Nel testo approvato dalla Camera dei Deputati non sono
mai precisati diritti esigibili (salvo quelli di natura economica a carattere
continuativo, come già indicato), ma “priorità”. Tuttavia, com’è evidente,
“priorità” non è sinonimo di “esigibilità”. Infatti, se gli interventi non
vengono forniti, il testo non prevede alcuno strumento che consenta al
cittadino di ottenere la prestazione di cui ha assoluto bisogno.
Mentre per gli emolumenti pensionistici nel testo sono
inserite (cfr. il 2° comma dell’articolo 2) le parole “diritto soggettivo”, che
ne precisano in modo incontrovertibile l’esigibilità, per le altre prestazioni,
comprese quelle indifferibili (quali, l’accoglienza di un bambino senza
famiglia), sono utilizzate, oltre alla locuzione “priorità”, altre espressioni
inconsistenti sul piano giuridico, quali «posizione
soggettiva degli utenti» (cfr. il 1° e il 2° comma dell’articolo 13) e «livello essenziale delle prestazioni
sociali erogabili» (vedi il 2° comma dell’articolo 22) (5).
Puntualizziamo, inoltre, che nella stesura varata
dalla Camera dei Deputati, non compare mai l’obbligo da parte dei Comuni di
istituire i servizi garantendo le necessarie risposte alle situazioni di
bisogno esistenti. Ad esempio, i Comuni rispettano le disposizioni approvate,
qualora creino un servizio di assistenza domiciliare per dieci persone,
nonostante che l’esigenza sia per cento o più individui. Analoghe
considerazioni valgono per tutti gli altri interventi: misure economiche a
carattere transitorio, accoglienza dei minori e dei soggetti con handicap privi
di adeguato sostegno familiare, azioni dirette alle persone anziane, ecc.
Assurde le
norme sugli organi locali di governo
L’esigibilità dei diritti è negata non solo perché i
Comuni non hanno nessun obbligo di istituire i servizi, ma anche per il fatto
che quelli aventi poche decine di abitanti, e quindi strutturalmente
impossibilitati ad istituire la rete completa dei servizi indispensabili per i
cittadini bisognosi, possono rifiutarsi – a tempo indeterminato – di
consorziarsi con altri Comuni.
Alle Regioni (cfr. il 3° comma dell’art. 8) è concessa
solo la possibilità di prevedere incentivi a favore dell’esercizio associato
delle funzioni sociali.
A questo proposito, ricordiamo che la creazione
obbligatoria degli organi di governo occorrenti per i servizi sanitari è stata
stabilita dalla legge 833/1978. Questo principio non è mai stato messo in
discussione da nessuna forza politica, sindacale e sociale.
Segnaliamo, inoltre, che l’art. 25 del DPR 616/1977
affidava alle Regioni «ai sensi dell’art.
117 della Costituzione» il compito di promuovere non solo nel settore della
sanità, ma anche in quello dell’assistenza sociale «forme anche obbligatorie di associazione» per i Comuni.
Le Regioni
possono confermare
l’attuale
odiosa discriminazione fra minori
nati nel e
fuori del matrimonio
Nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, mentre
sono attribuiti ai Comuni i compiti (discrezionali) di fornire prestazioni
sociali a tutti i cittadini, è concessa alle Regioni (cfr. il 5° comma
dell’art. 8) la facoltà di non
affidare ai Comuni, ma alle Province o ad altri enti locali (Consorzi fra
Comuni e Province o fra Province, ecc.) il compito di assistere i minori nati fuori
dal matrimonio, le gestanti e le madri in difficoltà, nonché «i ciechi e i
sordi poveri rieducabili» (così definiti dal regio decreto 383/1934).
Con l’approvazione della norma suddetta, non solo è
stato offeso il buon senso, ma è stata anche violata la Costituzione, la cui
prima parte dell’art. 3 recita: «Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali».
Oltre all’assurda discriminazione di una parte della
popolazione, l’attribuzione alle Province (o ad altri enti locali) di funzioni
assistenziali rivolte ai nati fuori dal matrimonio, alle gestanti e madri
nubili, ai ciechi ed ai sordi poveri rieducabili determinerà inevitabilmente
conflitti di competenza con i Comuni e, quindi, causerà anche nefasti vuoti di
intervento. Ad esempio, nel caso in cui il minore nato fuori dal matrimonio sia
anche colpito da handicap intellettivo dovrà intervenire la Provincia oppure il
Comune? Inoltre, le Province sono competenti solo per i ciechi e sordi totali o
anche per quelli parzialmente colpiti? Se il cieco (o il sordo) è affetto da
altri handicap, qual è l’ente competente? Molte altre potranno essere le
situazioni di conflitto.
Legalizzazione
del trasferimento dalla sanità
ai servizi
sociali di competenze
in materia
di anziani inguaribili
Sono presenti nella stesura varata dalla Camera dei
Deputati disposizioni assai confuse, approvate per legittimare l’attuale
illegale, massiccio e spesso disumano trasferimento della competenza ad
intervenire, nei confronti dei malati di Alzheimer, dei pazienti psichiatrici
gravi e degli anziani cronici non autosufficienti colpiti da malattie
invalidanti (cancro, pluripatologie, ecc.) e da non autosufficienza, dalla
sanità (che deve attualmente curarli senza limiti di durata in base a leggi
vigenti dal 1955) ai servizi sociali, con la conseguente perdita del diritto
esigibile alle cure sanitarie, ricoveri compresi. Il trasferimento degli
interventi alla discrezionalità dei servizi assistenziali (o sociali) determina
altresì l’inserimento nelle liste di attesa, anche di 2-3 anni, per il ricovero
in case di riposo e altre strutture assistenziali (residenze protette, RSA,
ecc.). In sostanza, il testo approvato dalla Camera dei Deputati legalizza il
principio secondo cui i malati inguaribili sarebbero incurabili o poco
curabili.
Da un lato il 2° comma dell’articolo 22 precisa che
restano ferme «le competenze del Servizio
sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione»,
d’altro lato nello stesso articolo vengono richiamate «le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al
decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502 e successive modificazioni».
A questo proposito, occorre tener presente che l’art.
3 septies del decreto legislativo
502/1992 (così modificato dal decreto legislativo 229/1999) sancisce quanto
segue:
«1. Si
definiscono prestazioni sociosanitarie tutte le attività atte a soddisfare,
mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che
richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale
in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di
cura e quelle di riabilitazione.
«2. Le
prestazioni sociosanitarie comprendono:
a)
prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla
promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e
contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o
acquisite;
b)
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema
sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con
problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute.
«3. L’atto di
indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 2, comma 1, lettera n), della legge
30 novembre 1998, n. 419, da emanarsi, entro tre mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto, su proposta del Ministro della sanità e del
Ministro per la solidarietà sociale, individua, sulla base dei principi e
criteri direttivi di cui al presente articolo, le prestazioni da ricondurre
alle tipologie di cui al comma 2, lettere a) e b), precisando i criteri
di finanziamento delle stesse per quanto compete alle unità sanitarie locali e
ai comuni. Con il medesimo atto sono individuate le prestazioni sociosanitarie
a elevata integrazione sanitaria di cui al comma 4 e alle quali si applica il
comma 5, e definiti i livelli di assistenza per le prestazioni sociali a
rilievo sanitario.
«4. Le
prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono
caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della
componente sanitaria e attengono prevalentemente alle aree materno-infantile,
anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e
farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale,
inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative.
«5. Le
prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono assicurate
dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza
sanitaria, secondo le modalità individuate dalla vigente normativa e dai piani
nazionali e regionali, nonché dai progetti-obiettivo nazionali e regionali.
«6. Le
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria sono di competenza dei Comuni che
provvedono al loro finanziamento negli ambiti previsti dalla legge regionale ai
sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
La regione determina, sulla base dei criteri posti dall’atto di indirizzo e
coordinamento di cui al comma 3, il finanziamento per le prestazioni sanitarie
a rilevanza sociale, sulla base di quote capitarie correlate ai livelli di
assistenza.
«7. Con decreto
interministeriale, di concerto tra il Ministro della sanità, il Ministro per la
solidarietà sociale e il Ministro per la funzione pubblica, è individuata
all’interno della Carta dei servizi una sezione dedicata agli interventi e ai
servizi sociosanitari.
«8. Fermo
restando quanto previsto dal comma 5 e dall’articolo 3 quinquies, comma
1, lettera c), le regioni
disciplinano i criteri e le modalità mediante i quali comuni e aziende
sanitarie garantiscono l’integrazione, su base distrettuale, delle prestazioni
sociosanitarie di rispettiva competenza, individuando gli strumenti e gli atti
per garantire la gestione integrata dei processi assistenziali sociosanitari».
Dall’analisi dell’articolo sopra riportato, emerge in
modo evidente l’estrema indeterminatezza delle definizioni di «prestazioni sanitarie a rilevanza sociale»,
«prestazioni sociali a rilevanza sanitaria»
e «prestazioni sociosanitarie
ad elevata integrazione sanitaria», definizioni che hanno conseguenze
rilevanti in merito al diritto alle cure sanitarie e alle contribuzioni
economiche a carico del malato.
A ciò si aggiunga che le suddette definizioni non
fanno riferimento alla persona malata e alle sue esigenze, ma alle attività che
i servizi intendono svolgere (6).
A questo riguardo è molto allarmante quanto è
stabilito dalla lettera g) del 2°
comma dell’articolo 22 del testo approvato dalla Camera dei Deputati che
riportiamo: «Costituiscono il livello
essenziale delle prestazioni sociali» gli «interventi per le persone anziane e disabili per favorire la
permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture
comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la
socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro
che, in ragione dell’elevata fragilità personale o di limitazioni
dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio».
Come abbiamo osservato nell’editoriale dello scorso
numero di Prospettive assistenziali
(cfr. in particolare la nota 9), l’On. Elsa Signorino, che è stata
l’ispiratrice della controriforma dell’assistenza (questa ci sembra una
denominazione oggettiva del testo approvato dalla Camera dei Deputati)
definisce «fragili» (7) gli anziani cronici non autosufficienti, negando la
loro condizione reale di persone malate (cancro, demenza, pluripatologie,
ecc.).
Si tratta di un imbroglio che ha causato e provoca
danni enormi, sia per quanto riguarda le esigenze dei cittadini colpiti da
malattie invalidanti, dirottati illegalmente al settore dell’assistenza (o dei
servizi sociali), in cui le cure sono quasi sempre di qualità molto inferiore a
quelle praticate nelle strutture sanitarie, sia in merito alle somme, spesso
ingenti, sottratte con ignominioso inganno agli stessi anziani malati e, molto
spesso, anche ai loro congiunti.
A questo riguardo non possiamo fare a meno di
ricordare nuovamente che la Regione Emilia Romagna (di cui l’On. Signorino è
stata Assessore ai servizi sociali) nel modulo relativo alla individuazione dei
bisogni degli anziani non autosufficienti non considera malattie ma «condizioni di disagio» le neoplasie,
l’ictus, la demenza, i traumi e le fratture, nonché le malattie vascolari e le
condizioni invalidanti degli apparati locomotore-respiratorio-genito-urinario,
delle patologie neurologiche e delle sindromi psichiatriche.
Dalla negazione della condizione di malato
dell’anziano colpito da patologie inguaribili e da non autosufficienza, la
Regione Emilia Romagna ha stabilito all’art. 18 della propria legge n. 5/1994
che non è un medico, ma un assistente sociale l’operatore che «assume la responsabilità del controllo
dell’attuazione degli interventi previsti nel programma assistenziale
personalizzato».
Pertanto, nei confronti del vecchio malato di cuore,
l’assistente sociale esercita funzioni di controllo dell’operato del cardiologo
e così pure nei riguardi degli altri specialisti, dei medici, degli infermieri
e dei riabilitatori!
Il ruolo dell’assistente sociale si esercita anche su
altre attività. Ai sensi della delibera della Giunta della Regione Emilia
Romagna 26 luglio 1999 n. 1379, spetta all’assistente sociale del servizio
assistenza anziani «la gestione degli
accessi». Non sono più i malati ed i loro congiunti che si rivolgono
direttamente – come prevede la legge di riforma sanitaria per tutti i cittadini,
nessuno escluso – ai servizi sanitari; per gli anziani malati (considerati,
come abbiamo visto, disagiati sociali) è obbligatorio ottenere dall’assistente
sociale una specifica autorizzazione per accedere alle prestazioni, prestazioni
che, come prevede la delibera sopra citata, sono condizionate dalla «disponibilità esistente» dei servizi e
delle strutture.
La stessa delibera prevede, addirittura, che
l’assistente sociale «può senz’altro
differire dalle richieste dell’anziano e/o dei suoi familiari».
Com’è evidente si tratta di gravissime violazioni dei
diritti vigenti ed una inammissibile negazione della pari dignità ed
eguaglianza dei cittadini sancita a chiare lettere dall’art. 2 della
Costituzione.
Abbiamo insistito molto su questo punto, in quanto c’è
il rischio che le norme del testo approvato dalla Camera dei Deputati aumentino
ancora le già attualmente estese situazioni di controllo sociale della fascia
più debole della popolazione da parte dei servizi sociali. In questo senso, a
nostro avviso, deve essere valutato l’ampio spazio concesso al terzo settore
(8).
Sottratte ai
poveri le risorse economiche
ad essi
destinate dalla legge sulle IPAB del 1890
È eticamente inaccettabile che, in base alla delega
prevista nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, il Governo sia
autorizzato a:
a) abrogare le norme vigenti che destinano esclusivamente
alla fascia più bisognosa della popolazione (bambini senza famiglia,
handicappati intellettivi con limitata o nulla autonomia, genitori e figli in
gravi difficoltà socio-economiche, ecc.) i patrimoni delle IPAB (Istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza) valutati in ben 37 mila miliardi, ed i
relativi redditi. In questo modo si permette l’utilizzo dei suddetti beni
(alloggi, negozi, titoli di Stato, ecc.) anche se non soprattutto a favore
delle persone abbienti;
b) sopprimere le disposizioni della legge 6972/1890 in
base alle quali i patrimoni delle IPAB non potevano finora essere utilizzati
per le spese di gestione (stipendi del personale, acquisto materiali di
consumo, ecc.). Queste disposizioni hanno consentito alle IPAB di mantenere il
possesso di beni del valore – lo ripetiamo – di 37 mila miliardi, cifra
indicata dal rapporto commissionato l’anno scorso dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari sociali. Secondo la rivista
IPABOGGI, n. 6, 1996, l’ammontare dei
suddetti patrimoni è di oltre 50 mila miliardi;
c) mettere a gratuita disposizione i patrimoni delle
IPAB ad associazioni e fondazioni private, che potranno utilizzarli anche per
coprire le spese di gestione (quali stipendi per i dirigenti, consulenze
esterne, ecc.). Questo favoloso regalo può spiegare l’appoggio di molti gruppi
privati al testo approvato dalla Camera dei Deputati.
A nostro avviso, la sottrazione ai poveri della
destinazione esclusiva dei beni e dei redditi delle IPAB, è, sotto il profilo
etico-sociale, un furto. Al riguardo ricordiamo nuovamente le parole
pronunciate da Mons. Giovanni Nervo al convegno di Torino del 12 dicembre 1989:
«Il primo principio etico, equivale per i
credenti ad un Comandamento di Dio: non rubare. I patrimoni delle IPAB sono
stati donati da privati cittadini per i poveri. Prima che fossero donati erano
di proprietà dei privati, dopo che sono stati donati, sono diventati proprietà
dei poveri. Questo principio rimane, qualunque siano state le vicissitudini
storiche e giuridiche».
Da notare – fatto gravissimo – che nel testo approvato
dalla Camera dei Deputati nulla è stato stabilito per la conservazione della
destinazione alle persone più bisognose dei patrimoni trasferiti ai Comuni e
alle Province a seguito della estinzione di IPAB e dello scioglimento di alcune
migliaia di enti di assistenza (ECA, OMNI, ONPI, ENAOLI, ecc.) il cui ammontare
può essere valutato in 40-50 mila miliardi. Al Comune di Torino, ad esempio,
sono pervenuti beni per un valore di almeno 1.000 miliardi.
Stesso immorale comportamento c’è stato da parte del
Governo e della Camera dei Deputati per quanto concerne gli ingenti patrimoni
delle IPAB (valutabili in 30-40 mila miliardi) assegnati a titolo assolutamente
gratuito ad organizzazioni private a seguito della sconcertante sentenza n.
396/1988 della Corte costituzionale. Il cospicuo regalo era stato motivato
dalla necessità di rispettare la volontà dei donatori a favore dei poveri; in
realtà la privatizzazione ha favorito e favorisce gli amministratori, anche per
l’assoluto disinteresse delle autorità pubbliche in materia di vigilanza.
Di conseguenza sia i suddetti patrimoni e quelli
trasferiti ai Comuni e alle Province, sia quelli ceduti gratuitamente ai
privati (complessivamente 70-90 mila miliardi) potranno essere utilizzati per
qualsiasi scopo e, quindi, soprattutto per creare strutture e servizi per i
benestanti.
Si tenga presente che il testo in esame prevede la
possibilità dell’erogazione dei servizi sociali all’intera popolazione e
pertanto anche a coloro che già stanno bene o benissimo sotto il profilo
economico. Pertanto gli interventi potranno essere i più disparati ed anche i
meno urgenti, quali, ad esempio, corsi di danza, di recitazione, di musica;
visite a musei; turismo cittadino ed extra urbano, ecc.
Dunque, mentre le autorità continuano a ripetere che
mancano i fondi per le persone bisognose, si sottraggono le risorse attualmente
ad esse destinate.
No agli
uffici di pubblica tutela
Fra le richieste avanzate dal CSA al Ministro Livia
Turco, alla relatrice On. Elsa Signorino ed ai Parlamentari, una notevole
importanza era rivolta alla creazione degli uffici di pubblica tutela.
Infatti, come abbiamo già segnalato nei precedenti
numeri di Prospettive assistenziali,
la tutela delle persone totalmente e definitivamente inca-paci di autogestirsi
(e quindi dichiarate interdette) attualmente viene deferita dall’Autorità
giudiziaria ad un ente di assistenza (in genere il Comune o l’ASL) o
addirittura all’istituto in cui il soggetto è ricoverato. Nei casi anzidetti,
si verifica una situazione di incompatibilità poiché le funzioni di
controllo (spettanti al tutore) sono assegnate allo stesso organismo (Comune,
Asl o istituto) che dovrebbe essere controllato in quanto fornisce le
prestazioni di assistenza al soggetto dichiarato interdetto.
Il CSA aveva pertanto chiesto al Ministro Livia Turco,
alla relatrice Elsa Signorino ed ai Parlamentari di inserire nel testo in esame
un articolo, tratto dalla proposta di legge n. 3801, presentata alla Camera dei
deputati il 3 giugno 1997 dall’On. Novelli, in cui era prevista l’obbligatoria
istituzione degli uffici di pubblica tutela da parte delle Province (9) e della
Regione Autonoma della Valle d’Aosta con i seguenti compiti:
– esercizio delle funzioni di tutore ora attribuite
dai giudici tutelari ai Comuni, alle ASL ed agli istituti di ricovero, ponendo
fine all’attuale situazione di incompatibilità sopra descritte. Inoltre,
l’affidamento alle Province farebbe cessare i continui contrasti fra i Comuni e
le ASL in merito all’individuazione della condizione di non malato del soggetto
interessato (in questi casi la tutela viene data ai Comuni se non vi sono
congiunti disponibili e affidabili) o di malato (allora interviene l’ASL);
– svolgimento delle iniziative di consulenza in
materia di interdizione, inabilitazione, tutela e curatela.
Le suddette attività avrebbero dovuto essere
esercitate sia mediante personale degli enti gestori, sia avvalendosi del
volontariato.
Anche questa proposta è stata respinta dal Governo e
dalla Camera dei Deputati con sprezzante indifferenza (10), nonostante che la
creazione degli uffici di pubblica tutela risolvesse un problema reale e non
comportasse un esborso di denaro pubblico superiore a quello attualmente
sostenuto dai Comuni e dalle ASL per svolgere le stesse funzioni.
Appello ai
Senatori, al Governo
ed al
volontariato
Chiediamo ai Senatori, al Governo ed ai gruppi di
volontariato di tenere in particolare considerazione le esigenze del 2-3% della
popolazione, e cioè delle persone alle quali occorre non solo garantire
l’utilizzo dei servizi fondamentali per tutti i cittadini (sanità, casa,
scuola, trasporti, ecc.) e il lavoro (se sono in grado di svolgerlo), ma anche le specifiche prestazioni
assistenziali (o sociali), come stabilisce la Costituzione, il cui primo comma
dell’art. 38 è così redatto: «Ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto
al mantenimento e all’assistenza sociale».
Chiediamo, pertanto, che siano previsti da parte dei
Comuni interventi assistenziali obbligatori
ed esigibili (in parte già stabiliti dalle leggi vigenti) per:
– i minori in tutto (figli di ignoti, ecc.) o in parte
privi delle indispensabili cure familiari, siano essi nati nel o fuori dal
matrimonio;
– gli handicappati intellettivi totalmente o
gravemente privi di autonomia e senza alcun valido sostegno familiare;
– i soggetti colpiti da altri handicap, anche plurimi,
che necessitano di aiuti specifici per poter acquisire la massima autonomia
possibile;
– gli anziani che non sono in grado di provvedere
autonomamente alle proprie esigenze di vita;
– le gestanti e le madri in gravi difficoltà personali
alle quali va altresì fornita la necessaria consulenza psico-sociale per il
loro reinserimento e per il responsabile riconoscimento o non riconoscimento
dei loro nati;
– le persone che vogliono uscire dalla schiavituù
della prostituzione;
– i soggetti senza fissa dimora;
– gli altri individui che necessitano di prestazioni
specifiche se si vuole evitare la loro emarginazione.
Affinché gli interventi siano effettivamente esigibili,
occorre che i Comuni piccoli, non in grado
di istituire la rete completa dei servizi degli interventi necessari, siano
obbligati a consorziarsi fra di loro.
Per l’effettiva salvaguardia delle esigenze e dei
diritti della fascia più debole della popolazione, si richiede la creazione da
parte delle Province e della Regione Autonoma della Valle d’Aosta degli uffici
di pubblica tutela anche al fine di superare l’affidamento di questo importante
compito ai Comuni, alle ASL o agli istituti in cui il soggetto è ricoverato.
Inoltre, per poter assicurare le prestazioni
indispensabili per la fascia più debole della popolazione, occorre che i
patrimoni (complessivamente si tratta di risorse valutabili in 110-130 mila
miliardi) ed i redditi delle IPAB e quelli delle ex IPAB e degli enti
assistenziali disciolti (ECA, ONMI, ONPI, ENAOLI, ecc.) continuino ad essere
destinati esclusivamente alle fasce più deboli della popolazione e che i
patrimoni non possano essere utilizzati per coprire le spese di gestione.
È, altresì, indispensabile che la competenza ad
intervenire nei confronti di tutti i malati, compresi quelli colpiti da
malattie inguaribili e da non autosufficienza, resti alla sanità, prevedendo,
se del caso, il pagamento da parte dell’interessato (e non dai parenti come
stabilisce giustamente il decreto legislativo 130/2000) di una parte della retta
il cui importo, calcolato esclusivamente sui redditi pensionistici, non
dovrebbe superare le 50 mila lire al giorno.
(1) Ai sensi dell’art. 2 le
prestazioni sono estese, «nel rispetto
degli accordi internazionali, con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi
regionali, anche ai cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea ed ai
loro familiari»; inoltre «ai
profughi, agli stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima
assistenza».
(2) Così è stabilito
dall’art. 1, comma 2 del testo approvato dalla Camera dei Deputati e dall’ivi
richiamato art. 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
(3) Cfr. l’editoriale del n.
128 di Prospettive assistenziali “Il testo di legge sui servizi sociali
calpesta le esigenze dei più deboli e ignora la prevenzione dell’emarginazione”
e l’articolo di F. Santanera “Principali esperienze di prevenzione del bisogno
assistenziale e dell’emarginazione sociale”,
ibidem, n. 129.
(4) Cfr. l’editoriale “Cinico
no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del diritto
esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le persone
più deboli”. Assolutamente fuorvianti sono state le dichiarazioni dell’On.
Livia Turco, Ministro per la solidarietà sociale che, contrariamente a quanto
risulta dal testo approvato dalla Camera dei Deputati, ha dichiarato a La Stampa del 1° giugno 2000 quanto
segue: «Un welfare – dagli asili nido
all’assistenza domiciliare per gli anziani, dai centri diurni per gli
handicappati alla lotta contro la povertà – non dipende più dalla benevolenza o
dall’efficienza dei Comuni (...). I
diritti sociali sono diventati esigibili per tutti».
(5) Ricordiamo che, allo
scopo di «garantire gli interventi ed i
servizi sociali a coloro i quali, se non ricevono anche le prestazioni
assistenziali, non possono vivere o cadono nel baratro dell’emarginazione»,
l’On. Diego Novelli aveva presentato il seguente emendamento: «Com’è stabilito negli articoli seguenti,
gli interventi ed i servizi sociali si distinguono in obbligatori e
facoltativi». L’emendamento era stato respinto dal Ministro Livia Turco e
dalla relatrice On. Elsa Signorino in quanto non era stato accettato il
principio dell’obbligatorietà. Contro il suddetto emendamento si era
pronunciata la Camera dei Deputati nella seduta del 18 gennaio 2000. Cfr.
L’editoriale del numero scorso di Prospettive
assistenziali.
(6) Finora non è stato
emanato il decreto ministeriale di cui al comma 3 dell’art. 3 septies del decreto legislativo 502/1992
che doveva essere assunto entro il 31 ottobre 1999. Il ritardo è dovuto,
secondo fonti ufficiali, a divergenze sostanziali fra i Ministri della sanità,
per la solidarietà sociale e della funzione pubblica.
(7) Nell’intervento fatto nel
corso della seduta della Camera dei Deputati del 18 gennaio 2000 per respingere
il citato emendamento Novelli sulla distinzione fra i servizi obbligatori e
quelli facoltativi, l’On. Signorino ha pronunciato per ben sette volte le
parole «fragili» e «fragilità», sempre allo scopo di occultare la condizione di
malati degli anziani cronici non autosufficienti.
(8) Cfr. l’articolo “Intesa
fra il Governo e il Forum del terzo settore per l’emarginazione sociale dei
cittadini aventi limitate capacità di autodifesa”, Prospettive assistenziali, n. 127.
(9) Rammentiamo che le
Province dovrebbero trasferire ai Comuni tutte le loro residue competenze in
materia di assistenza.
(10) Ai sensi dell’articolo
8, comma 4 del testo approvato dalla Camera dei Deputati, le Regioni possono
provvedere alla «eventuale istituzione di
uffici di tutela degli utenti», senza che vi sia alcuna indicazione sui
loro compiti.
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