Prospettive assistenziali, n. 131, luglio-settembre 2000

 

Notiziario dell’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale

 

 

presentata al presidente della repubblica la drammatica situazione della fascia più debole della popolazione

 

Riportiamo il testo della nota inviata il 15 giugno 2000 dal CSA, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, al Consigliere del Presidente della Repubblica per gli affari interni, affinché la inoltri al Capo dello Stato. Non riportiamo gli allegati, molti dei quali sono stati tratti da Prospettive assistenziali.

Segnaliamo all’attenzione della S.V. affinché possa informarne il Capo dello Stato che nel nostro Paese si verifica quotidianamente una generalizzata violazione delle leggi vigenti nei confronti:

a) dei malati di Alzheimer e degli anziani malati cronici non autosufficienti. Nonostante la loro condizione di malati cronici (l’inguaribilità non è sinonimo di incurabilità), vengono dimessi, a volte anche in modo selvaggio, dagli ospedali e dalle case di cura private convenzionate, dimenticando volutamente il loro diritto alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata sancito dalle leggi 4 agosto 1955 n. 692, 12 febbraio 1968 n. 132 (in particolare l’art. 29), 17 agosto 1974 n. 386, 13 maggio 1978 n. 180 e 23 dicembre 1978 n. 833, leggi la cui validità è confermata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10150 del 1996.

Obbligati a lasciare l’ospedale o la casa di cura, pur avendo ancora bisogno di prestazioni sanitarie, gli anziani, se non possono essere accolti dai loro congiunti (ai quali le leggi in vigore non affidano alcun obbligo di provvedere alle cure mediche, infermieristiche e riabilitative, obbligo attribuito, com’è noto, al Servizio sanitario nazionale), i malati di Alzheimer e gli anziani malati cronici non autosufficienti sono costretti a rimanere, con oneri interamente a carico dei familiari, nelle liste di attesa per la durata anche di 3-4 anni.

Superata la lista d’attesa, gli anziani malati sono inseriti in strutture dell’assistenza sociale pubbliche e private, non abilitate a provvedere alla cura delle persone malate.

Si arriva al punto, come ha fatto l’Assessorato ai servizi sociali della Regione Emilia Romagna che, per occultare la situazione di persone malate, nella scheda di valutazione BINA (Breve Indice di Non Autosufficienza), sono inserite fra le “Condizioni di disagio prevalente” le seguenti patologie: neoplasie, ictus, demenza, traumi e fratture, malattie cardiovascolari, ecc.

La situazione suddetta riguarda, altresì, i malati di Alzheimer e le persone colpite da altre forme di demenza senile, nonché i pazienti psichiatrici con limitata o nulla autonomia. Circa questi ultimi, si segnala che nei mesi scorsi, 500 persone, ricoverate tutte da più di 20 anni in strutture manicomiali, improvvisamente sono guarite e quindi sono state trasferite al settore dell’assistenza.

Con il trucco del trasferimento al settore assistenziale i malati sono costretti a versare somme che arrivano anche a 3-4 milioni al mese (la retta giornaliera cosiddetta alberghiera praticata ai malati di Alzheimer ricoverati al Pio Albergo Trivulzio a Milano è di L. 143.500).

Da notare che non vi sono leggi che prevedono per i malati il pagamento di rette, comprese quelle alberghiere (cfr. la già citata sentenza della Corte di Cassazione n. 10150/1996);

b) dei congiunti delle persone con handicap, degli anziani cronici non autosufficienti e dei malati di Alzheimer. Ai suddetti soggetti, quasi tutti i Comuni, le Province e le ASL, impongono il pagamento di contributi per la frequenza di centri diurni e per il ricovero in strutture a carattere residenziale.

Questa pretesa è infondata, come risulta dalle note del Direttore generale del Ministero dell’interno del 27 dicembre 1993, prot. 12287/70 e dell’8 giugno 1999, prot. 190 e 412 B.5, del Capo dell’Ufficio legislativo del Dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 15 aprile 1994, prot. DAS/4390/1/H/795, del 28 ottobre 1995, prot. DAS/13811/1/H/795 e del 29 luglio 1997 prot. DAS/247/UL/1/H/795 e della lettera inviata dal Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro per la solidarietà sociale in data 15 ottobre 1999, prot. DAS/625/UL-607 all’ANCI nazionale, dal parere fornito in data 18 settembre 1996, prot. 2667/1.3.16 dal Direttore del Servizio degli Affari giuridici della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dalla risposta fornita dall’Assessore all’assistenza della Regione Piemonte in data 7 marzo 1996 ad una interrogazione, dai provvedimenti assunti dal CORECO di Torino in data 13 dicembre 1995 n. 36002, 1° agosto 1996, n. 11004/96 bis e 31 luglio 1997 n. 9152/97 bis e dalle sentenze della Prima Sezione civile del Tribunale di Verona del 14 maggio 1996 pubblicata sul n. 1/1997 di Famiglia e diritto e dal TAR del Veneto n. 1785/1999.

Infatti, in base alle leggi vigenti, gli alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in stato di bisogno (cfr. l’art. 438 del Codice civile) o dal suo tutore; non esistono leggi che consentano agli enti pubblici di sostituirsi alla persona avente diritto agli alimenti.

La illegittimità della suddetta pretesa è ancora più grave ove si consideri che l’ente pubblico non solo si arroga un diritto che non ha, ma pretende anche di determinare l’importo che dovrebbe essere versato dai congiunti, arrivando addirittura a sostituirsi al giudice. Infatti il 3° comma dell’art. 441 del Codice civile stabilisce quanto segue: «Se gli obbligati
non sono concordi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze».

Molto spesso, per poter ottenere i suddetti contributi, i Comuni, le Province e le ASL esercitano vere e proprie forme di ricatto: se non firmate l’impegno di pagare la parte non coperta dai redditi del vostro congiunto, non provvediamo ad assisterlo o a ricoverarlo.

Si segnala, in particolare (come riferito nel volume di F. Santanera e M.G. Breda, “Come difendere i diritti degli anziani”, UTET Libreria) che il Comune di Reggio Emilia ha predisposto una lettera in cui viene richiesta la «documentazione idonea ad attestare il reddito di ogni singolo componente del nucleo familiare». In particolare, occorre presentare l’ultimo 740 o 730, lo stato di famiglia dei congiunti non residenti a Reggio Emilia e, per le persone non tenute alla compilazione della dichiarazione dei redditi, copia dei modelli 101 o 201 attestanti i compensi percepiti o copia dei certificati relativi alle pensioni riscosse.

Nella lettera è, inoltre, precisato che «al momento della presentazione della documentazione, al familiare verrà richiesto di sottoscrivere una dichiarazione attestante che il degente non ha proceduto all’alienazione di uno o più immobili a partire dal 1986».

Infine il Comune di Reggio Emilia minaccia i congiunti con le seguenti parole: «Qualora la documentazione richiesta non venga presentata nei termini precedentemente fissati, da tutti o da una parte dei familiari, d’ufficio si dovrà procedere, indipendentemente dal reddito, a richiedere la somma dovuta dai familiari inadempienti, calcolando a loro carico l’intera spesa di mantenimento, al netto delle somme versate direttamente dal degente in conto retta; tale differenza verrà quindi fatturata sistematicamente all’interessato, provvedendo successivamente all’iscrizione al ruolo nel caso in cui non si provveda regolarmente al pagamento. Parallelamente all’iscrizione al ruolo, si rende noto che si provvederà a revocare l’impegnativa di pagamento comunicando contestualmente, oltre che ai familiari interessati, la revoca dell’impegnativa alla casa di riposo ove il degente è ospite».

Analogo il tono intimidatorio usato dal Comune di Udine nei confronti di una figlia che aveva segnalato i motivi giuridici in base ai quali riteneva di non dover più versare alcun contributo per il ricovero della madre: «Si preavvisa sin d’ora che – non ottemperando alle disposizioni impartite – questa Amministrazione si vedrà costretta, suo malgrado, a revocare immediatamente l’ordinanza di ricovero a suo tempo emessa nei confronti dell’istituto (...), ordinando nel contempo la dimissione della familiare di cui sopra e non accollandosi più le rette di ricovero fruite dalla medesima presso l’istituto stesso, dando avvio alla procedura legale nei Suoi confronti per il recupero del credito vantato da questa amministrazione comunale».

Da segnalare che a nulla finora sono serviti, sia per quanto concerne la violazione del diritto alle cure sanitarie dei malati di Alzheimer e degli anziani cronici non autosufficienti, sia in merito ai contributi illegalmente pretesi dai Comuni, Province e ASL, le interrogazioni parlamentari, le segnalazioni da noi inviate ai Ministri della sanità e per la solidarietà sociale e le altre iniziative.

Quale esempio tipico del disinteresse delle autorità competenti si riporta la corrispondenza in materia avvenuta tra l’Associazione Promozione sociale (aderente al Csa) ed il Prefetto di Torino, Dr. Mario Moscatelli (allegati 1-2-3).

Concludendo, vista la pesante violazione delle leggi operata proprio da quelle istituzioni che, al contrario, dovrebbero agire per difendere e tutelare i diritti dei cittadini nel momento in cui sono più fragili a causa della perdita della non autosufficienza, il nostro appello al Capo dello Stato resta l’ultima speranza per continuare ad avere fiducia nelle istituzioni.

Oltre alle azioni proprie istituzionali che egli vorrà attuare per richiamare Prefetti ed istituzioni al rispetto delle norme vigenti in materia, per la difesa del diritto alle cure sanitarie anche delle persone inguaribili (ma, lo ripetiamo, non per questo incurabili) egli ha molteplici occasioni pubbliche nelle quali manifestare la sua preoccupazione e la sua richiesta affinché anche gli anziani malati cronici non più autosufficienti continuino ad essere curati come dovuto dal servizio sanitario nazionale.

Ci sono appelli per sollecitare la donazione degli organi, ci possono essere appelli per sollecitare l’attenzione dovuta alla cura di questi anziani e di tutti i malati inguaribili, compresi i malati di Alzheimer, i malati psichiatrici gravi.

Non vogliamo strutture speciali come “gli hospice” per i malati terminali di tumore. Chiediamo il diritto al­la cura per tutti i malati (anche un anziano cronico non autosufficiente è un malato “terminale”) nei luoghi in cui vivono: la casa, l’ospedale, la residenza sa­nitaria assistenziale, la casa di cura convenzionata.

Il Capo dello Stato dovrebbe sostenere con forza che non ci sono cittadini malati con diritto alle cure, perché in grado di guarire, e cittadini malati per i quali è sufficiente dare un po’ di assistenza, perché inguaribili.

Come abbiamo dettagliato all’inizio le leggi dello Stato difendono il diritto alla cura senza limiti di durata, indipendentemente dalla malattia e dall’età. Al Capo dello Stato spetta il compito di farle applicare;

c) degli handicappati intellettivi e fisici con capacità lavorative, anche se ridotte. Come è stato affermato nel documento “Handicappati e società: quali strategie per il lavoro” (pubblicato in “Prospettive assistenziali”, n. 93, gennaio-marzo 1991), vanno superate le resistenze culturali che ostacolano l’integrazione delle persone handicappate, per il loro pieno riconoscimento come persone a tutti gli effetti con pari diritti-doveri degli altri cittadini, specialmente quando viene negata la loro resa produttiva e richiesto per loro un intervento meramente assistenziale da parte dello Stato.

Numerosi sono ancora oggi coloro che auspicano il ritorno all’esclusione dalla società di chi è diverso. Si invocano o, peggio, si programmano nuove strutture speciali, istituti specializzati per ogni tipologia e categoria di handicap, laboratori protetti, reparti speciali nelle fabbriche, a volte addirittura villaggi o città interamente per handicappati.

Ripercorrere la strada delle soluzioni assistenzialistiche ha invece conseguenze pesanti sul piano dei diritti e su quello economico.

Non si deve negare la capacità lavorativa alle persone handicappate che possono lavorare, per poi richiedere allo Stato un carico assistenziale peraltro oneroso e, in ogni caso, penalizzante per la persona che non viene riconosciuta e valorizzata per le sue potenzialità.

L’inserimento lavorativo è del resto conveniente perché la persona handicappata contribuisce come ogni cittadino alla formazione del reddito e accresce il prelievo fiscale ed il benessere collettivo piuttosto che gravare sul settore assistenziale.

Un altro ostacolo culturale è la mentalità corrente che spesso considera ancora la persona handicappata sempre come persona solamente bisognosa di assistenza e di protezione.

Eppure tanti sono gli esempi di persone handicappate (compresi parlamentari e in passato ministri della Repubblica) che occupano posti nel lavoro e nella vita sociale al pari degli altri cittadini dimostrando esattamente il contrario.

Al Capo dello Stato noi chiediamo pertanto iniziative sul piano culturale volte a ribaltare l’attuale logica assistenzialistica per restituire il diritto al lavoro a tutte le persone handicappate con capacità lavorative, comprese quelle con una capacità lavorativa ridotta, ma pur sempre proficua per l’azienda.

Ad esempio, al pari delle cerimonie per la nomina dei Cavalieri del lavoro, iniziative analoghe potrebbero essere assunte per dare visibilità alle centinaia di assunzioni che, nonostante tutte le difficoltà, sono state realizzate nel nostro Paese.

Si allega al riguardo la relazione presentata da Giovanni Lodico, Responsabile del personale della Mc Donald’s Food Italia di Roma, al 2° Convegno europeo tenutosi a Milano, il 24-25 ottobre 1998, sul tema “Handicappati intellettivi e soggetti con sindrome Down”, che ha presentato la positiva esperienza realizzata al Mc Donald’s di Roma che ha assunto a tutt’oggi una decina di giovani con sindrome Down e/o con handicap intellettivo.

Uniamo anche il “Libro bianco” predisposto dal CSA insieme al Gruppo dei genitori per il diritto al lavoro dei figli con handicap intellettivo, a testimonianza delle enormi difficoltà che si incontrano per ottenere assunzioni in aziende pubbliche e private, ma anche quale esempio positivo di conquiste ottenute.

Anche in questo ambito grande rilievo avrebbe l’assunzione da parte del Quirinale di persone handicappate con piena capacità lavorativa (ad esempio un paraplegico diplomato è pienamente in grado di svolgere il suo compito ad un tavolo, a un computer...) ma ancor più di giovani con handicap intellettivo. Nel libro bianco che uniamo vi sono elencate le mansioni che sono in grado di svolgere, tutte mansioni indispensabili e individuabili anche negli uffici del Capo dello Stato.

Non va dimenticata purtroppo la scandalosa disapplicazione anche da parte dei Ministeri, oltre che degli Enti locali e delle ASL, della legge sul collocamento obbligatorio degli handicappati, peraltro periodicamente denunciata nella relazione annuale predisposta dal Ministro per la solidarietà sociale e trasmessa al Parlamento;

d) degli handicappati intellettivi in situazione di gravità. Vi sono persone con handicap così gravi da determinare la necessità di un aiuto costante di altre persone, anche per l’espletamento dei bisogni fondamentali per vivere.

Anche queste persone – come ogni altro cittadino della Repubblica – hanno diritto a poter usufruire di tutti i servizi sociali. Esse devono avere accesso oltre che a tutti gli interventi preventivi, curativi, riabilitativi del servizio sanitario, anche alle prestazioni previste per tutti i cittadini nel campo della scuola, della casa, dei trasporti, dell’accessibilità ai servizi, del tempo libero...

L’intervento assistenziale deve essere assicurato come intervento aggiuntivo (e non sostitutivo) degli interventi sociali.

Al presente, le persone handicappate in situazione di gravità (non avviabili pertanto al lavoro a causa delle limitazioni notevoli della loro autonomia e, quindi, con capacità lavorativa nulla), non hanno diritti esigibili e, dunque, per il soddisfacimento dei loro bisogni, dipendono dalla discrezionalità degli Enti locali.

In base al 1° comma dell’art. 38 della Costitu­zione, in quanto inabili e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, esse hanno diritto al mantenimento e all’assistenza sociale da parte dello Stato.

In pratica, però, tali principi fino ad oggi non sono stati recepiti dal Parlamento, che non ha ancora legiferato in materia di assistenza, né sono stati recepiti dal testo di legge attualmente all’esame al Senato (disegno di legge 4641).

Anche la legge quadro sull’handicap (legge 104/1992) e le modifiche successive (legge 162/1998) non hanno stabilito diritti esigibili e norme prescrittive nei riguardi delle Regioni e degli Enti locali, con la conseguenza che non sono stati realizzati in misura sufficiente il servizio di aiuto alla persona, i centri diurni assistenziali e le comunità alloggio, benché indicati come interventi da privilegiare in entrambe le leggi, compatibilmente con le risorse di bilancio.

La conseguenza è che a tutt’oggi non esiste in tutto il territorio nazionale una rete di servizi assistenziali minima, capace di rispondere alle esigenze degli handicappati intellettivi in situazione di gravità ultradiciottenni (che hanno assolto l’obbligo scolastico e formativo) e delle loro famiglie.

Si rammenta che, solo per iniziativa e spinta delle Associazioni (ad esempio a Torino ad opera del nostro coordinamento che opera ininterrottamente dal 1970), le Amministrazioni hanno realizzato centri diurni assistenziali aperti 5 giorni alla settimana e per circa 8 ore al giorno.

Grazie a questo sostegno diurno, le famiglie degli handicappati in situazione di gravità e con handicap intellettivo, hanno continuato e continuano ad accogliere a lungo i loro figli, anche quando sono adulti di 45-50 anni.

Si tratta di decine di migliaia di famiglie che, senza avere alcun obbligo giuridico ma con forte impegno etico, accolgono a casa loro parenti maggiorenni totalmente non autosufficienti, con enormi vantaggi per i soggetti interessati.

Molto spesso le competenti autorità approfittano dei legami affettivi per non fornire le prestazioni indispensabili, come ad esempio i centri diurni assistenziali, e dimenticano che i vincoli di parentela non possono e non devono far venire meno i doveri di solidarietà sociale da parte di tutta la comunità.

Va altresì osservato che non si comprende per quali motivi le Amministrazioni pubbliche versino contributi economici per gli affidamenti di maggiorenni a terze persone e non debbano assumere gli stessi oneri se il soggetto convive presso congiunti, senza i quali non potrebbe certamente vivere da solo.

È infatti una vergogna scandalosa – come abbiamo già segnalato nella nostra del 7 febbraio 2000 indirizzata al Dr. Gifuni – la pensione di circa 400.000 lire mensili, versata dallo Stato alle persone con handicap impossibilitate a svolgere qualsiasi attività lavorativa, mentre centinaia di miliardi sono erogati a titolo di integrazione al minimo delle pensioni INPS o degli assegni e pensioni sociali a soggetti che hanno risorse sufficienti per provvedere alle loro esigenze.

Il Presidente della Repubblica non può ignorare che, per l’assegnazione dei suddetti emolumenti, le vigenti disposizioni non tengono conto dei patrimoni posseduti per cui, ad esempio, non avere redditi e beni è considerata dalle vigenti norme una condizione identica a quella di coloro che posseggono alloggi o ville anche del valore di alcune centinaia di milioni.

Il nostro Coordinamento propone al Capo dello Stato di introdurre nelle sue iniziative momenti volti al riconoscimento dell’azione di “volontariato intra-familiare” svolto da queste famiglie, ad esempio programmando, nelle sue visite per l’Italia, momenti di ringraziamento ai familiari, sostenute però da richiami autorevoli alle Autorità locali perché non venga meno l’indispensabile aiuto dei servizi assistenziali a fianco della famiglia;

e) delle persone che per motivazioni personali, familiari e/o sociali non possono continuare a vivere presso la propria famiglia. La risposta prevalente dello Stato è stata e continua ad essere in prevalenza il ricovero in strutture assistenziali di grandi dimensioni, che nulla hanno a che fare con la dimensione familiare.

Sono note ormai da decenni le conseguenze nefaste del ricovero in istituzioni totali che, indipendentemente dalla buona volontà degli operatori, per la loro stessa natura, non possono rispondere ai bisogni particolari del singolo.

In particolare ciò avviene per le persone con handicap intellettivo, per le quali sono tuttora insufficienti le comunità alloggio, di piccole dimensioni (8-10 posti al massimo) e realizzate in normali contesti abitativi.

Vi è la necessità che siano realizzate almeno in misura di 1 ogni 30 mila abitanti, ma ciò non sarà possibile fintanto che gli Enti locali non avranno obblighi precisi con leggi dello Stato che li vincolino a utilizzare le risorse per aprire comunità alloggio, anziché costruire istituti o continuare a finanziarli con il pagamento delle rette di ricovero.

Non abbiamo condiviso pertanto la visita effettuata in precedenza a Torino dal Capo dello Stato al Cottolengo (istituto privato), il suo elogio a un’istituzione astorica, superata peraltro proprio a Torino dalle numerose proposte alternative che la Città ha saputo dare ai suoi cittadini con maggiori difficoltà.

Ad esempio, per gli handicappati intellettivi, soprattutto grazie all’azione di volontariato promozionale sviluppata dal CSA, sono operanti 20 centri diurni assistenziali, 7 centri di attività diurna, 16 comunità alloggio e 15 convivenze guidate.

Un segnale innovativo e di indicazione dovrebbe, a nostro avviso, essere rivolto dal Capo dello Stato al riconoscimento delle azioni positive attivate, in attuazione del 1° comma dell’art. 38 della Costi­tuzione, in precedenza ricordato, da parte degli Enti locali, che hanno realizzato servizi assistenziali alternativi al ricovero in istituto.

Se è ormai ampiamente riconosciuto che l’istituto “fa male”, il Capo dello Stato dovrebbe promuovere visite a comunità alloggio pubbliche o private convenzionate con il pubblico.

In questo modo darebbe altresì una risposta concreta alle preoccupazioni delle centinaia di famiglie di handicappati intellettivi in situazione di gravità, che pensando al “dopo di noi” non riescono a vedere nello Stato (e negli Enti locali) i futuri responsabili per i loro figli.

Nel convegno tenutosi a Trento, il 31 gennaio 1998 su questo tema la mamma di una giovane handicappata intellettiva ha detto: «Mi piacerebbe immaginare mia figlia in un gruppo famiglia, mentre continua a frequentare il centro diurno e quelle attività di tempo libero che oggi la coinvolgono tanto e che le permettono di vivere con la gente. Mi dispiacerebbe molto, invece, vederla privata di tutte le sue sicurezze: la casa, il centro diurno, la città, le persone che gravitano intorno alla sua giornata... fatto che accadrebbe inevitabilmente se venisse ricoverata in un istituto, specialmente se in un’altra città»;

f) dei minori con gravi difficoltà familiari o in stato di adottabilità. La normativa vigente (legge 4 maggio 1983, n. 184) afferma il diritto di ogni minore a crescere in una famiglia, secondo precise priorità di intervento:

– il minore ha diritto a essere educato nell’ambito della propria famiglia (art. 1);

– il minore che sia temporaneamente privo di un am­biente familiare idoneo può essere affidato a un’altra famiglia possibilmente con figli minori, o a una persona singola o a una comunità di tipo familiare.

Per il minore riconosciuto in stato di abbandono morale e materiale da parte dei genitori (art. 8) e dichiarato quindi in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni, è prevista l’adozione da parte di coniugi idonei a educare, istruire e in grado di mantenere gli adottati.

La legge codifica dunque, in modo quanto mai significativo, un consolidato orientamento della cultura sociale già fatto proprio dalla Costituzione repubblicana: la famiglia come diritto fondamentale del minore; più in generale, la famiglia come risorsa per la comunità e per quanti, nella comunità, ne siano temporaneamente o definitivamente privi. In sostanza si riconosce che il bambino ha assoluto bisogno di un ambiente familiare per crescere.

Il ricovero in istituto è consentito solo quando non sono possibili gli interventi suddetti.

Positivi sono stati i risultati ottenuti con l’applicazione delle leggi 431/67 e 184/83. Grazie ad esse sono stati adottati oltre 90.000 minori. Va ricordato che diversi di questi sono bambini portatori di handicap, malati o che hanno subito, prima del loro inserimento nella famiglia adottiva, abusi e maltrattamenti anche gravi.

Migliaia di bambini e ragazzi, inoltre, sono stati accolti in affidamento familiare. L’aver dato una famiglia a questi minori ha evitato loro le sofferenze e le conseguenze, spesso drammatiche, causate dal ricovero in istituto e li ha sottratti all’emarginazione sociale determinata dalla delinquenza, dalla prostituzione, dalle diverse forme di disagio che colpiscono – certamente non tutti –, ma una gran parte dei minori che hanno subito una lunga istituzionalizzazione.

Grazie anche a queste leggi, e alle iniziative assunte dall’ANFAA e da altre associazioni e organizzazioni aderenti al CSA contro il ricovero in istituto di bambini e adolescenti, il loro numero è diminuito dai 310 mila del 1960 (dati tratti dalle pubblicazioni dell’ISTAT) ai 20 mila del 1998 (v. articolo allegato n. 6).

Il numero dei minori che sono costretti a passare anni fondamentali della loro vita in un ambiente non idoneo per un sano e corretto sviluppo psico-fisico, è ancora drammatico. Non è certamente imputabile, però, alla legge 184/83, ma alla sua mancata piena attuazione.

Oltre agli ottimi risultati prodotti da queste leggi sul piano individuale, non va dimenticato di sottolineare il grande risparmio – in termini di centinaia di miliardi – che le adozioni e gli affidamenti realizzati e la riduzione dei ricoverati in istituto, ha significato per lo Stato.

Inoltre, trent’anni di applicazione delle leggi sull’adozione hanno determinato una valida giurisprudenza e una prassi interpretativa ormai consolidata. È vero che troppo spesso i provvedimenti necessari per la tutela dei bambini privi di assistenza materiale e morale e di quelli la cui famiglia versa in gravi difficoltà, sono assunti dai tribunali per i minorenni in tempi estremamente lunghi. Questo problema – grave perché non dobbiamo dimenticare che per un bambino il permanere per uno, due, tre e, non raramente, più anni in una situazione problematica è estremamente, e a volte anche irrimediabilmente, dannoso – può, però essere solo risolto se, a fianco dell’impegno personale dei singoli giudici e operatori sociali coinvolti, ai tribunali per i minorenni venissero forniti i necessari strumenti (organici adeguati, attrezzature valide, ecc.) e soprattutto se fosse assicurato un efficiente funzionamento dei servizi socio-assistenziali da parte dei Comuni singoli o associati. Il migliore funzionamento dei servizi, ovviamente, non può essere assicurato da una legge sull’adozione e sull’affidamento familiare, ma solamente da una organica e valida legge quadro di riforma dell’assistenza.

Al riguardo il testo approvato dalla Camera dei Deputati è, purtroppo, estremamente deludente.

I dati sopra riportati (drastica riduzione dei minori ricoverati, numero di adozioni e di affidamenti familiari realizzati) constatano la estrema validità di queste leggi, il che avrebbe dovuto indurre il Parlamento a introdurre, nell’ambito della riforma della legge sull’adozione, solo quelle modifiche – per la verità abbastanza limitate – necessarie per una maggiore tutela dei diritti e delle esigenze dei minori soli o con famiglie in difficoltà.

È da tenere in considerazione inoltre che con l’approvazione della legge 476/98 «Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a l’Aja il 29 maggio 1993 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri”», sono state introdotte nel nostro ordinamento quelle norme necessarie per regolamentare più compiutamente l’adozione internazionale e per stroncare il mercato dei minori stranieri. Buon senso vorrebbe che le esperienze positive acquisite siano conservate e valorizzate.

Purtroppo la scelta operata dal Senato nell’apportare le modifiche alla legge 184/83, scelta che speriamo possa però essere riconsiderata, è stata quella di riscrivere quasi tutte le norme della legge 184/83.

La Commissione speciale per l’infanzia ha iniziato nei mesi scorsi l’esame dei numerosi disegni di legge presentati e attualmente sta esaminando il testo unificato predisposto dal relatore del Comitato ristretto Sen. Callegaro.

Questo testo accanto ad alcune – molto poche in verità – norme valide, quali quelle che prevedono l’obbligatoria assistenza di un difensore del minore, dei suoi genitori biologici e degli altri parenti durante tutto il procedimento di adottabilità e che eliminano la possibilità di ricorso presso il tribunale per i minorenni accelerando in tal modo l’iter per la dichiarazione di adottabilità, ne contiene diverse estremamente negative sia in materia di adozione che di affidamento familiare.

Se approvate, queste norme, rischiano di produrre effetti deleteri nei confronti di migliaia di minori privi di assistenza materiale e morale da parte dei loro genitori e parenti o con una famiglia in difficoltà.

Al riguardo va segnalato che il Governo ha approvato nella seduta del 2 giugno 2000 un disegno di legge n. 4648 (che riproduce il testo dell’art. 7 già approvato dalla Commissione) e diretto all’elevazione a 45 anni della differenza massima di età fra adottanti e adottati.

Questo è un provvedimento non solo inutile ma dannoso. Spieghiamo in breve perché.

Al 31 dicembre 1999 erano pendenti 23.807 domande di adozione di minori italiani a fronte dei 1.020 decreti di adozione pronunziati.

Per quanto riguarda l’adozione di minori stranieri, nello stesso anno le domande erano 17.663 a fronte di 3.123 affidamenti preadottivi pronunciati dai tribunali.

L’elevazione – se approvata – del limite massimo di età porterà all’aumento delle domande di adozione per i piccolissimi (non più di 350-400 all’anno) in Italia.

Per quanto riguarda i minori stranieri va inoltre tenuto presente che, con l’effettiva entrata in vigore della convenzione de L’Aja, il numero dei minori adottati in Italia diminuirà, venendo eliminato il traffico dei minori.

L’estensione del numero delle persone che potrebbero presentare domanda di adozione servirebbe soltanto ad aumentare in misura considerevole il numero delle coppie insoddisfatte. Sarebbe una norma fatta per illudere la gente, il che è un comportamento censurabile, perché significa procurare inevitabili delusioni a persone che offrono positive disponibilità.

Al contrario, la differenza massima di età dovrebbe essere diminuita dagli attuali 40 anni a 35: con questa proposta non si danneggerebbe un solo bambino italiano e straniero, in quanto tutti continuerebbero ad essere adottati, né più né meno di quanto avviene attualmente, ma con il vantaggio di essere accolti da genitori più giovani, il che è senz’altro, a parità di condizioni, un dato positivo.

Riducendo la differenza massima di età, sarebbe anche minore il numero delle domande presentate ai tribunali per i minorenni e da questi smistate ai servizi sociali, rendendo in tal modo possibile effettuare valutazioni più approfondite delle capacità educative degli aspiranti adottandi;

g) della tutela del diritto alla segretezza del parto. Con allarmante frequenza i mezzi di informazione segnalano strazianti casi di neonati uccisi dai familiari.

Tutti noi proviamo, giustamente, sdegno e condanna nei riguardi di chi ha provocato la loro morte: giusti sentimenti che però non modificano la situazione, che non eviteranno altri abbandoni e infanticidi, se non ci sarà un maggiore impegno da parte delle istituzioni: Ministeri, Province, Ospedali, ecc.

Va segnalato che le donne che non intendono riconoscere il proprio nato hanno diritto a partorire in assoluta segretezza negli ospedali e nelle altre strutture sanitarie o di essere, quindi, seguite dal punto di vista medico-infermieristico come tutte le altre partorienti, assicurando anche al neonato le cure di cui necessita.

In questi casi l’atto di nascita del neonato è redatto con la dizione “nato da donna che non consente di essere nominata” e l’Ufficiale di Stato civile, dopo aver attribuito al neonato un nome e un cognome, procede entro 10 giorni dalla formazione dell’atto alla segnalazione al tribunale per i minorenni per la dichiarazione di adottabilità ai sensi della legge 4 maggio 1983 n. 184.

Così, a pochi giorni dalla nascita, il piccolo viene inserito in una famiglia adottiva, scelta dal tribunale fra quelle che hanno presentato domanda di adozione al tribunale stesso.

Inoltre, dal 1927 le Province e la Regione Autonoma della Valle d’Aosta sono obbligate ad assistere a livello sociale le gestanti in difficoltà, assicurando i necessari interventi prima, durante e dopo il parto.

Occorre un lavoro svolto da personale preparato (assistenti sociali, psicologi, educatori, ecc.) che aiuti la gestante a decidere responsabilmente se riconoscere o meno il proprio nato e poi la sostenga fino a quando è in grado di provvedere autonomamente a se stessa e, se ha riconosciuto il bambino, al proprio figlio.

Sovente l’intervento assistenziale di supporto è necessario anche per gestanti e madri coniugate con situazioni personali e familiari difficili. Se questi servizi fossero funzionanti e conosciuti, verrebbe certamente ridotto il numero dei bambini abbandonati nei cassonetti o uccisi alla nascita.

Per quanto detto sarebbe importante a nostro avviso che il Capo dello Stato valorizzasse:

a) il rapporto di genitorialità e filiazioni vere, che si stabiliscono attraverso l’adozione; proponiamo al riguardo ad esempio un incontro del Presidente con gruppi di figli e genitori adottivi. Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata a quanti hanno adottato bambini con gravi handicap o malattie o già grandicelli;

b) le scelte di accoglienza realizzate da famiglie affidatarie che, per periodi più o meno lunghi hanno aperto la loro casa a bambini e ragazzi, evitando loro il ricovero in istituto, le cui conseguenze negative sono ampiamente conosciute. Suggeriamo un incontro con gruppi e associazioni di affidatari per valorizzare i legami di solidarietà e promuovere la diffusione di una “cultura” dell’affidamento familiare;

c) le piccole comunità di tipo familiare realizzate dagli Enti locali o da privati in convenzione con il pubblico, alternative valide al ricovero in istituto. Il Capo dello Stato potrebbe programmare visite a queste realtà, piuttosto che a grandi istituti di ricovero;

d) le scelte operate da amministratori, operatori e volontari impegnati a sostenere le giovani e le donne gestanti con gravi difficoltà personali e familiari, affinché possano assumere decisioni responsabili sul futuro loro e dei loro nati. Anche in questo caso sarebbe utile una visita del Capo dello Stato.

Tutte le iniziative dovrebbero essere preparate e valorizzate con i mezzi di informazione per il conseguente risalto che ne avrebbero nei confronti del­l’opinione pubblica.

 

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