Prospettive assistenziali, n. 131, luglio-settembre 2000

 

Il diritto del bambino di vivere in atmosfere familiari, scolastiche e sociali che creano ben-essere

emilia de rienzo (*)

 

Il titolo del corso è “Star bene a scuola insieme si può” e l’argomento di questo giorno è “Il diritto del bambino di vivere in atmosfere che creano ben-essere”. La parola bene compare due volte, ma in una collocazione diversa. Nel primo caso si dice “star bene” e il verbo stare definisce il tempo e lo spazio: a scuola. Nel secondo titolo si parla di ben-essere. Bene si associa alla parola essere che giustamente appare nel titolo separata dall’altra. Ora dire stare o dire essere sono due cose molto differenti, perché nella parola essere la nozione di tempo e spazio scompare. Essere è qualcosa che va al di là del tempo e dello spazio che vengono trascesi. Ben-essere è avere coscienza di sé e sentirsi bene.

Star bene e ben-essere sono sempre in relazione fra di loro. Star bene senza avere come finalità il ben-essere è uno star bene aleatorio, fine a se stesso che muore quando finisce il momento e il luogo dove si verifica. Cercare il ben-essere senza costruire giorno per giorno lo star-bene nelle situazioni in cui si vive può essere cercare qualcosa che non esiste nella realtà, che si sogna, si spera ma che non diventa mai realtà.

Prima di tutto siamo noi adulti che dobbiamo avere il coraggio di interrogare noi stessi e chiederci se veramente la nostra vita è improntata al ben-essere, se siamo in grado di cercare, interrogarci e costruire il nostro star bene in ogni situazione di vita o se l’abitudine della routine ci ha fatto dimenticare le finalità del nostro stare nella scuola.

Non si può negare che molto spesso nella scuola i primi a non star bene sono proprio gli adulti: gli insegnanti e spesso anche i genitori tra cui non sempre c’è armonia né si costituisce quell’alleanza solidale che possa tendere al ben-essere del bambino.

I motivi per cui l’adulto non sta bene sono tanti e intricati, ma non dovrebbero più essere taciuti ed espressi, non per raccogliere le lamentele o per piangersi addosso, ma, al contrario, per ritrovare i sensi del nostro agire, il significato del nostro lavorare e vivere nella scuola con i bambini.

 

Essere adulti che abbiano ancora voglia d’interrogarsi

Abbiamo bisogno di motivazioni salde e forti ed è nostro dovere ritrovarle se le abbiamo perdute, come è dovere quello dei padri e delle mamme ritrovare giorno per giorno, al di là delle grandi difficoltà, i sensi del loro essere genitori.

La famiglia e la scuola sono ancora capisaldi fondamentali per una crescita armoniosa del bambino.

I bambini non hanno bisogno di adulti perfetti ma di adulti che abbiano ancora voglia interrogarsi, di adulti che sappiano quindi essere persone mature e che dimostrino loro di sapersi prendere cura dell'altro senza dimenticare se stessi, per poterlo aiutare a crescere e a diventare a sua volta persona.

Ciò che può rendere sopportabile l'esperienza di formazione e sopportabile l'esperienza del bambino che apprende così come dell'adulto che insegna, è l'interesse e la capacità di riflettere sui sentimenti evocati in noi.

Questa riflessione sui sentimenti ci rende capaci di vivere l'esperienza e di afferrare il suo significato e può, quindi, risultarne una migliore comprensione degli altri ma anche di noi stessi.

Essere poco attenti alla sfera emotiva equivale ad essere disattenti a noi stessi e al bambino che, mentre apprende, mette in gioco tutto se stesso e non solo la sfera intellettiva.

Se non si è attenti alla relazione educativa si rischia di creare un'antinomia tra il cognitivo/l'affettivo, di staccare la lezione dal processo formativo e quindi il sapere dal capire.

Non esiste ben-essere se non c'è comprensione di sé, acquisizione quindi di un sapere che arricchisce, che non si appone in modo insignificante.

Fare l'insegnante significa, nella misura in cui si è sempre in relazione ad altri essere sempre pronti ad accettare di cambiare se stessi, i propri punti di vista, quando questi ci impediscono di vedere il diverso da noi, l'altro nella sua complessità.

C'è spesso molta paura nell'insegnante di lasciarsi troppo coinvolgere, di essere troppo presi dai problemi dei bambini e si inventa un distacco professionale che si rifugia dietro l'alibi che noi dobbiamo occuparci dell'apprendimento, dell'acquisizione del sapere, del cognitivo e non dell'emotivo, che non siamo mamme, ma insegnanti. Se è vero che è diverso il ruolo del genitore, non si può negare (che lo vogliamo o no) che tra noi e il bambino si crei inevitabilmente una relazione emotiva. Se noi la neghiamo, il bambino percepirà il nostro rifiuto e sostanzialmente la nostra paura.

C'è emotività e affettività tra adulto e bambino, tra adulto e adulto nel momento in cui c'è uno stare insieme; quindi difendersi dall'emozione, dai sentimenti vuol dire negare la possibilità di costruire una relazione valida.

In genere tutto va bene quando di fronte a noi abbiamo bambini e adulti che non ci pongono problemi che non mettono in discussione le nostre sicurezze.

Di fronte a bambini instabili, trasgressivi, provocatori, le nostre reazioni sono immediatamente di difesa e non riconoscerlo ci costruisce intorno una barriera che impedisce sicuramente la comunicazione, ma anche la possibilità per noi di arricchire la nostra personalità, di renderla più forte, più elastica, più vera. La corazza intorno a noi può allora diventare sempre più spessa, il nostro mondo interiore sempre più piccolo e fragile.

Nel momento in cui non c'è comunicazione si determina una proiezione negativa: o divento io incapace o è l'altro a essere cattivo: in tutti e due i casi ci si fa del male, si innesta una spirale che rende il nostro vivere a scuola difficile e pesante. Spesso capita che la nostra intenzione sia buona, ma non funziona, non arriva e diciamo "ho fatto tutto il possibile" e traiamo quindi la conclusione "che non c'è niente da fare". In realtà non sarebbe più giusto pensare che io posso cambiare modalità, strumento, ma non cambiare il senso del mio intervento?

 

Accettare l'errore

Non è facile, ma dobbiamo metterci in un atteggiamento di ricerca permanente che non dà mai nulla per scontato né acquisito una volta per sempre. Potrò non riuscire, ma almeno ho pensato, riflettuto ho capito dove ho dei limiti... Non dobbiamo essere come quei medici che definiscono incurabile una malattia solo perché non sono stati loro in grado di trovare la cura.

Capita che molti di noi lavorino molto, producano una quantità enorme di materiale, ma l'atteggiamento pericoloso è nel credere che tutto questo dovrà avere necessariamente dei risultati, e spesso non si è in grado di accettare che le nostre prove possano anche fallire senza che sia "io" a fallire. Non sempre riusciamo, se dobbiamo avere un gran senso di responsabilità questo non deve trasformarsi o in senso di colpa o in una colpevolizzazione dell'altro sia esso il bambino o la famiglia. Non tutto può essere sotto il nostro controllo, non su tutto possiamo darci risposte rassicuranti. È importante che dentro di noi rimanga la domanda e la volontà di provare ancora.

 

Quel che siamo e come siamo. Il vero strumento psicopedagogico e didattico che abbiamo in mano siamo noi

Quel che educa non è quel che diciamo e quel che facciamo, non è solo la didattica, ma è quel che siamo e come siamo.

Dobbiamo, agire e poi pensare a come si è agito, accettare i propri errori.

Mi ha colpito quello che una volta ha detto la dottoressa De Leo (neuropsichiatra infantile di Torino) ad un corso di aggiornamento:

«La difficoltà è il fatto che il vero strumento psicopedagogico e didattico che abbiamo in mano siamo noi stesse e la nostra personalità. Tutto il resto sono strumenti a cui troppo spesso ci aggrappiamo, dietro cui ci copriamo. Nella realtà non esiste a livello cognitivo un metodo meglio dell'altro per far apprendere una certa nozione. Esiste essenzialmente il mediatore, cioè chi aiuta l'altro ad apprendere».

Qualsiasi sia il metodo, in realtà, se i bambini hanno imparato è perché c'era la nostra mente, il nostro entusiasmo, il nostro cuore, c'era la nostra rabbia, le gratificazioni che hanno “creato", il nostro coinvolgimento.

Questo presupposto è fondamentale, gli strumenti didattici sono solo strumenti, ma siamo noi che li usiamo, che li proponiamo ed è là il nostro approccio all'altro che conta veramente.

Il nostro lavoro ci porta spesso ad essere depressi perché soggetto spesso a sconfitte. Non bisogna averne paura, la depressione è un momento di arresto che ci aiuta a trovare delle risposte più attente se leggiamo dentro di noi, se non abbiamo paura delle risonanze negative che a volte i bambini spesso ci trasmettono nel momento in cui non riescono ad apprendere. La depressione può essere un momento di crescita nel momento in cui la sappiamo rielaborare, comprendere per trovare energie nuove per ricominciare, è una morte da cui nasce qualcosa di nuovo. Se non l'accettiamo come momento inevitabile, la cacciamo solo dentro e allora può essere e divenire veramente pericolosa.

 

Abituarsi a riflettere, imparare dagli errori

Bisogna abituarsi a riflettere dopo aver fatto. Si riflette su ciò che si è detto, si impara a sapersi rileggere nelle cose che possono essere sbagliate. Così ci si aiuta per la volta successiva. Se si assume sempre questa abitudine ci si accorge che poi spontaneamente si riesce a parlare meglio.

Fare esperienza non significa fare tante cose per tanto tempo per poi riuscire automaticamente, quello è “fare", "agire". Esperienza è ciò che viene dopo, è ciò che la nostra mente rielabora e per poter rielaborare devo ripensare a cosa ho fatto, come, quando, come l'ho vissuto, ecc.

Bisognerebbe imparare non solo la didattica ma come si fa a riflettere sulla nostra esperienza. Questo vale per tutti gli operatori sociali ma non fa ancora parte della nostra cultura e della formazione dei professionisti. Solo quello ci aiuta ad affrontare una situazione facendone esperienza.

In un clima emotivo accogliente e stimolante sicuramente in ogni bambino certi concetti rimangono di più. Ma a volte ugualmente non funziona, e non sempre tutto è imputabile alla formula "il bambino non studia". Può essere. Ma è una formulazione che ci deresponsabilizza e blocca la nostra ricerca, la nostra volontà di capire.

Se lo stimolo non ha dato quell'effetto, che effetto invece ha dato? Se c'è stato quell'effetto, a quale parte dello stimolo che si è dato invece il bambino ha risposto? È dagli errori che si costruiscono le teorie e le pratiche più giuste e significative.

Non bisogna lasciarsi prendere dall'ansia, dall'ansia che deriva dall'aspettativa, dal desiderio di ottenere un prodotto. Bisogna, invece, riflettere e accettare, di leggere dentro le situazioni e accettare l'errore, non solo il nostro, ma anche l'errore del bambino. Soprattutto bisogna accettare che i processi di apprendimento nel bambino possano essere lenti. Bisogna accettare per raggiungere tutti i bambini i tempi veloci ma anche i tempi lenti e quelli lentis­simi.

 

Educare non è modellare

Il primo compito della scuola è, quindi, quello di creare una situazione di accoglienza. Questo vuol dire creare all'interno della classe momenti di confronto in cui l'ascolto dell'altro, delle sue problematiche, dei suoi valori diventa un momento fondamentale per la convivenza, la valorizzazione ed il rispetto di ogni singolo individuo. Ogni bambino dovrà capire che ognuno nella sua individualissima storia è un mondo e che ogni mondo ha la sua ricchezza.

La scuola deve educare non modellare, deve saper avviare processi di apprendimento in cui l'allievo si costruisce. È l'atteggiamento di dialogo con l'altro, con quello che può venire dall'altro come esperienza sempre individuale, che deve essere valorizzato nella relazione educativa. Questo approccio educativo potrà aprire la mente all'apprendimento di un sapere che il ragazzo non sentirà più come estraneo, ma che sarà vissuto come un aiuto alla sua crescita.

La parola e-ducare etimologicamente vuol "far venire fuori”, l'esatto contrario di chi educa plasmando e non rispetta ciò che di proprio c'è nell'altro, di individuale.

L'insegnante dovrà, quindi, creare un'atmosfera di classe in cui ognuno si sente accettato e valorizzato per quello che è e aiutato ad esprimere le proprie potenzialità. Un'atmosfera che non esclude, ma in-clude. L'insegnante dovrà partire dal bambino com'è per farlo crescere secondo le sue possibilità; aiutarlo ad individuare i suoi limiti, ad accettarli e trovare insieme a lui il modo per superarli: un metodo questo che non coinvolge solo la tecnica da usare, ma l'approccio in senso più globale.

La scuola troppo spesso, obbligandoci a confrontare continuamente con un bambino standard, porta frustrazione o svalutazione in alcuni ed in altri all'incontrario la convinzione che, siccome si sa fare quello che la scuola gli offre, non ha più nulla da imparare.

L'apprendimento non è una semplice acquisizione di nozioni, abilità e concetti ma è un processo più complesso in cui non sono in gioco solo i contenuti da ritenere, ma anche le emozioni che ciascun bambino mette in atto nell'incontro con il nuovo. E questo incontro con il nuovo potrà essere accolto con relativa facilità o con, invece, un atteggiamento di rifiuto e di negazione.

Ma l'abitudine ad incontrarsi con il nuovo e con la difficoltà dovrà essere di tutti e non solo in alcuni. Quanti bambini che vanno bene a scuola, poi si scontrano con la vita perché non abituati ad affrontare ciò che oltrepassa il proprio limite, la difficoltà, non quella insormontabile, ma quella che lo aiuta a crescere e a maturare prendendo coscienza di sé.

 

Si può imparare solo da un'esperienza. Le difficoltà vanno affrontate

Non si tratta solo di modificare i contenuti che possono anche essere di per sé stimolanti e ricchi, ma che non sono l'unica garanzia di un apprendimento.

Quello che è importante è l'esperienza che il bambino fa all'interno del contesto scuola nella relazione con chi insegna e con i compagni.

Il bambino deve essere messo in grado di affrontare la difficoltà, la confusione, il senso di inadeguatezza che possono nascere nell'incontro con il nuovo. Le difficoltà non vanno evitate, come molto spesso tanti oggi credono, soprattutto i genitori, le difficoltà vanno affrontate, ma bisogna essere aiutati a trovare i modi e bisogna essere attenti quando la richiesta è al di fuori della portata di un bambino.

L'apprendimento è, infatti, di per sé incontro con una difficoltà, non può essere lineare ed indolore.

Un bambino piccolo impara a camminare, a parlare solo quando si sente sorretto, aiutato, impara ad usare bene la parola e il relazionarsi agli altri solo se ha appreso da un'esperienza positiva. Solo se sono stati accolti i suoi momenti di scoraggiamento con comprensione, se è stato stimolato a superare le difficoltà e non ha sentito l'adulto impaurito di fronte ai suoi insuccessi ma ne ha, invece, percepito la fiducia. Ma il genitore nello stesso tempo, quando il bambino cade, ha paura, non riesce, lo aiuta e lo stimola a riprovare, magari cercando degli aiuti: gli dà la mano, lo fa appoggiare al muro, ecc.

 

Comunicare la fiducia

Così nella scuola è fondamentale creare situazioni di interazioni significative che aiutino l'allievo ad avvicinare e riconoscere le emozioni e i vissuti negativi (impazienza, rabbia, impotenza, fastidio) che si vengono a creare nella situazione di apprendimento. Riconoscerle deve poi voler dire affrontarle e tenerle a bada.

Troppo spesso si pensa di perdere tempo quando ci si ferma, a parlare con i bambini o col bambino, a cercare il momento in cui l'apprendimento si è eventualmente inceppato, a trovare insieme soluzioni che possono essere tante e che richiedono sicuramente una partecipazione dell'insegnante. È lui il primo a dover credere che è possibile...

Nella misura in cui l'insegnante può mettersi in gioco come persona, tollerare e pensare i messaggi emotivi dell'allievo, anche quelli espressi con atteggiamenti superficiali, incoerenti e aggressivi, l'alunno può sperimentare la comprensione del docente rispetto a sentimenti dolorosi come la paura di sbagliare e di essere inadeguato, la rabbia persecutoria verso una situazione che lo espone al disagio, la frustrazione con cui si subisce un insuccesso. Solo in questo modo si può pian piano ridurre la possibilità che questi sentimenti si trasformino in comportamenti indisciplinati e strategie cognitive inefficaci. La risposta pedagogica è cosi arricchita dalla comprensione dei bisogni dell'allievo, non solo cognitivi ma anche emotivi.

D'altra parte un insegnante attento ai modi e ai ritmi di apprendimento dell'allievo non solo al risultato, al processo non solo al prodotto, fa sentire a questi che la stima per lui non dipende esclusivamente dai suoi risultati a scuola. Si aprono nuove possibilità di bilanciare sentimenti e percezioni negative della realtà con vissuti di fiducia e di speranza nelle risorse esterne e interne. Frasi come "vedrai che pian piano insieme ce la facciamo" a volte possono più di tante strategie didattiche, o "dimmi qual è secondo te il problema per cui non riesci..." Sono le condizioni che favoriscono aspetti di coesione nell'individuo, che possono far crescere, anche nei bambini più in difficoltà, atteggiamenti più costruttivi che possono generare e diffondere amore e speranza all'interno di sé.

E' da questo punto di vista che la funzione dell'insegnante si caratterizza come funzione eminentemente educativa. Nel modo in cui l'insegnante svolge il suo lavoro e "va avanti col programma", l'allievo può sperimentare la comprensione del docente, ma anche riconoscere la testimonianza di un particolare modo "adulto" di trattare e pensare anche gli aspetti più confusi e difficili di un'esperienza. Non l'importanza del programma di per sé, che deve andare avanti a tutti i costi, ma di un programma che sa plasmarsi sul bambino e camminare con lui.

 

Atteggiamento di ricerca

Ed è in questo atteggiamento di tolleranza e di rispetto per l'altro, per i suoi vissuti e sentimenti, che il lavoro dell'insegnante assume il suo vero valore.

Innanzitutto perché nel porsi in rapporto con l'allievo, l'insegnante non considera solo "l'intelligenza", ma lo rispetta e cerca di conoscerlo nella sua totalità. In secondo luogo questo atteggiamento mentale di rispetto e attenzione, può esserci solo se, a sua volta, l'insegnante è in grado di prendere coscienza delle proprie emozioni, anche quelle più difficili di dubbio, rabbia, insicurezza che scaturiscono dalla relazione con l'allievo. È un atteggiamento etico che non si fonda sulla presunzione di sapere già tutto, ma accetta di ricercare nell'esperienza di incontro e di dialogo con l'altro la verità sull'altro e su se stessi.

 

Educazione alla diversità e alla solidarietà

Se, infatti, gli operatori della scuola sono educatori attenti, sapranno evidenziare qualsiasi diversità come un valore da difendere e da affermare. Se, invece, i bambini non sono educati a capire e ad accettare le diversità, nei momenti di conflitto la utilizzeranno per stigmatizzare un compagno, per emarginarlo e farlo oggetto dei loro scherzi. Il bambino preso in giro potrà allora provare sensi di inferiorità, manifestare momenti di aggressività o addirittura autoescludersi dal gruppo.

Quello che quindi appare chiaro da queste esperienze è che non si possono lasciare soli i bambini ad affrontare momenti difficili, domande e pregiudizi che provengono o dagli stessi compagni o dagli adulti. Essi hanno bisogno di sentire la solidarietà dell'adulto, devono sentirlo al loro fianco partecipe dei suoi problemi che li fa suoi disponibile ad affrontarli con lui quando però si sente pronto.

 

Un'educazione quindi alla solidarietà

Nella parola solidarietà bisogna partire per comprenderla bene dalla sua etimologia . La parola ha la stessa derivazione di solido che è detto di "un corpo che mantiene forma e volume costanti nel tempo per l'elevata forza di coesione delle particelle che lo compongono". Solidarietà non è quindi un piccolo gesto slegato dal mio modo di essere, ma qualcosa che coinvolge tutto me stesso e chi mi circonda.

In una situazione di solidarietà, c'è coesione, unità nell’individualità.

 

 

(*) Relazione tenuta al corso di formazione “Star bene a scuola insieme si può”, Cuneo, 12 novembre 1999.

 

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