Prospettive assistenziali, n. 131, luglio-settembre 2000

 

Interrogativi

 

Condomini ghetto per gli anziani?

 

Secondo quanto pubblicato su “Conquiste del lavoro” del 14 giugno 2000, entro la fine del prossimo anno dovrebbero essere pronti in Emilia Romagna i condomini per la terza età: «Ogni appartamento sarà dotato di un “portiere infermiere” che, attraverso le immagini di una telecamera a circuito chiuso, si terrà informato sullo stato di salute degli anziani in difficoltà». Ci saranno anche altri servizi, come la pulizia dell’appartamento, la fornitura di pasti e della spesa, barbiere e parrucchiera a domicilio, lavanderia.

Su “Conquiste del lavoro” è precisato che «ogni appartamento sarà, inoltre, dotato di impianti per la rilevazione di gas e fumi, l’apertura e la chiusura automatica di porte e finestre, di luci di sicurezza in bagno ed in camera, di videocitofono anche vicino al letto e di un citofono interno collegato con la portineria».

A questi alloggi «potranno accedere i cittadini residenti in Emilia-Romagna di età non inferiore a 60 anni con un reddito familiare non superiore ai 50 milioni».

È evidente l’interrogativo: per quali motivi la Regione Emilia-Romagna vuole creare questi ghetti per gli anziani? Non sarebbe di gran lunga preferibile promuovere l’inserimento degli anziani in struttura destinate anche a giovani e ad adulti? Perché gli ultrasessantenni sono considerati dalla Regione Emilia-Romagna una categoria? Con la creazione dei condomini-ghetto non si accrescerà la contrapposizione,  già attualmente preoccupante, fra anziani e giovani?

 

 

Servizi sociali per le persone in difficoltà ricche e povere?

 

Sul n. 2/2000 di “Politiche e servizi alle persone”, rivista della Fondazione Zancan, Paolo De Stefani e Stefano Piazza, dopo aver riferito che, ai sensi dell’art. 128 comma 2, del decreto legislativo 112 del 1998, per servizi sociali debbano intendersi «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e a superare situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia», affermano che «la norma è chiara nel suo significato: la collettività deve farsi carico delle situazioni di difficoltà dei suoi componenti».

Com’è possibile concordare con la posizione espressa da De Stefani e da Piazza? È giusto che la società debba intervenire quando le situazioni di difficoltà dei cittadini possono essere superate dagli interessati con i propri mezzi? Perché lo Stato, le Regioni, i Comuni devono aiutare i soggetti in difficoltà che hanno redditi e beni sufficienti per risolvere i loro problemi? È giusto, come fa un’IPAB torinese, fornire alloggio e vitto a studentesse che non hanno una casa a Torino, ma i cui genitori posseggono beni e redditi anche elevati ed hanno proprietà (in genere ville lussuose) nelle altre province piemontesi? Perché De Stefani e Piazza ritengono che non debba più essere applicato il 1° comma dell’art. 38 della Costituzione in base al quale l’assistenza sociale non deve essere fornita a tutti, ma esclusivamente alle persone in difficoltà perché prive dei «mezzi necessari per vivere»?

 

 

Verranno aumentate le pensioni più basse: anche quelle dei benestanti?

 

Il Ministro del lavoro Cesare Salvi ha comunicato nel luglio scorso ai Sindacati CGIL, CISL e UIL che il Governo, con la prossima legge finanziaria, aumenterà le pensioni più basse.

Il loro attuale importo mensile (per 13 mensilità) è il seguente:

– pensione di inabilità degli invalidi civili     L. 401.380

– pensione per i ciechi civili assoluti          L. 434.350

– pensione sociale                                  L. 530.350

– assegno sociale                                   L. 643.600

– pensione minima INPS                          L. 720.900

È ovvio che tali importi sono assolutamente insufficienti per vivere. Tuttavia, affinché gli aumenti promessi siano conformi ai più elementari principi di giustizia sociale, occorrerebbe che si tenesse conto che le erogazioni suddette sono fornite indipendentemente dai patrimoni mobiliari e immobiliari posseduti, ma solamente in base ai redditi i cui limiti sono a volte molto alti.

Ad esempio, a chi, in base ai versamenti previdenziali effettuati, ha acquisito il diritto alla pensione di 300 mila lire al mese, viene regalata la somma di L. 420.900 mensili (per 13 mesi) anche se ha già altri redditi per 10 milioni annui e vive nell’alloggio (magari del valore di 200-300 milioni) di proprietà.

Per elementari questioni di giustizia non sarebbe necessario escludere dagli aumenti coloro che hanno redditi superiori all’importo della pensione e/o sono possessori di patrimoni mobiliari o immobiliari?

Non sarebbe, altresì, eticamente corretto che le somme risparmiate venissero utilizzate per aumentare i livelli delle pensioni a favore di coloro che non posseggono altri redditi o beni?

I parenti sono tenuti a contribuire al pagamento della retta di ricovero di un congiunto in base ad una legge non più in vigore?

 

A Forum, mensile dell’Associazione nazionale degli Assessorati comunali e provinciali alle politiche sociali, si è rivolto il Comune di S. Pietro di Feletto (Treviso) per sapere se l’Amministrazione comunale poteva imporre il pagamento di una quota della retta ai parenti di una signora ricoverata in una casa di riposo.

Sorprendente è la risposta apparsa sul n. 2-3/2000 di Forum. Infatti viene affermato che «l’eventuale azione di rivalsa per spese di spedalità può essere proposta dalla pubblica amministrazione ai sensi della legge 3 dicembre 1931 n. 1580».

All’autorevole estensore del parere pubblicato su Forum, poniamo tre domande:

1) come fa ad essere ancora in vigore la legge suddetta dopo l’approvazione della riforma sanitaria del 1978?

2) per quali motivi le ASL, dal 1978 ad oggi, non hanno mai chiesto l’applicazione della legge 1580/1931 nei confronti dei parenti tenuti agli alimenti delle centinaia di migliaia di utenti della sanità per gli interventi effettuati nel campo della chirurgia e della medicina?

3) non è forse vero che la legge 1580/1931, quand’era in vigore, non riguardava l’assistenza (case di riposo, ecc.), ma poteva essere applicata esclusivamente per la rivalsa delle spese di degenza presso ospedali o manicomi?

 

 

Volontariato elemoSINiero

 

Sul n. 12, giugno 2000 del Bollettino di informazione dell’Associazione Goffredo De Banfield di Trieste, è apparso l’appello “Alzheimer: un progetto di assistenza che ha bisogno della generosità di tutti”, in cui viene segnalato che la suddetta associazione ha «preparato un progetto di assistenza per migliorare la qualità della vita di questi malati e delle loro famiglie. Il progetto prevede di prendere in carico 10 malati e relative famiglie in assistenza domiciliare, 75 familiari per consulenza individuale e 20 familiari nel gruppo di sostegno e di svolgere una ricerca sui costi dell’assistenza alla persona demente».

L’appello termina con la precisazione che per realizzare l’intero progetto «sono necessari 180 milioni l’anno».

Ma è possibile che l’Associazione Goffredo De Banfield ricorra alla carità privata per interventi che la legge impone siano effettuati dal Servizio sanitario nazionale?

Non si rende conto che così facendo favorisce la negazione dei diritti dei malati?

 

www.fondazionepromozionesociale.it