Prospettive
assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000
Condannati i gestori di una pensione abusiva:
disumane le condizioni di vita degli anziani
ricoverati
Si riporta integralmente la sentenza di condanna di due gestori delle
sempre più numerose pensioni abusive che ricoverano anziani malati cronici non
autosufficienti.
Mentre prendiamo atto con soddisfazione della decisione della
magistratura torinese di colpire gli speculatori, rileviamo che, invece di
deplorare (almeno!) il comportamento dei servizi sanitari che dimettono
illegalmente e spesso anche in modo crudele i vecchi malati, lasciandoli in
balia di loro stessi o di congiunti incompetenti (ma questo atto non
costituisce il reato di abbandono di incapace?), critica i parenti dei
ricoverati nella pensione abusiva «completamente carente delle dotazioni
necessarie», dimenticando che spesso i familiari sono costretti a ricorrere al
ricovero presso strutture assolutamente inidonee non avendo la possibilità di
accoglierli a casa loro, né disponendo del denaro necessario per pagare le
rette di 100-250 mila lire al giorno richieste dagli enti in possesso delle
prescritte autorizzazioni.
Il tribunale civile e
penale di Torino, terza sezione penale, composto dai magistrati dott. Walter
Maccario, Presidente; dott. Paolo Gallo, Giudice; dott. Rossella La Gatta,
Giudice, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro D.B.,
nato il ... 1955 a T. (FG) e B.A., nata il ... 1962 a T., entrambi residenti in
C., via ... 43, assistiti di fiducia dagli Avv. G.P. e V.Z. del Foro di Torino,
liberi presenti, imputati:
A) del reato di cui agli
artt. 110, 81 cpv., 591 commi 1 e 3 codice penale perché, in concorso tra loro,
gestendo abusivamente la pensione “Po” di Torino, via Po 4, di fatto adibita a
presidio socio-assistenziale (abusivamente perché senza autorizzazione
amministrativa all’esercizio di albergo, almeno dopo il 17.6.1996, ed inoltre
senza autorizzazione dell’autorità sanitaria), con più azioni esecutive di un
medesimo disegno criminoso abbandonavano, tenendoli in condizioni inadeguate
sotto il profilo delle omissioni strutturali dei locali, dell’insufficienza
quantitativa e qualitativa del personale e delle carenze nel trattamento
farmaceutico, riabilitativo ed alimentare, gli anziani ivi ricoverati e
succedutisi nel tempo, in condizioni di non autosufficienza psichica e/o
fisica, dei quali dovevano avere cura.
Con l’aggravante che dal
fatto derivavano lesioni personali ad alcuni dei ricoverati: B.I., B.S., T.L. e
L.L. affette da piaghe da decubito; L.A., F.G. e V.C. affette da grave
disidratazione; B.P., affetta da lieve disidratazione.
In Torino dal novembre 1995
al 18 marzo 1997.
B) del reato di cui agli
artt. 110 codice penale e 2 legge 283/62 perché, in concorso tra loro e nella
qualità di cui sopra, attivavano un laboratorio di preparazione e di cottura
per gli alimenti senza la prescritta autorizzazione sanitaria.
In Torino dal novembre 1995
al 18 marzo 1997.
la sola B.
C) del reato di cui agli
artt. 81 cpv., 348 codice penale, perché, nella qualità di cui sopra, con più
azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, esercitava abusivamente la
professione di infermiera professionale, per la quale è richiesta una speciale
abilitazione dello Stato, somministrando, ad esempio, farmaci per fleboclisi.
In Torino dal novembre 1995
al 18 marzo 1997.
Con la recidiva reiterata
nei confronti del D., specifica e infraquinquennale nei confronti della B.
(recidiva così contestata alla B. all’udienza dell’8.7.1998).
Conclusioni del Pubblico Ministero: dichiararsi gli imputati responsabili dei
reati ascritti, unificati dal vincolo della continuazione, ed esclusa
l’aggravante contestata al capo A) limitatamente alle lesioni riportate da
L.L., e concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva,
condannarsi D. alla pena di due anni di reclusione e B. alla pena di anni due e
mesi sei di reclusione. Trasmettersi gli atti al P.M. per il reato di falsa
testimonianza commesso da R.R.E.
Conclusioni della difesa: assolversi il D. da tutti i reati ascritti per non
aver commesso il fatto; assolversi la B. da tutti i reati ascritti, anche ai
sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p., perché il fatto non sussiste; in subordine,
attenuanti generiche prevalenti e minimo della pena.
FATTO E DIRITTO
Con decreto del 28.5.1998
il GIP del Tribunale di Torino rinviava a giudizio gli imputati sopra
generalizzati affinché rispondessero dei reati loro in epigrafe ascritti.
Il dibattimento si
sviluppava nel corso delle udienze dell’8 luglio e 5 novembre 1998 ed in quella
dell’11 febbraio 1999, nella quale, conclusa l’istruttoria, le parti prendevano
le conclusioni sopra trascritte ed il Tribunale pubblicava la presente
decisione mediante lettura del dispositivo in udienza.
I reati contestati al D. ed
alla B. sono maturati, secondo l’impostazione accusatoria, nell’ambito della
irregolare gestione della “Pensione Po”, un tempo fornita di licenza quale
modesta struttura alberghiera, adibita dagli imputati a casa di ricovero per
anziani in spregio a tutte le norme disciplinanti la materia.
È dunque opportuno, in
primo luogo, esporre l’evoluzione nel tempo della posizione amministrativa
della struttura, così come ricostruita a dibattimento (sulla base della
documentazione esistente) dai Testi T. ed A. In seguito, si esamineranno le
caratteristiche del “servizio” reso dagli imputati, all’interno della
struttura, agli anziani ospiti, e le sue conseguenze pregiudizievoli per la
salute.
Infine si tratterà delle
imputazioni sub B) e C).
* * *
Sin dall’anno 1989 nei
locali di Torino, via Po 4, esisteva una struttura alberghiera (“Pensione
Nettuno” di tale C.G.) che di fatto operava come presidio socio-assistenziale
abusivo (determinando tra l’altro già in allora l’intervento della giustizia
penale).
Nel 1991 gli odierni
imputati costituivano una società (la DF srl di cui il D. era amministratore
unico) mediante la quale subentravano nella gestione della pensione (la loro
presenza veniva rilevata nel corso di un’ispezione del 6.3.1991). Il 15 luglio
1991 la DF presentava al Comune di Torino una domanda di autorizzazione
all’esercizio di attività alberghiera nei locali di via Po 4, domanda che
veniva respinta, sempre nell’anno 1991, con provvedimento della sesta
Ripartizione, che contemporaneamente intimava la sospensione dell’attività abusivamente
intrapresa.
Il D. non ottemperava a
tale ordinanza, che veniva rinnovata con provvedimento del 10.12.1993.
Nonostante tutto ciò,
inspiegabilmente il 10 marzo 1994 il Comune di Torino autorizzava il D.
all’esercizio dell’attività alberghiera (sempre in via Po 4). Si moltiplicavano
le segnalazioni della Polizia municipale (una alla sesta Ripartizione in data
24.11.1995, una al servizio socio-assistenziale in data 29.11.1995), nelle
quali si evidenziava l’uso improprio della licenza per attività alberghiera
(l’attività esercitata di fatto era sempre quella di presidio
socio-assistenziale per anziani).
Il 4.12.1995 sempre la
sesta Ripartizione diffidava il D. al rispetto delle disposizioni contenute
nell’autorizzazione all’esercizio dell’attività alberghiera. Verificata
l’inottemperanza del D. la licenza alberghiera veniva revocata il 17 giugno
1996.
A partire da tale data
l’attività della Pensione Po (che non era stata mai lecita come attività
socio-assistenziale) doveva considerarsi totalmente abusiva, anche come
attività alberghiera (per le notizie sin qui riassunte cfr. dep. T., pagg.
108-135 della trascrizione del 5.11.1998, e dep. A., pagg. 32-37 della
trascrizione dell’udienza dell’8.7.1998). Essa cessò definitivamente soltanto
il 18 marzo 1997, con l’esecuzione del decreto di sequestro preventivo
dell’intera struttura emesso dal GIP del Tribunale di Torino.
Le caratteristiche e gli
effetti dell’attività svolta dagli imputati fino alla data da ultimo indicata
sono stati descritti in udienza dai pubblici ufficiali che effettuarono i
sopralluoghi nella Pensione Po dal novembre 1995 al marzo 1997, e da altri
esercenti professioni sanitarie che a vario titolo ebbero rapporto con i
gestori e gli ospiti della pensione.
L’ufficiale di Polizia
municipale C.D. (per la cui deposizione dibattimentale v. trascrizione udienza
8.7.1998, pag. 11 e segg.), a seguito di una segnalazione verbale del dr. O.
(consulente dell’amministrazione comunale per la materia assistenziale) dispose
un’ispezione nella pensione nel novembre 1995, ispezione alla quale partecipò
lo stesso dr. O., e i cui risultati furono analiticamente esposti nel verbale
redatto nell’occasione.
Il verbale d’ispezione
9.11.1995 (atto irripetibile di P.G. acquisito all’udienza dell’8.7.1998)
evidenzia come alle ore 10,30 nella pensione Po vi fossero due dipendenti, P.F.
e L.P. La pensione si componeva di quindici locali: reception, cucina, salone,
sala da pranzo, lavanderia, stireria, otto camere con complessivi 19 posti
letto, due servizi igienici comuni.
Venivano rinvenuti ed
inventariati numerosi farmaci, custoditi in parte in due armadi della sala da
pranzo, in parte nel frigorifero in cucina, ed in parte sui comodini degli
ospiti (cfr. inventario allegato al verbale, che si compone di ben tre fogli).
Gli ospiti erano
quattordici persone, la più anziana nata nel 1902, la più giovane nel 1923.
Tutte necessitavano di assistenza medica e farmaceutica, ma nessuna delle donne
che lavoravano nella pensione (né la B., né le dipendenti) possedevano
l’abilitazione di infermiere professionale. Nel verbale si dà atto della
consegna, da parte della B., di un numero telefonico, corrispondente – a dire
dell’imputata – al recapito di un’infermiera professionale della quale,
peraltro, non veniva fornito il nominativo (circostanza, questa, precisata
anche dal teste D.F. all’udienza dell’8.7.1998, pag. 21 della trascrizione).
Il successivo 29.11.1995
aveva luogo un’ispezione dei Carabinieri dei NAS, con esito pressoché analogo
alla precedente (cfr. il relativo verbale, pure agli atti). Gli ospiti erano
ancora quattordici, tutti bisognosi di assistenza e cura, ed operavano nella
pensione la B. e la già menzionata P.F.
Il 20.12.1995 la dr.ssa C.
dell’USL di Torino e l’assistente sociale C. del Comune di Torino effettuavano
ulteriore sopralluogo, verificando la presenza di quindici ospiti nella
Pensione. Nella relazione si dà atto delle osservazioni, formulate dalle
ispettrici, circa l’illegalità dell’esercizio di attività socio-assistenziali
da parte dell’albergo (cui la B. reagisce “con una certa qual arroganza”).
Le informazioni più precise
e attendibili sono quelle fornite dal dr. V.O., consulente tecnico del PM, che
– come si è già anticipato – prese parte al sopralluogo del 9
novembre 1995 e tornò alla Pensione Po anche in due successive occasioni (cfr.
pagg. 32 e segg. della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998).
Egli cominciò ad occuparsi
della pensione, nella sua veste di consulente dell’Assessorato all’assistenza
sociale del Comune di Torino, a seguito di una segnalazione degli uffici
circoscrizionali del quartiere “Crocetta” relativa a C.G., anziana non
autosufficiente che risultava dimorare presso la pensione gestita dagli
imputati.
Il 9 novembre 1995 si recò
pertanto alla Pensione Po unitamente al personale di Polizia municipale diretto
dal sottufficiale D. Nell’occasione rilevò che una delle ospiti, sig.ra B.,
affetta da demenza, presentava piaghe da decubito di grado terzo (e dunque di
notevole gravità) in sede glutea destra, più altri arrossamenti. Era altresì visibile
una escoriazione e – soprattutto – la donna era affetta da sindrome
da immobilizzazione, con arti inferiori parzialmente rattrappiti.
Fra l’altro non gli fu
possibile neppure effettuare una visita medica vera e propria, perché mancava
un ambulatorio, una sala medica e la strumentazione necessaria. La donna stava
seduta su una carrozzina decisamente inidonea rispetto alle sue condizioni di
salute, al punto da indurla a stare “tutta sghemba” (trascrizione cit., pag.
35). La sindrome da immobilizzazione, invece, avrebbe richiesto lo svolgimento
di un’attività fisioterapica, di esercizi, manipolazioni tali da scongiurare il
progressivo rattrappimento degli arti inferiori.
Quanto alla piaga da
decubito, sarebbe stato possibile guarirla in circa 25 giorni, con gli
accorgimenti prescritti dalla scienza medica: pulizia, medicazioni, controllo
del livello di albumina nel sangue, ed infine il frequente mutamento della
posizione della paziente (pag. 39).
Il 29 novembre dello stesso
anno il dr. O. tornò alla pensione, alla presenza dei Carabinieri del NAS (cfr.
supra, pag. 5). Erano presenti quindici persone, di età oscillante tra i 73 e i
93 anni, con una media di oltre 84 anni, tutte non autosufficienti (tredici
delle quali in condizioni di non autosufficienza particolarmente grave, al
punto che – secondo la vigente normativa regionale – avrebbero dovuto
essere collocate in Residenze sanitarie assistenziali).
La piaga da decubito della
sig.ra B. era manifesta e palese (pag. 46 della trascrizione; tale piaga verrà
riscontrata anche dalla dr.ssa C. in sede di autopsia sul cadavere della B. il
2 marzo 1996: cfr. esame dr.ssa C., pag. 5 e segg. della trascrizione dell’ud.
del 5.11.1998).
Emersero poi altre
mancanze, che rendevano l’albergo palesemente inadeguato a fungere da presidio
socio-assistenziale per anziani: mancava la documentazione medica minima per la
gestione dei pazienti; cartelle personali con tutti i dati rilevanti di ciascun
paziente; tabelle dietetiche approvate dal Servizio igiene pubblica; personale
specializzato per l’assistenza, personale infermieristico, personale
specializzato in fisioterapia e riabilitazione; mancava un lettino per le
medicazioni (per es. per i pazienti affetti da piaghe da decubito); mancava
strumentazione sterile; mancavano bagni assistiti, dotati di maniglioni o
mancorrenti che consentissero agli utenti di sostenersi; mancavano termostati
per il controllo della temperatura dell’acqua in bagno; mancavano dispositivi
di sicurezza antincendio; mancava un piccolo locale ove consentire ai pazienti
di compiere quel minimo di movimenti necessario ad evitare il rattrappirsi
degli arti; mancavano letti con materasso “antidecubito” (cfr. esame dr. M.,
pag. 22 della trascizione dell’ud. 5.11.1998).
In definitiva, richiesto di
precisare cosa – tra gli elementi strutturali richiesti dalla moderna
geriatria e dalla normativa regionale disciplinante la materia
– risultasse mancare, il dr. O. ha laconicamente risposto “Non c’era
nulla” (pag. 62). Esisteva solo una stanza ampia, sufficientemente pulita, in
cui gli anziani soggiornavano permanentemente (fra l’altro su poltrone basse e
molto morbide, nelle quali sprofondavano senza essere in grado di tirarsi su).
In occasione del sequestro
della Pensione Po, il 18 marzo 1997, il dr. O. era ancora presente. Poté perciò
fare rilevazioni e confronti rispetto alla situazione registrata nel novembre
1995. In sintesi (cfr. pag. 85 e segg. della trascrizione dell’udienza del
5.11.1998) non era stato fatto nulla per adeguare la struttura, ed anzi emerse
qualche peggioramento: altre due ospiti (le pazienti B. e T.) avevano
evidenziato profonde piaghe da decubito; le signore F.G. e V.C. presentavano
importanti disidratazioni (da una forma più lieve di disidratazione, comunque
rilevabile, era affetta anche la signora B.P.). In tutti questi casi (il dr.
O.) ha eccettuato quello della sig.ra L., indicata in imputazione ma con ogni
probabilità giunta alla Pensione Po con preesistenti piaghe da decubito) si
trattava di lesioni direttamente riconducibili all’“assistenza” ricevuta presso
la pensione gestita dagli imputati (pag. 93). Le piaghe da decubito furono
curate e guarite nelle varie strutture in cui gli anziani, dopo il sequestro
della pensione, furono trasferiti; quanto alle forme di disidratazione furono
immediatamente affrontate ed eliminate in tempi brevissimi (come è nella natura
stessa del tipo di lesione).
Sempre il 18 marzo 1997 il
dr. O. si imbatté in una nuova ricoverata, L.A. (pag. 97 della trascrizione):
l’anziana donna versava in stato di incoscienza, disidratata, con le unghie
lunghe. Il sanitario ne dispose immediatamente il ricovero al pronto soccorso
dell’ospedale Mauriziano. I medici di tale nosocomio, più tardi, si rifiutarono
di dimettere la donna (che il dr. O. aveva indirizzato colà più che altro per
accertamenti), a causa della gravità delle sue condizioni. Era in atto anche
una broncopolmonite ed in seguito la donna venne a morte.
Ciò che più fece indignare
il dr. O. è il fatto che la signora L. era seguita in qualche modo da un
medico, il quale in data 7.3.1997 aveva prescritto una terapia idratante con
ipodermoclisi: ebbene, il 18 marzo alla visita, la signora L. non presentava
tracce di ipodermoclisi. La B. dichiarò che aveva praticato le flebo, ma sulla
pelle dell’anziana, palesemente secca, non si notavano i piccoli, immancabili
fori (dal rudimentale diario clinico tenuto dalla pensione, del quale si dirà
più ampiamente in seguito, risulta in effetti l’effettuazione di tre sole
fleboclisi, una delle quali parziale, in data 6, 13 e 14 marzo; poi, più
nulla). Tra l’altro, simile terapia avrebbe richiesto assolutamente
l’intervento di personale infermieristico specializzato. È significativo
riportare il commento espresso dal dr. O. su questa vicenda (pag. 101 della
trascrizione): «È vero che tutti quanti dobbiamo morire... ma è anche vero che
far morire di sete una persona, insomma, secondo me è inaccettabile» (ed
infatti anche il medico che seguì la L. in quel periodo risulta essere stato
sottoposto ad indagini in relazione a tale episodio).
In chiusura della sua
deposizione, sollecitato dal Presidente, il dr. O. ha poi spiegato di essersi
sempre curato, in occasione delle sue visite alla Pensione Po, di spiegare alla
responsabile presente (l’imputata B.) quali interventi attuare per migliorare il
servizio, ma di essersi sempre “urtato contro un muro”: la donna non era
minimamente disposta ad accettare indicazioni (pag. 104-5 della trascrizione).
Oltre all’ampia deposizione
del dr. O., che ebbe a recarsi più volte nella Pensione Po al preciso scopo di
effettuarne una valutazione di idoneità a fini assistenziali, il dibattimento
ha permesso di acquisire anche testimonianze limitate ad episodi più specifici,
ma comunque significative, da parte di altro personale medico ed
infermieristico:
– il dr. F.B. (cfr.
trascrizione udienza 5.11.1990, pag. 135 e segg., medico di base dell’USL di
Torino, era stato inaspettatamente nominato come medico di fiducia da una
decina di ospiti della Pensione Po. Ebbe consapevolezza della cosa quando gli
pervennero richieste di visite a domicilio dei predetti ospiti, richieste
inoltrate dalla “titolare” della pensione (= l’imputata B.). Recatosi nella
pensione, si rese conto che le persone ivi dimoranti erano, in molti casi, non
autosufficienti; che i parenti si disinteressavano di loro delegandone le cure
alla B., che però non aveva alcun titolo per occuparsene; che la pensione “se
era una casa di cura era inadeguata, insufficiente” (pag. 148 della
trascrizione cit.). A pag. 152 questo teste riferisce un episodio che dà concretamente
la misura dell’imbarazzo che un medico provava visitando la pensione: «Mi
capitava a volte di passare... e di vedere magari una persona per cui mi
avevano chiamato a visitare, e a fianco magari la signora mi diceva: “C’è
questa signora qui che non mangia da due giorni”, la visitavo e scoprivo che
aveva un focolaio polmonare, ad esempio. E quindi, se... se non andavo in quel
momento lì, capisce? Cioè... la cosa era da trattarsi come, non so, una casa di
cura, voglio dire, cioè ci andava più assistenza, ecco».
Per questi motivi (ed altri
ancora di natura più strettamente burocratica spiegati alle pag. 142-144 della
trascrizione) il dr. B., verso la prima decade del mese di novembre 1995 (cfr.
pag. 137 della trascrizione) si determinò ad inoltrare al Capo servizio
assistenza sanitaria di base ed all’Assessorato all’assistenza sociale del
Comune di Torino una lettera (agli atti, senza data), in cui tra l’altro
scrisse: «Visitando codesta pensione ho riscontrato che i pensionanti erano da
considerarsi piuttosto dei ricoverati e come tali avrebbero dovuto essere
trattati. Non potendo avere un rapporto diretto con gli utenti, in quanto nella
maggior parte dei casi non autosufficienti, e non potendo delegare il rapporto
di fiducia con chi gestisce detta pensione, mi vedo costretto a ricusare detti
pazienti...».
– la dr.ssa A.B. (cfr. pag.
157 e segg. della trascrizione dell’udienza 5.11.1998) è anch’essa medico di
base dell’USL di Torino; anch’essa si ritrovò, di punto in bianco, nominata
medico di fiducia da due ospiti della Pensione Po che neppure conosceva (le
sig.re G. e M., fra l’altro bisognose di impegnativa assistenza domiciliare,
come tutti gli ospiti della Pensione Po), ciò che la irritò alquanto («in una
situazione del genere bisogna prima chiedere»), anch’essa finì per scrivere una
missiva, datata 25 novembre 1996, a destinatari diversi dell’USSL 1 di Torino
(la lettera è agli atti), del seguente tenore: «Sono stata scelta da due
cittadini ospitati presso la Pensione Po in Torino via Po 4... Durante le
visite domiciliari ho avuto modo di constatare che la struttura che li accoglie
non appare idonea per la loro patologia». A dibattimento la dr.ssa B. ha
spiegato: «Mi sono resa conto che c’erano delle pazienti non autosufficienti in
una struttura che forse non aveva personale adeguato per questo tipo di
pazienti» (pag. 162).
– le infermiere
professionali M.A. e P.S. (pagg. 171-185 della trascrizioine dell’udienza
5.11.1998) operano nell’ambito del Servizio infermieristico domiciliare
dell’USL 1 di Torino. Dopo due visite ad anziane ospiti della Pensione Po (le
sig.re B. e G.) scrissero due missive alle proprie responsabili (entrambe agli
atti, datate rispettivamente 26.1.1996 e 1°.12.1996) in cui segnalavano quanto
rilevato:
a) la sig.ra B. era
incontinente all’urina e alle feci, e portava il pannolone; tolto il quale, le
infermiere si resero conto che all’interno della coscia destra, direttamente
esposta ai liquidi biologici che il pannolone doveva trattenere, si trovava una
estesa lesione da decubito (cfr. anche dep. M., pagg. 172-173, e dep. P.,
pagg. 181-182);
b) la sig.ra G.B. era
affetta da piaghe da decubito, da morbo di Alzheimer, non vedente e decisamente
non autosufficiente. Nella citata missiva le infermiere concludevano: «La
proprietaria della pensione ... non è in possesso né di materassino né del
cuscino antidecubito. Si rende noto che in tale struttura non opera personale
sanitario. Si segnala quanto sopra per gli opportuni provvedimenti del caso».
– unica testimonianza non
del tutto sfavorevole agli imputati è quella della dr.ssa A.R., ginecologa, la
quale collocò la madre, Z.S., nella Pensione Po nel febbraio 1990, e ve la
lasciò fino ad ottobre 1995, data in cui, avendo notato modeste lesioni ad un
polso dell’anziana genitrice, decise di trasferirla a Roma (cfr. pagg. 163 e
segg. della trascrizione citata). Questa teste, pur rilevando la scarsità del
personale operante nella pensione e l’assenza di personale infermieristico
specializzato, ha avuto parole sostanzialmente di elogio nei confronti
dell’imputata B. e della “struttura” da
lei gestita: «Io avevo il permesso anche di poter vedere mia madre anche verso
le 21, le 22, perché la signora molto gentilmente mi permetteva, sapendo
appunto il lavoro che facevo, perché io ero molto impegnata, andavo pure la
sera... Vedendo anche le altre successive case di riposo, quella lì era
abbastanza... relativamente... abbastanza buona».
Altri significativi
elementi di giudizio si traggono da una agenda, utilizzata come diario clinico
dal personale della pensione, sottoposta a sequestro penale il 18.3.1997. Essa
contiene, relativamente al periodo 4.11.1996/18.3.1997, brevi relazioni
giornaliere in cui si evidenziano le condizioni generali degli ospiti (dei
quali risulta palese la non autosufficienza, stando ai loro comportamenti
descritti), si annota se costoro abbiano mangiato, se siano andati di corpo e
quanto altro sia ritenuto opportuno comunicare al personale del turno
successivo.
Si riportano alcune
significative annotazioni:
– notte del 4.11.1996: «A
N. le è stata fatta la medicazione ... mentre le strofinavo la mano che tiene
chiusa le ho fatto un po’ male, le ho messo un po’ di cicatrene in polvere»;
– notte del 22.11.1996:
«Quando ho alzato N. si è tolta un po’ di pelle; glielò medicato»;
– 2.12.1996: «È stata
medicata da me N., perché era in condizioni orrende. Se no abbiamo un alto
decubito!!» (scritturazione dell’imputata B.);
– 14.12.1996, annotazione
di tali E. e P.: «Per le mie colleghe del mattino, quando le nonne battono in
qualche posto siete pregate di dirlo, mi riferisco alla gamba di G. ... Come si
fa domani per la medicazione di B.? Mi dispiace ma io non me la sento di
fargliela...»;
– 28.12.1996,
segnalazione della B. per tale F.: «A E. tutte e due le mani sono scorticate
solo che una l’ha medicata, l’altra no!! Poi N. nel braccio destro era anche
lei scorticata e le ha messo una garza, poteva disinfettarla visto che aveva il
sangue ancora lì ... cerchi di fare attenzione ... non dimentichi più la
bacinella con acqua sporca di merda da P.»;
– notte del 30.1.1997 «Ho
tolto la roba dal freezer e l’ho pulito ... c’era di tutto, persino le mollette
della roba»;
– notte del 13.2.1997: «L.
sta cominciando a spellare nella natica destra».
Si tratta di annotazioni
redatte “in tempo reale” ed in epoca non sospetta; esse forniscono conferme
significative dell’inadeguatezza professionale del personale impiegato, che
trascurava elementari esigenze di igiene e procurava per imperizia lesioni agli
anziani, ovvero si rifiutava di eseguire medicazioni per le quali non si
sentiva all’altezza; documentano altresì l’insorgere delle piaghe da decubito
(cfr. annotazione del 13.2.97).
* * *
Così riassunte le
risultanze dibattimentali relativamente al delitto di cui all’art. 591 c.p. (si
dedicheranno in seguito più brevi cenni alle restanti imputazioni), occorre ora
verificare se possa dirsi integrato il delitto di abbandono di persone
incapaci.
Occorre subito premettere
che, secondo una ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale della Corte
di Cassazione, il concetto di “abbandono” rilevante ex art. 591 c.p. non è
limitato alla sola “derelictio”, ma
abbraccia ogni condotta contraria agli obblighi di cura e custodia che
incombano su una persona: si veda, tra le pronunce più recenti, Cass. Sez. 5a,
sent. 12.6 / 13.9.1990 n. 12334 - imp. D., secondo cui «costituisce abbandono,
punibile ex art. 591 c.p., qualsiasi azione od omissione che contrasti con
l’obbligo della custodia e da cui derivi un pericolo, anche solo potenziale,
per la vita o per l’incolumità del minore o dell’incapace...». Nei medesimi
termini anche Cass. 5a, sent. n. 337 del 22.1.1981 - imp. S., n. 332 del
18.1.1983, imp. F., e n. 12941 del 25.10.1978, imp. S.
Questa interpretazione è
conforme non solo alla ratio di
tutela dei soggetti più deboli che informa la norma in esame (alla cui stregua
non avrebbe alcun senso restringere l’area delle modalità penalmente rilevanti
attraverso cui si attua la lesione del medesimo interesse) ma anche a criteri
ermeneutici meramente letterali (di un edificio, per esempio, si dice
comunemente che “versa in stato di abbandono” anche quando, benché abitato, sia
privo della necessaria manutenzione).
In applicazione del sopra
esposto criterio interpretativo la Corte suprema (cfr. Cass. Sez. 5a, sent. n.
3905 del 22.11.1989 / 20.3.1990, imp. B.) ha ravvisato il reato in discorso in
un caso in cui gli incapaci erano stati lasciati in balia di personale inidoneo
nell’ambito di case di riposo inadeguate e prive dei requisiti igienici.
Una volta che si assumano a
criteri di giudizio i principi fin qui esposti, elaborati dalla giurisprudenza
di legittimità, non è difficile concludere nel senso della sussistenza del
reato contestato al capo A).
Nel corso degli anni
1995-1997 un numero significativo (da 15 a 19) di persone anziane (età media
superiore agli ottanta anni), affette da patologie comuni all’età senile e
spesso gravi (piaghe da decubito, morbo di Alzheimer, demenza, cecità,
affezioni delle vie respiratorie ecc.), tutte o pressoché tutte non
autosufficienti, che si sarebbe dovuto ricoverare in presidi assistenziali
socio-sanitari, provvisti di dotazioni terapeutiche e riabilitative, sono state
relegate in una pensione ad una stella, che a mala pena adunava in sé la
dotazione minima di un albergo. All’assistenza sanitaria, che si sarebbe dovuto
assicurare con la presenza di un medico della struttura (stabilmente presente,
o almeno di immediata reperibilità) e con una pluralità di infermiere
professionali, si è provveduto (si fa per dire) con la semplice nomina del medico
di base (che peraltro, appena saputo della nomina, ha immediatamente ricusato i
pazienti o quanto meno denunciato l’accaduto alle autorità sanitarie: cfr. la
vicenda del dr. B e quella della dr.ssa B.), e con l’attribuzione di mansioni
infermieristiche ad alcune volonterose donne prive di qualunque istruzione e
preparazione, quantitativamente e qualitativamente inadeguate.
Con siffatte dotazioni
strutturali e di personale, il servizio reso dalla Pensione Po è stato
certamente non rispondente agli obblighi di assistenza e di cura che i
responsabili della Pensione si erano assunti
nei confronti degli anziani ospiti. È perciò macroscopicamente sussistente la
violazione dei predetti obblighi.
Breve discorso occorre
anche per quello che è il secondo requisito previsto dalla giurisprudenza
citata per aversi abbandono, vale a dire l’esposizione
a pericolo dell’incolumità del minore o incapace. Non è necessario, in
questa sede, esaminare se il pericolo debba essere concreto ovvero – come
sostenuto nelle citate pronunce della Corte di Cassazione – se sia sufficiente anche il solo pericolo
c.d. astratto: infatti nella vicenda oggetto del presente processo si è avuto
non solo un evidente pericolo concreto, bensì addirittura, in alcuni casi, un
accertato danno per la salute.
È questo il caso della
sig.ra B., che a causa delle cattive condizioni in cui fu tenuta riportò gravi
piaghe da decuito (tra l’altro esposte a contatto con le feci e le urine della
donna, dal momento che come rilevato dalle infermiere M. e P., nessuna
medicazione teneva separate quelle piaghe dal contenuto del pannolone che la
B., incontinente, portava).
È poi il caso della sig.ra
L.A., trovata affetta da grave disidratazione all’atto del sopralluogo del dr.
O., perché nessuno si era curato di adottare i semplici accorgimenti
(fleboclisi) idonei a superare quella condizione.
Ed è, ancora, il caso di
quell’ospite della Pensione Po di cui ha parlato il dottor B. nel corso del suo
esame dibattimentale, e della quale non sappiamo il nome, a carico della quale
fu fortunosamente scoperto un focolaio di polmonite nel corso della visita ad
altra ospite (cfr. sopra, pag. 9 della presente sentenza).
È il caso, infine, di tutte
le altre persone a carico delle quali il dr. O. riscontrò lesioni (piaghe da
decubito o disidratazione) direttamente connesse al bassissimo livello di
assistenza sanitaria prestato dagli imputati: B.S., T.L., F.G., V.C. e B.P.
Gli eventi lesivi cui si è
ora fatto cenno giustificano – tra l’altro – l’inquadramento del delitto ora in
esame nell’ipotesi normativa di cui al terzo comma dell’art. 591 c.p.
* * *
Occorre ora chiedersi chi
debba essere ritenuto responsabile del delitto in esame.
Prima di considerare
partitamente la posizione dei due imputati, sia consentito dire come forse, in
prima battuta, i responsabili del reato in discorso siano da ricercare, in
linea di principio, anche tra i congiunti degli anziani ospitati nella Pensione
Po, i quali hanno ritenuto di assolvere ai loro doveri di assistenza familiare
collocando i predetti anziani in una struttura di quel genere. La presente
vicenda processuale, infatti, non riguarda la negligente gestione di una
struttura oggettivamente inidonea all’accoglienza di anziani non
autosufficienti: la Pensione Po, già ad uno sguardo superficiale, non poteva
non apparire per quel che esattamente è: una pensione di infimo ordine,
completamente carente delle dotazioni necessarie per le finalità cui gli
imputati l’avevano adibita. Ed è verosimile che questo aspetto non sia sfuggito
ai congiunti degli anziani ospiti della pensione. Tutto ciò va detto per
spiegare perché mai proprio la figlia di una delle ospiti della Pensione Po sia
l’unica testimone che, in questo processo, abbia espresso valutazioni positive
sulla struttura e sull’operato degli imputati (ci si riferisce alla teste R.):
è evidente l’imbarazzo che questa teste avrebbe provato nel dover ammettere di
aver collocato la madre in un ambiente inidoneo a prestare l’assistenza
necessaria.
Passando ad esaminare la
posizione dei due imputati, risulta evidente la responsabilità della B. Costei,
moglie dell’amministratore della società che gestiva la pensione, era – nei
fatti – l’unica persona presente a tempo pieno al suo interno, e ne dirigeva
l’attività sotto ogni aspetto: la lettura del diario giornaliero in sequestro
conferma pienamente questa conclusione; inoltre, nei numerosi sopralluoghi
effettuati, sia gli appartenenti al Corpo di Polizia municipale, sia il
consulente dr. O., sia i Carabinieri del NAS, sia i medici e le infermiere
dell’USL di Torino ebbero a rapportarsi sempre e solo con la B. Il D.,
amministratore e legale rappresentante della società gestrice della pensione,
era per lo più assente e sopraggiunse a seguito di chiamata.
È pertanto innegabile il
contributo determinante dato dalla B. al funzionamento della pensione, e dunque
alla perpetrazione del delitto sub A).
Quanto al marito di lei,
D., è stato sostenuto dalla difesa (facendo leva proprio sulla menzionata
saltuarietà della sua presenza nella pensione), che questi dovrebbe essere
assolto dal reato sub A) per non aver commesso il fatto.
Questa prospettazione,
tuttavia, non può essere accolta. Si è già evidenziato, poco sopra, che nella
presente fattispecie il delitto di cui all’art. 591 c.p. va ricollegato non già
ad un negligente esercizio dell’attività di assistenza da parte del personale
operante all’interno di una struttura di per sé inidonea a finalità
assistenziali, bensì alle macroscopiche
carenze struttuali della pensione: la pessima assistenza prestata agli
ospiti della Pensione Po è conseguenza diretta dell’assenza di locali inidonei
per l’esercizio di attività terapeutiche o riabilitative, della mancanza di
letti con materassi “antidecubito”, della scaristà del personale operante e
dalla sua totale mancanza di qualificazione professionale in campo sanitario,
non già di concreti e specifici comportamenti assenteisti o irresponsabili da
parte dei dipendenti.
Così stando le cose, il
principale responsabile delle condizioni di abbandono in cui venivano tenuti
gli ospiti della Pensione Po è colui che, nella sua veste di amministratore
della pensione, aveva i poteri giuridici ed i mezzi economici per ovviare alle
lacune evidenziate nel corso dei sopra descritti sopralluoghi.
Peraltro, non è il caso di
introdurre graduazioni tra le responsabilità dei due imputati: essi sono marito
e moglie; hanno intrapreso concordemente l’attività oggetto del processo, il
primo investendo i capitali (cfr. esame B., pag. 11 della trascrizione
dell’udienza dell’11.2.1999), la seconda impiegando una certa esperienza
precedentemente acquisita (non è chiaro se lecitamente o no) nel settore
dell’assistenza agli anziani. Il reato contestato sub A) è dunque frutto di una
condotta concorsuale nel più pieno e tipico significato del termine.
* * *
Più brevi considerazioni
richiedono le imputazioni di cui ai capi B) e C).
Al capo B) si contesta agli
imputati di aver attivato (e mantenuto in esercizio) un “laboratorio di
preparazione e di cottura per gli alimenti” in assenza della prescritta
autorizzazione sanitaria.
Il “laboratorio di
preparazione e di cottura” altro non è che la cucina sita all’interno della
Pensione “Po”, in cui venivano preparati i piatti quotidianamente somministrati
agli ospiti dell’albergo.
L’ufficiale di Polizia
municipale D. (cfr. trascrizione udienza 8.7.1998, pagg. 13-14) ha riferito che
«essendo l’albergo autorizzato (peraltro solo fino al 17 giugno 1996, come si è
detto a pag. 4 della presente sentenza, n.d.r.) come struttura
turistico-ricettiva e non struttura socio-assistenziale ... l’intestatario
dell’autorizzazione era privo di titolo nell’aspetto igienico-sanitario per la
cucina».
Da ciò discende la penale
responsabilità di entrambi gli imputati per il reato contravvenzionale in discorso.
* * *
Al capo C) si contesta alla
B. di aver personalmente svolto, nel periodo novembre ’95 - marzo ’97, la
professione di infermiera, per la quale è necessaria l’abilitazione dello
Stato, senza essere in possesso del titolo abilitativo, per esempio praticando
fleboclisi.
Che la B. – al pari di tutte
le sue collaboratrici all’interno della Pensione Po – non possedesse la
necessaria abilitazione è dato pacifico ammesso dalla stessa imputata: cfr.
pag. 20 della trascrizione dell’udienza dell’11.2.1999:
Presidente: «Di questo
personale c’era qualcuno che aveva qualche qualifica?».
B.: «No».
Presidente: «Insomma c’era
del personale che avesse una specializzazione adeguata per svolgere questi
compiti infermieristici direi?».
B.: «No, il problema
infermieristico non lo gestivamo perché veniva l’USL».
Dall’ultima affermazione
della B., testé riportata, si comprende anche quale sia stata la difesa della
donna rispetto all’imputazione in esame: la B. ha negato di aver mai praticato
atti riservati a personale infermieristico, e ha dichiarato di aver sempre chiamato,
a tal fine, le infermiere dell’USL.
In atti, però, vi sono
plurime dichiarazioni testimoniali che smentiscono sul punto l’imputata. In primis quelle di P.F. (cfr. pag. 185
e segg. della trascrizione dell’udienza del 5.11.1998), che ha lavorato nella
Pensione Po, “in nero”, dal 1992 fino al 1996.
Costei ha dichiarato che
alla somministrazione dei medicinali (compresse e gocce) provvedeva lei e tutte
le altre dipendenti; vi provvedeva altresì la B., la quale si curava anche di
praticare iniezioni intramuscolo e fleboclisi (cfr. pag. 188):
P.M.: «E la signora B. sa
riferire lei ... se ha fatto iniezioni ai ricoverati...?».
P.: «Mah, quando c’era
bisogno le faceva».
P.M.: «... e fleboclisi ne
ha fatte?».
P.: «Mah ... mah, non mi
ricordo se erano flebo. Erano dei sacchettini comunque. L’ha fatta a una nonna
solo».
P.M.: «E cioè a chi?».
P.: «Ehm..., l’ultima che
hanno trovato... quella che hanno trovato nel letto».
P.M.: «La signora A.L.?».
P.: «A.L., sì».
Questa testimonianza,
proveniente da un’ex dipendente della B., priva di motivi di rancore verso la
sua ex-datrice di lavoro, è particolarmente attendibile. Ad essa si aggiungono
le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da altra
ex-dipendente della Pensione Po, R.E., dichiarazioni consacrate nel verbale
redatto dalla Guardia di finanza di Torino in data 2.4.1997 (agli atti in
quanto acquisito ex art. 500 comma 4 c.p.p.), ove si legge:
«Ho lavorato fino alla data
del vostro intervento (il sequestro del 18.3.1997, n.d.r.) presso la Pensione
Po di Torino. ... Della somministrazione dei medicinali di vario genere agli
ospiti se ne occupava la B. La stessa su richiesta della figlia e del nipote
medico della signora L.A. provvedeva ad applicare delle flebo. Le punture di
solito venivano eseguite da una infermiera chiamata dalla B. o dai parenti
stessi; alcune volte le stesse venivano effettuate dalla B.».
Deponendo all’udienza
dell’11.2.1999 questa teste (cfr. pag. 5 della trascrizione) ha mutato
atteggiamento, dichiarando che mai la B. ebbe a praticare fleboclisi. Ha
creduto di poter conciliare tale nuova versione con quella resa in indagini
preliminari dichiarando, in maniera del tutto inattendibile, che le iniezioni
praticate dalla B., per ovviare a fenomeni di disidratazione, erano delle sottocutanee
(!).
Che A.B. abbia sovente
personalmente praticato iniezioni e fleboclisi è dato che risulta da numerose
scritturazioni sulla già citata agenda utilizzata come diario clinico della
pensione:
– 16.12.1996, annotazione
della B.: «B. è stata messo il flebo»;
– 28.1.1997: «P. ha solo
bevuto ma non ha mangiato niente neanche con A. Sempre A. le ha fatto la
puntura»;
– 15.2.1997: «A P. la
puntura è stata fatta da A.»;
– 6.3.1997, annotazione
della B.: «A. le ho fatto l’ipodermo e l’ha ricevuta bene senza gonfiare la
gamba»;
– 13.3.1997, annotazione
della B.: «A. è stazionaria, il flebo ne ha fatto metà perché muoveva la gamba
e non mi sono fidata non potendo stare lì a guardarla»;
– 14.3.1997, annotazione
della B.: «A. ha fatto l’ipodermo tutta».
Del resto questa
conclusione è avvalorata anche dal ritrovamento, nel corso dell’ispezione del
9.11.1995, di ben quattro confezioni di siringhe nella rudimentale “farmacia”
della pensione ubicata in un mobile della sala da pranzo (cfr. elenco allegato
al verbale di ispezione cit.).
B. va ritenuta pertanto
responsabile anche del delitto di cui all’art. 348 c.p. contestatole sub C).
* * *
D. e B. sono dunque
responsabili di tutti i reati loro ascritti. Risulta facilmente individuabile
un disegno criminoso unitario alla base di essi, trattandosi di violazioni di
legge tutte correlabili alla decisione di svolgere un’attività imprenditoriale
illegale nel settore dell’assistenza agli anziani. Di qui la grave
inadeguatezza delle cure prestate, lo svolgimento di attività infermieristiche
in assenza dei titoli abilitativi richiesti, l’attivazione di una cucina in
assenza di autorizzazione sanitaria.
Il reato più grave, per il
quale fissare la pena base, va senz’altro individuato in quello di cui al capo
A). Esso presenta connotati oggettivi e soggettivi tali da non consentire
l’irrogazione della pena minima edittale: sul piano oggettivo viene in rilievo,
innanzitutto, la durata della consumazione del reato. Anche a volersi limitare
al periodo contestato in imputazione, si tratta di ben un anno e mezzo
(peraltro è dibattimentalmente emerso che l’abusivo esercizio della casa di
cura risale all’inizio degli anni ’90. Vengono poi in rilievo il numero degli
ospiti che hanno riportato lesioni in conseguenza del trattamento subito e la
varietà delle patologie riscontrate a loro carico.
Sotto il profilo soggettivo
vanno evidenziati l’intensità del dolo ed i motivi a delinquere. Siamo di
fronte a due imputati che hanno deliberatamente scelto, mantenendo fermo per
anni il loro proposito, di svolgere un’attività non consentita e pericolosa per
la salute altrui ad esclusivo fine di lucro (cfr. dep. R., pag. 167 della
trascrizione dell’udienza del 5.11.1998, ove si precisa che la retta mensile
corrisposta per ciascun pensionante era di circa lire 1.800.000 mensili).
Estremamente significativo, a questo riguardo, il passaggio dell’esame
dibattimentale della B. in cui la donna, pur ammettendo di aver ricevuto
consigli su come adeguare la pensione alle esigenze di cura e assistenza degli
anziani ospiti, ha dichiarato di aver omesso di far eseguire qualsivoglia
miglioria nella struttura perché pendeva ricorso al TAR avverso le ordinanze
comunali di sospensione dell’attività: come dire che non valeva proprio la pena
di spendere del denaro per migliorare le condizioni degli ospiti se non c’era
certezza di poter continuare a guadagnare lautamente per il futuro! (Cfr. pag.
25-28 della trascrizione dell’udienza dell’11.2.1998).
Altro motivo che si è colto nelle parole della B. (il coimputato non si è sottoposto ad esame) è la convinzione di aver svolto un’attività meritoria, in quanto sostitutiva di una assistenza che le strutture pubbliche non sono in grado di fornire (cfr. trascrizione cit., pag. 26, righe 11 e segg.). Questo convincimento dell’imputata è profondamente errato e non può in nessun modo trovare favorevole considerazione dinanzi ad un Tribunale: le carenze della pubblica amministrazione possono giustificare lodevoli iniziative private che contribuiscano ad integrare l’assistenza pubblica ponendosi ai livelli qualitativi richiesti dalla scienza medica, dalla legge e dal buon senso; non possono e non devono invece assolutamente fornire un alibi a chi persegua facili guadagni con spregiudicate iniziative illegali e pericolose per l’altrui incolumità.
Per queste ragioni si
ritiene di muovere, per entrambi gli imputati, dalla pena base di un anno e due
mesi di reclusione (applicabile con riferimento alla condotta in danno di
B.I.), e di negare le attenuanti generiche. A tale ultima conclusione inducono
anche i precedenti penali risultanti dagli atti: il D. è pregiudicato per
furti, violazioni al codice stradale, falso in autorizzazioni amministrative,
associazione a delinquere, violazioni alla disciplina delle armi, rapina,
assegno a vuoto, violazione delle norme sugli stupefacenti ed abusivo esercizio
di una professione (!); la B. ha un precedente specifico per abusivo esercizio
della professione nel marzo 1996 (cfr. certificato penale agli atti).
Sulla pena predetta va
applicato l’aumento previsto dall’art. 99 c.p., così pervenendosi alla pena di
anni uno, mesi tre e giorni venti di reclusione per il D., e anni uno, mesi due e giorni dieci di
reclusione per la B. (la cui recidiva è oggettivamente meno grave).
Occorre poi tener conto
dell’aumento di pena derivante dalla “continuazione interna” con gli altri
episodi di cui al capo A). In considerazione del numero delle condotte di
abbandono perpetrate dagli imputati (in un ampio arco temporale e nei confronti
di alcune decine di anziani, via via assecondatisi nella pensione), si stima
equo determinare tale aumento in mesi tre di reclusione, così pervenendosi alla
pena di anni uno, mesi sei e giorni venti di reclusione per il D. ed anni uno,
mesi cinque e giorni dieci di reclusione per la B.
Sempre a norma dell’art. 81
cpv. c.p., ulteriori aumenti vanno praticati, in misura di dieci giorni di
reclusione per ciascun imputato, per la contravvenzione di cui all’art. 2,
legge 683/62, e – limitatamente alla sola B. – in misura di quaranta giorni di
reclusione per il delitto di cui all’art. 348 c.p. (reato in ordine al quale
sussiste la contestata continuazione interna, posto che gli episodi di abusivo
esercizio della professione infermieristica documentalmente accertati sono
almeno sei, cfr. l’agenda in sequestro, pagine sopra indicate).
La pena complessiva
irroganda è perciò di un anno e sette mesi di reclusione per ciascun imputato.
Segue la condanna solidale al pagamento delle spese processuali.
L’imputata B. (non così il
D.) versa in condizioni soggettive che le consentono di fruire della
sospensione condizionale della pena; ricorrendo gli altri presupposti di cui
all’art. 163 c.p. si fa pertanto luogo alla concessione del beneficio.
P.Q.M.
visti gli artt. 533 e 535
c.p.p., dichiara D. e B. responsabili dei reati loro ascritti, unificati dal
vincolo della continuazione, e li condanna ciascuno alla pena di anni uno e
mesi sette di reclusione, nonché, in solido tra loro, al pagamento delle spese
processuali.
Concede alla sola B. il
beneficio della sospensione condizionale della pena.
Visto l’art. 544 c.p.p.,
fissa come termine di deposito della presente sentenza il quarantacinquesimo
giorno a decorrere dalla data odierna.
Torino,
11 febbraio 1999 - Depositata in Cancelleria il 25 marzo 1999.
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