Prospettive
assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000
Importante sentenza della corte di appello di
Milano
sul diritto dei malati psichiatrici alle cure
sanitarie gratuite
Sul n. 128, ottobre-dicembre 1999, di Prospettive assistenziali, abbiamo pubblicato
l’ottima sentenza del giudice del lavoro B. Fargnoli in cui veniva stabilito
che, nei confronti dei ricoverati presso l’ex manicomio di Como, l’Azienda
sanitaria «non può pretendere la quota di
degenza né per il 1993 (anno relativo ai decreti ingiuntivi), né per qualsiasi
altro periodo successivo al 1978» (1).
Il provvedimento ha, altresì, stabilito che ai
ricorrenti viventi e agli eredi di quelli defunti devono essere restituite le
somme trattenute dall’Azienda sanitaria per la retta posta illegalmente a
carico dei ricoverati.
Con sentenza n. 214 del 13 marzo 2000, la Sezione
Lavoro della Corte di appello di Milano
ha respinto il ricorso presentato dall’Azienda ospedaliera Sant’Anna di Como,
quale struttura liquidatoria dei precedenti enti competenti in materia
sanitaria (Ussl 5, ecc.).
In primo luogo, la Corte di appello ha rigettato l’eccezione preliminare dell’Azienda
ospedaliera Sant’Anna sulla carenza di giurisdizione del giudice ordinario,
affermando che «occorre distinguere le
controversie tra enti in ordine agli oneri finanziari relativi al ricovero di
malati di mente dalle controversie tra enti e privati riguardanti il diritto
alla salute e la legittimità o meno della cosiddetta rivalsa».
Al riguardo, la Corte ha rilevato che, mentre le prime «sono pacificamente devolute alla
giurisdizione amministrativa», le seconde «sono altrettanto pacificamente devolute alla giurisdizione
ordinaria».
Per quanto concerne il merito della questione,
l’Azienda ospedaliera Sant’Anna ha sostenuto che la sentenza del Tribunale si
reggeva su tre posizioni, ritenute errate. Non sarebbe vero, secondo
l’opponente, che con l'entrata in vigore della legge 13 maggio 1978 n. 180 (che
ha previsto la chiusura dei manicomi e la creazione dei servizi alternativi)
siano decadute le norme del regio decreto 615/1909 e della legge 1580 del 1931
in base ai quali era previsto il versamento di contributi economici da parte
dei pazienti psichiatrici ricoverati e dei loro congiunti.
In secondo luogo, l’Azienda ospedaliera Sant’Anna ha
asserito che la legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978 non prevedeva il
diritto dei cittadini «di esigere
qualsiasi prestazione e sempre a titolo gratuito». Infine, la stessa
Azienda ha affermato che la legge n. 180/1978 non conteneva «la benché minima disposizione»
contraria all’obbligo da parte dei ricoverati e dei loro parenti tenuti agli
alimenti di accollarsi gli oneri dei soggetti cronici, e quindi inabili al
lavoro.
L’Azienda ospedaliera ha aggiunto che «anche nella legge n. 833/1978 non è ravvisabile
alcuna norma e alcun principio da cui debba discendere il principio nuovo della
gratuità del ricovero del soggetto, affetto da malattia cronica di mente, in
presidi socio-assistenziali, e che anzi dall’esame dei servizi dovuti dal
Servizio sanitario nazionale emerge che non vi sono comprese le prestazioni di
natura assistenziale rese nelle strutture psichiatriche alternative e nelle
comunità aperte, il che si spiega perché non si tratta di prestazioni sanitarie
come si è definitivamente chiarito sia a livello dei giudici amministrativi sia
a livello dell’autorità giudiziaria ordinaria con numerose sentenze che, anche
alla luce della pronuncia n. 455/1990 della Corte costituzionale sulla graduale
attuazione del diritto alla salute, hanno evidenziato la differenza fra
prestazioni sanitarie, garantite – a mezzo del Servizio sanitario
nazionale – come un vero e proprio diritto soggettivo, ed attività
socio-assistenziali rimesse all’organizzazione ed alla discrezionalità delle
Regioni e degli Enti locali con possibilità di rivalsa per le spese di ricovero
ai sensi della legge n. 1580/1931 che la Suprema Corte con recente sentenza 20
gennaio 1998 n. 481 ha ritenuto in vigore anche dopo l’emanazione della legge
20 dicembre 1978 n. 833».
L’appellante ha inoltre precisato che «il persistente obbligo degli interessati di
concorrere nelle spese di ricovero trova conferma in interventi legislativi
successivi a detta legge n. 833/1978 sia dello Stato (in particolare l’art. 30
della legge 27 dicembre 1983 n. 730 – integrato poi dal decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 8 agosto 1985 – la cui disposizione
fondamentale – assieme al ribadito
e fermo divieto di accollare al fondo sanitario spese di carattere
socio-assistenziale – è costituita dall’affermazione che “sono a carico del
Fondo sanitario le attività di rilievo sanitario connesse con quelle
socio-assistenziali”) sia della Regione
Lombardia (leggi regionali n. 35/1980 e 106/1980) che al divieto di accollo al
Servizio sanitario nazionale di spese derivanti dalla gestione dei servizi
sociali hanno affiancato l’assunzione, da parte del Fondo sanitario, dei costi
dei servizi sanitari presenti nei servizi sociali».
Infine, l’Azienda ospedaliera ha denunciato «l’erroneità dell’affermazione del primo
giudice sulla connotazione sanitaria del presidio» in cui erano ricoverati
i soggetti ai quali era stato richiesto il pagamento della retta.
La Corte di
appello di Milano, dopo aver affermato che le soprariportate «censure e rilievi non valgono a determinare
la riforma nel merito dell’impugnata sentenza», ha precisato quanto segue: «È giurisprudenza della Suprema Corte (cfr.
le sentenze 20 novembre 1996 e 25 agosto 1998) che la ricognizione sistematica
della disciplina legislativa porta a ritenere che nel caso in cui al malato
psichico oltre alle prestazioni socio-assistenziali siano erogate prestazioni
sanitarie, l’attività va considerata di rilievo sanitario e, pertanto, di
competenza del Servizio sanitario nazionale, mentre qualora siano erogate
soltanto prestazioni di sorveglianza ed assistenza (c.d. prestazioni di “tipo
domestico”) l’attività va considerata di natura socio-assistenziale e,
pertanto, estranea al Servizio sanitario. La stessa giurisprudenza ha chiarito
(contrariamente a quanto, come si è visto, sostiene l’appellante) che non deve
distinguersi tra malati mentali acuti e malati mentali cronici, al fine di
escludere l’attività di cura dei secondi da quelle considerate di rilievo
sanitario giacché di una tale distinzione non c’è traccia nella legge, che
prende in considerazione l’attività di cura indipendentemente dal tipo di
malattia (acuta o cronica) alla quale è diretta, e, pertanto, una disposizione
dell’atto di indirizzo e coordinamento che avesse introdotto detta differenza,
sarebbe certamente contra legem e
come tale disapplicabile dal giudice ordinario. Sempre la Suprema Corte nella
seconda delle suindicate sentenze ha precisato che non può escludersi il
carattere sanitario delle prestazioni in considerazione dell’impossibilità di
guarigione o miglioramento della malattia psichica in quanto tale impossibilità
non esclude che possano o debbano essere prestate cure mediche di eventuali
altre affezioni connesse o consequenziali alla malattia psichica o anche
terapie palliative della stessa affezione mentale».
Ciò premesso, la Corte di appello di Milano ha precisato che «da questi orientamenti non vi è ragione di dissentire e pertanto nella
specie diviene decisivo accertare se oltre alle prestazioni socio-assistenziali
siano state erogate anche non irrilevanti prestazioni sanitarie ovvero sia
stata essenzialmente prestata soltanto attività di sorveglianza ed assistenza,
dovendosi nel primo caso escludersi l’estraneità al Servizio e nel secondo
riconoscersi invece detta estraneità. Ora le risultanze processuali, come ha
già rilevato il Tribunale, depongono per la prima alternativa».
Ciò premesso, la Corte di appello di Milano ha respinto il ricorso presentato dall’Azienda
ospedaliera Sant’Anna di Como e l’ha condannata al pagamento delle spese di
primo e secondo grado calcolate complessivamente in 20 milioni ed a restituire
ai soggetti interessati o ai loro eredi «le
somme tenute in deposito per l’eventuale prelievo delle rette».
(1) Da
notare che, come avevamo riferito nei numeri 114 e 128 di Prospettive assistenziali, il Ragioniere generale dello Stato in
data 10 aprile 1996 aveva inviato al Direttore generale e al Rappresentante del
tesoro in seno al Collegio provvisorio dei Conti dell’Azienda sanitaria di
Como, alla Procura della Corte dei Conti di Milano, al Ministero della sanità e
alla Direzione generale del tesoro la nota prot. 128214 (Divisione 11ª) in cui
segnalava che l’Azienda sanitaria di Como aveva trattenuto dalle pensioni dei
ricoverati oltre 35 miliardi senza avere alcun titolo per sottrarre l’imponente
somma ai pazienti. In particolare il Ragioniere generale dello Stato aveva
scritto quanto segue:
– «non si evince in base a quali specifiche
norme regionali o nazionali avvenga l’introito delle pensioni per conto dei
ricoverati da parte dell’Azienda;
– «non è chiaro in base a quali norme viene
trattenuta, talora contro la volontà dei pazienti, una quota percentuale di
dette pensioni per il pagamento di rette anch’esse prive di valido riferimento
normativo;
– «alcune delle fattispecie considerate
potrebbero configurare precise responsabilità da perseguire nelle sedi
opportune».
Nonostante la suddetta autorevole presa di
posizione, l’Azienda sanitaria di Como ha insistito nel pretendere dai
ricoverati il versamento di contributi a titolo di retta, ottenendo dal
Presidente del Tribunale di Como l’emissione di decreti ingiuntivi nei
confronti dei ricoverati e dei loro congiunti finalizzati al pagamento delle
rette di degenza.
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