Prospettive
assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000
Proposte
alle regioni per limitare i danni della legge quadro sui servizi sociali
La legge 328/2000 (1) prevede che possono (e non
devono) beneficiare degli interventi e dei servizi sociali tutti i cittadini
italiani e degli Stati appartenenti all’Unione europea, nonché gli stranieri ed
i profughi indicati nell’art. 2.
Le attività di competenza sono quelle “relative alla predisposizione ed erogazione
di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a
rimuovere e superare le condizioni di bisogno e di difficoltà che la persona
umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal
sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede
di amministrazione della giustizia”.
Data l’enorme ampiezza delle funzioni assegnabili ai
servizi sociali, occorre, a nostro avviso, verificare in via preliminare se, al
fine di evitare sovrapposizioni e conflitti di competenza, sia opportuno ridurre
l’ambito di azione.
Inoltre, riteniamo che le leggi regionali dovrebbero
garantire servizi e interventi socio-assistenziali esigibili a coloro che ne
hanno l’esigenza per poter vivere (minori e soggetti adulti con limitata o
nulla autonomia privi di sostegno familiare, ecc.) o per non cadere nel baratro
dell’emarginazione (fanciulli e nuclei in gravi difficoltà personali e sociali,
ecc.).
Dette prestazioni socio-assistenziali dovrebbero
essere aggiuntive rispetto agli
interventi forniti dalla sanità, dall’istruzione, dalla casa, dai trasporti,
ecc.
Definizione
dell’ambito di azione
dei servizi
sociali
Prima di affrontare la questione – di fondamentale
importanza per i cittadini e la società – delle prestazioni assolutamente
indispensabili e di quelle accessorie (e cioè non essenziali per una
accettabile qualità della vita) previste dalla legge 328/2000, riteniamo che le
Regioni dovrebbero escludere dall’ambito di intervento dei servizi sociali le
funzioni, trasferite dallo stesso decreto legislativo 112/1999, concernenti
l’assistenza scolastica, la formazione professionale, le attività culturali, lo
spettacolo e lo sport, nonché le iniziative connesse alle materie sopra
indicate (2). Inoltre dovrebbero essere inserite nel settore della cultura non
solo la fruizione dei beni culturali (come esplicitamente previsto nel sopra
richiamato decreto legislativo), ma anche le attività rivolte alla conoscenza e
tutela del patrimonio storico e artistico, la riscoperta e valorizzazione delle
tradizioni popolari, l’istituzione di centri di incontro aperti a tutta la
popolazione comprese le persone in difficoltà, la promozione di pubblicazioni
predisposte da gruppi di base, ecc.
Mediante la definizione degli ambiti di intervento dei
vari settori, si eviterebbero anche conflitti di competenza, sempre deleteri
per la popolazione, gli operatori e le risorse economiche pubbliche.
Tenendo conto della necessità di unire i campi
d’azione aventi analoghe finalità, le leggi regionali dovrebbero attribuire le
funzioni inerenti gli asili nido al settore istruzione (e non ai servizi
sociali) come da anni hanno fatto alcune Regioni e molti Comuni.
Di conseguenza, si creerebbero le condizioni
necessarie per l’accorpamento delle strutture degli stessi asili nido con le
scuole materne, unificando le relative organizzazioni e consentendo anche una
riduzione sia delle spese di funzionamento dei due servizi, sia dei costi delle
nuove costruzioni.
In maniera analoga, le Regioni potrebbero determinare
l’appartenenza ad altri settori (e non ai servizi sociali) delle rimanenti
attività trasferite alle stesse dal decreto legislativo 112/1998 o da altri
provvedimenti.
Allo scopo, le Regioni ed i Comuni dovrebbero
individuare, anche ai sensi del 1° comma dell’art. 3 del decreto legislativo
112/1998, quali sono le funzioni che possono essere svolte correttamente e
senza ingiustificati oneri aggiuntivi per la finanza pubblica dei singoli
Comuni, compresi quelli aventi una limitata dimensione demografica.
Se la istituzione e la gestione di attività possono
essere validamente garantite dai singoli Comuni (ad esempio i soggiorni di
vacanza e le iniziative delle Pro-loco), non si comprende per quale motivo
possa essere negata la loro competenza e debba essere imposto un diverso
livello istituzionale, quello associativo o consortile.
Priorità e
livelli essenziali
previsti
dalla legge 328/2000
A sostegno della nostra richiesta di privilegiare le
esigenze dei soggetti più deboli, ricordiamo che la legge 328/2000 prevede al
3° comma dell’art. 2 che “i soggetti in
condizioni di povertà o limitato reddito o con incapacità totale o parziale di
provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con
difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro,
nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che
rendono necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente ai
servizi e alle prestazioni erogate nel sistema integrato di interventi e
servizi sociali”.
A sua volta l’art. 22 della legge 328/2000 elenca gli
interventi “che costituiscono il livello
essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi (…)”
e cioè:
«a) misure di
contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento,
con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
«b) misure
economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone
totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita
quotidiana;
«c)
interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il
sostegno al nucleo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza;
«d) misure
per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per
favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare;
«e) misure di
sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio
decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n.
2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni,
integrazioni e norme attuative;
«f)
interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’art.
14; realizzazione, per i soggetti di cui all’art. 3, comma 3, della legge 5
febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità alloggio
di cui all’art. 10 della citata legge 104 del 1992, e dei servizi di comunità e
di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle
prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie;
«g)
interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a
domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie
di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione
presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione
della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano
assistibili a domicilio;
«h)
prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da
droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero
e reinserimento sociale;
«i)
informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la
fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto».
Infine, ricordiamo che, ai sensi del 4° comma dello
stesso articolo 22, “le leggi regionali
(…) prevedono (…) comunque l’erogazione delle seguenti prestazioni:
«a) servizio
sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al
singolo e ai nuclei familiari;
«b) servizio
di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e
familiari;
«c)
assistenza domiciliare;
«d) strutture
residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali;
«e) centri di
accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario”.
Come abbiamo segnalato nell’editoriale di questo
numero, “priorità” e “livello essenziale delle prestazioni” non significano
“diritti esigibili”.
Va, inoltre, rilevato che il sopracitato 4° comma
dell’art. 22 della legge 328/2000 obbliga i Comuni ad istituire alcuni servizi,
senza però precisare che essi devono essere garantiti a tutti i cittadini che
ne hanno bisogno. Ad esempio, il Comune rispetta pienamente le norme della
legge quadro sui servizi sociali, istituendo una comunità alloggio quando ne
occorrono cinque.
Pertanto è auspicabile che i provvedimenti delle
Regioni (e quelli dei Comuni singoli o associati) assicurino alle persone ed ai
nuclei familiari in gravi difficoltà l’effettivo rispetto delle loro esigenze,
soprattutto di quelle indispensabili.
La
prevenzione del bisogno assistenziale
Per poter vivere, sono costretti a ricorrere alle
prestazioni dei servizi sociali anche i disoccupati (3), gli ex lavoratori con
pensioni insufficienti, i ragazzi in attesa di lavoro ma privi di adeguata
formazione, le persone e le famiglie senza una abitazione adeguata e non in
grado di pagare gli affitti richiesti, le persone (soprattutto anziane) colpite
da cronicità e da non autosufficienza e non ammesse a fruire del complesso
delle attività predisposte dal Servizio sanitario nazionale per gli altri
soggetti malati.
Com’è evidente, i servizi sociali hanno scarsissimi
mezzi e strumenti per svolgere azioni dirette ad eliminare le cause che
provocano le suddette richieste di interventi. Ne consegue che la prevenzione
del bisogno non può essere una funzione primaria del settore dei servizi
sociali, ma spetta, a seconda delle circostanze, ai settori del lavoro, delle
pensioni, della sanità, della casa, della scuola, dei trasporti, ecc.
L’organizzazione dei servizi sociali ha, tuttavia,
l’importantissimo compito di individuare non solo gli effetti
dell’emarginazione, ma anche le cause e di promuovere presso i comparti del
lavoro, delle pensioni, della sanità, della casa, della scuola, ecc., i
cambiamenti occorrenti per l’eliminazione o almeno per la riduzione dei fattori
che provocano difficoltà e disagio.
Mai solo
assistenza
Per aiutare veramente le persone in difficoltà a
raggiungere tutta l’autonomia possibile, è assolutamente necessario che le
prestazioni assistenziali siano fornite in modo da assicurare la massima
autonomia dei soggetti e, nello stesso tempo, da promuovere il loro corretto
utilizzo delle risorse sociali (sanità, casa, scuola, formazione professionale,
ecc.). Si tratta di un obiettivo diametralmente opposto a quello che
attualmente viene perseguito in molte situazioni. Numerosi sono, infatti, i
servizi socio-assistenziali che svolgono funzioni non di loro pertinenza:
– sostituendosi alla sanità nella cura degli ammalati
cronici non autosufficienti, e, ultimamente, anche dei pazienti psichiatrici;
– svolgendo servizi di trasporto per le persone che
non possono utilizzare i mezzi pubblici a causa della presenza di barriere
architettoniche;
– fornendo prestazioni di dopo-scuola (oggi chiamate
da alcuni attività di assistenza educativa territoriale) ai minori che non
assolvono l’obbligo scolastico;
– istituendo forme, spesso raffazzonate, di
preparazione professionale degli handicappati che dovrebbero invece frequentare
gli appositi servizi gestiti dal settore istruzione;
– ricercando posti di lavoro per i disabili, spesso
senza nemmeno coinvolgere i competenti uffici e assessorati preposti
all’occupazione.
Disposizioni
regionali specifiche
per le
prestazioni sociali indispensabili
per i
cittadini più deboli (4)
Facendo leva sulle norme sopra citate della legge
328/2000, relative alle priorità ed ai livelli essenziali, le Regioni
dovrebbero prevedere prestazioni specifiche ed esigibili dei servizi sociali,
aventi natura assistenziale, per i cittadini in gravi difficoltà al fine di
consentire ad essi di poter vivere: neonati figli di ignoti, fanciulli in stato
di abbandono materiale e morale da parte dei genitori e degli altri congiunti,
handicappati minorenni o adulti con limitata o nulla autonomia orfani o
comunque privi di sostegno familiare, ecc.
Per gli altri soggetti gli interventi sono necessari
perché non cadano nel baratro dell’emarginazione o ne possano uscire: persone
senza fissa dimora, uomini e donne a rischio di prostituzione o già dediti al
meretricio, individui e nuclei familiari sprovvisti dei mezzi economici
indispensabili per vivere, ecc. Complessivamente le persone che necessitano anche delle prestazioni dei servizi
sociali (o assistenziali) sono il 2-3% della popolazione.
Caratteristiche
delle disposizioni regionali
da noi
proposte
Gli obiettivi dei provvedimenti delle Regioni
dovrebbero riguardare:
a) la precedenza assoluta della prevenzione del disagio e
dell’emarginazione, praticabili soprattutto facendo in modo che i servizi
fondamentali della sanità, dell’istruzione, dei trasporti, ecc. siano
organizzati in modo da rispondere anche alle
esigenze della fascia più debole della popolazione (inserimento prescolastico e
scolastico anche dei soggetti con
handicap, cure sanitarie fornite anche ai
malati inguaribili, abbattimento delle barriere architettoniche, ecc.);
b) la preparazione professionale e l’inserimento
lavorativo anche delle persone con
handicap compresi i soggetti che hanno un rendimento lavorativo inferiore alla
media degli altri lavoratori, ma comunque proficuo per l’azienda;
c) l’individuazione delle persone e dei nuclei familiari
aventi l’assoluta necessità di beneficiare anche
degli interventi dei servizi sociali;
d) la definizione delle prestazioni da erogare ai
soggetti di cui al punto precedente. Dette prestazioni dovrebbero essere
definite come diritti esigibili, almeno per
i soggetti che altrimenti non possono vivere e cioè – come abbiamo già visto –
i neonati figli di ignoti, i fanciulli in stato di abbandono materiale e morale
da parte dei genitori e degli altri congiunti, i minori con gravi difficoltà
familiari, gli handicappati minorenni o adulti con limitata o nulla autonomia
orfani o comunque privi di sostegno familiare. Dovrebbero, inoltre, essere
inclusi fra le attività obbligatorie dei Comuni gli interventi nei confronti
dei soggetti sottoposti a provvedimenti dall’autorità giudiziaria;
e) la valutazione delle spese di investimento e di
funzionamento dei servizi e delle prestazioni;
f) la previsione di bilanci degli enti gestori dei
servizi sociali specifici per le attività relative ai soggetti di cui al
precedente punto c), e quindi
separati rispetto ai rendiconti riguardanti le altre funzioni svolte. Al
riguardo, riteniamo che tutti i fondi dello Stato e delle Regioni dovrebbero
essere utilizzati esclusivamente per i soggetti ed i nuclei familiari in gravi
difficoltà, mentre, per le attività dei servizi sociali di natura accessoria, i
fondi dovrebbero essere messi a disposizione dagli enti gestori e cioè dai
Comuni singoli e associati.
Il
raggruppamento dei Comuni piccoli
Com’è noto, per soddisfare le esigenze – spesso vitali
– della fascia più debole della popolazione vi è l’assoluta necessità della
creazione di una rete di servizi in grado di intervenire prontamente anche nei
casi, come sovente si verifica, in cui è necessario modificare la tipologia
delle prestazioni fornite. Ad esempio, per lo stesso nucleo familiare si deve
intervenire prima mediante contributi economici, successivamente con
l’affidamento dei minori, poi, a seguito del ritorno in famiglia dei minori,
con l’assistenza domiciliare integrata da sussidi, quindi con il ricovero dei
fanciulli per un’emergenza improvvisa, ecc.
A conferma di quanto esposto si è dimostrata
assolutamente negativa la possibilità concessa dalla legge regionale piemontese
n. 62/1995 ai Comuni singoli di limitata dimensione demografica di poter
esercitare autonomamente le competenze in materia di assistenza economica.
Infatti, da un lato questi Comuni non sono stati in grado di intervenire per
fronteggiare circostanze improvvise (necessità di versare contributi economici
di un certo rilievo) e, d’altro lato hanno spesso boicottato l’inserimento di
minori e di soggetti con handicap presso strutture più idonee (comunità
alloggio anziché istituti) a causa del maggior peso economico delle rette.
La questione
particolare delle gestanti e madri
La legge italiana garantisce alla donna due importanti
diritti: il diritto alla scelta se riconoscere come figlio il bambino procreato
e il diritto al segreto del parto per chi non riconosce il proprio nato.
Il diritto di riconoscere o meno il neonato come
figlio vale sia per la donna che ha un bambino fuori dal matrimonio che per la
donna sposata. Quanto alla prima, l’art. 250 del codice civile stabilisce che “il figlio naturale può esser riconosciuto
dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona
all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente
quanto separatamente”. Ne consegue che il bambino può non essere
riconosciuto dai suoi procreatori. In quanto al neonato nato da donna
coniugata, la Corte costituzionale con sentenza n. 171 del 5 maggio 1994 ha
stabilito che “qualunque donna
partoriente ancorché da elementi informali risulta trattarsi di coniugata, può
dichiarare di non voler essere nominata nell’atto di nascita”.
Il diritto al segreto del parto, segreto che deve
essere garantito da tutti i servizi sanitari e sociali coinvolti, è assicurato
con la previsione che, nei casi in cui il neonato non venga riconosciuto o
dichiarato dalla donna come figlio nell’atto di nascita del bambino, che deve
essere redatto entro dieci giorni dal parto, risulti iscritto: “Figlio di donna che non consente di essere
nominata”.
L’assistenza alle gestanti e madri nubili e coniugate
è estremamente importante sia perché la donna possa decidere coscientemente se
riconoscere o meno il proprio nato, sia per il bambino che ha l’esigenza di
avere una figura materna (la procreatrice o l’adottante) vera, mentre è sempre
deleterio il riconoscimento che determina solo effetti giuridici, ma lascia il
bambino privo di un riferimento affettivo stabile.
L’assistenza alle gestanti, che spesso riguarda
adolescenti anche di 13-15 anni, va svolta da personale altamente
specializzato. Pertanto, anche per garantire concretamente il segreto del
parto, è necessario che siano individuati solo pochi centri, che dovrebbero a
nostro avviso, essere predisposti dagli enti gestori dei servizi sociali che
hanno sede in località con un consistente numero di abitanti (Firenze, Genova,
Milano, Roma, Torino, ecc.).
D’altra parte le donne che non intendono riconoscere i
propri nati oppure non hanno ancora preso una decisione in merito, non si
recano presso i servizi del proprio Comune, soprattutto se di ridotte
dimensioni demografiche, perché non è garantita la necessaria riservatezza.
Va ricordato che nel 1999 sono stati 393 i neonati non
riconosciuti alla nascita e dichiarati adottabili: si tratta quindi di un
problema di non trascurabile importanza.
(1) Il testo della legge 8
novembre 2000 n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali” è
stato integralmente pubblicato sul n. 130, aprile-giugno 2000 di Prospettive assistenziali.
(2) Il decreto legislativo
112/1998 definisce negli articoli da 128 a 134 le funzioni trasferite alle
Regioni ed ai Comuni in materia di servizi sociali; le disposizioni concernenti
l’assistenza scolastica, la formazione professionale, le attività culturali, lo
spettacolo e lo sport sono contenute negli articoli da 135 a 157.
(3) Nei casi di
disoccupazione, i contributi economici dovrebbero essere erogati dagli
assessorati comunali al lavoro, i quali
dovrebbero integrare questo intervento con iniziative volte ai fini
occupazionali, quali l’aggiornamento e
la riqualificazione professionale, i
cantieri di lavoro, i lavori socialmente utili, ecc.
(4)
Cfr “Proposta di legge regionale di iniziativa popolare “Interventi prioritari
per i minori in difficoltà, i soggetti con handicap, i malati di Alzheimer, gli
anziani cronici non autosufficienti”, “Prospettive
assistenziali”, n. 130, aprile-giugno 2000.
www.fondazionepromozionesociale.it