Prospettive
assistenziali, n. 132, ottobre-dicembre 2000
Situazione attuale della istituzionalizzazione
e
tendenze alla neoistituzionalizzazione
Maria grazia breda *
Che cosa
intendiamo
per
istituzionalizzazione totale
Per affrontare il tema che mi è stato affidato è
necessario dotarci di alcuni elementi comuni di giudizio e di conoscenza. In
primo luogo desidero precisare che per “istituzionalizzazione” intendo il
ricovero in istituti di assistenza e
mi riferisco a quella tipologia di “istituzioni totali” i cui effetti
devastanti sulla persona sono stati ampiamente denunciati alla fine degli anni
’60.
Quando parlo di “istituto” mi riferisco altresì a
tutti gli edifici o strutture che ospitano da 20 a 40, 60, 100 o più persone.
Ritengo che già a partire da oltre 10 posti letto si
abbiano gli effetti negativi, dovuti all’organizzazione stessa dell’istituto,
stigmatizzati alla fine sempre degli anni ’60 dall’importante lavoro di Goffman
sui danni delle grandi istituzioni, per noi sempre attuali, che possiamo
riassumere come segue: scarsa intimità di luoghi e tra le persone,
spersonalizzazione degli ambienti, inesistenza o quasi della vita privata,
pasti ed esigenze personali organizzate sui bisogni dell’istituzione, presenza
sovente all’interno di servizi che impediscono o riducono fortemente il
contatto con la realtà esterna (bar, pettinatrice, scuola, riabilitazione).
Per quanto riguarda le strutture aventi fino a 10
posti (le comunità alloggio), che possono riguardare qualunque tipo di utenza
(dai minori, agli handicappati intellettivi o fisici, agli anziani, ecc.),
ricordo che – almeno per quello che riguarda le nostre associazioni – sono
state considerate sempre il male minore rispetto al ricovero in strutture più
capienti, ma comunque un male da evitare se possibile. Non a caso, da sempre,
ci adoperiamo perché siano prioritariamente assicurati tutti gli interventi
sociali primari (lavoro, casa, scuola, sanità, trasporti, ecc.) e, in aggiunta
a quest’ultimi, gli interventi assistenziali (sussidi economici, aiuti
domiciliari, affidamento familiare per i minori, inserimenti in famiglia di
adulti handicappati o anziani, ecc.).
Quando, nonostante, la messa in atto di tutti gli
interventi di cui sopra, la persona (minore, handicappato, anziano, ecc.) non
può restare a casa (con la propria famiglia o altre persone), allora può essere
una risposta la comunità alloggio con al massimo 10 posti. Comunque, per quanto
riguarda i minori, questa soluzione deve essere il più possibile temporanea.
Una ricerca del laboratorio di psicologia di Torino sui minori abbandonati a
confronto con quelli che vivono in famiglia (cfr. La Stampa del 14.5.1999) denuncia che i bambini in comunità sono
già depressi a 15 mesi, perché crescono senza figure di riferimento. Gli
educatori sono competenti, ma il continuo turnover
dovuto agli orari di lavoro, non favorisce la nascita di relazioni affettive
stabili, indispensabili per la crescita armonica del minore.
In secondo luogo, penso che, per capire le attuali
forme di istituzionalizzazione, sia utile ripercorrere, seppur velocemente, il
periodo che ci ha preceduto (limitandoci dagli anni ’60 ai giorni nostri) per
osservare gli elementi comuni che vi ricorrono e che, pertanto, alla luce
dell’esperienza si dovrebbe saper leggere e contrastare.
La
situazione assistenziale negli anni ’60
Nel 1960 la situazione delle persone ricoverate in
istituto, in base ai dati dell’Annuario statistico dell’assistenza e della
previdenza sociale (Istat, Vol. X, 1963) era la seguente:
– minori
• 112.596 negli orfanotrofi;
• 87.594 negli “istituti per soli minori poveri o
abbandonati”;
• 61.402 nelle colonie permanenti e cioè negli
“istituti che accolgono per periodi piuttosto lunghi bambini linfatici,
anemici, predisposti alla tubercolosi, ecc.”. In realtà, quasi sempre i
fanciulli erano ricoverati per motivi socio-economici;
• 18.464 negli istituti “per altre categorie di
ricoverati”;
• 10.081 negli istituti per “minorati psichici”;
• 8.699 nei brefotrofi “in allevamento interno” di cui
3.768 non riconosciuti dai genitori;
• 7.624 negli “istituti per anormali sensoriali”;
• 3.506 in strutture per “minorati fisici”.
Dunque alla data del 31 dicembre 1960 i minori
ricoverati in istituti a carattere di internato erano 310.326.
Inoltre alla stessa data del 31 dicembre 1960
risultavano ricoverati in istituti di assistenza:
• 107.617 “vecchi indigenti”;
• 6.902 “minorati psichici adulti”;
• 5.913 adulti in strutture di ricovero anche per
minori, anziani e handicappati;
• 2.064 “anormali sensoriali” adulti;
• 1.796 “minorati fisici” adulti.
Il totale generale dei ricoverati al 31 dicembre 1960
era dunque di 435.518 persone.
Il fenomeno del ricovero era determinato anche dalla
presenza di una miriade di organismi assistenziali preposti allo svolgimento
delle attività assistenziali che – salvo casi del tutto eccezionali – operavano
per l’esclusione dal contesto sociale della fascia più debole della
popolazione.
Infatti, l’intervento più praticato era il ricovero in
istituto (in molti casi anche in ospedali psichiatrici) di bambini e di
adolescenti, di handicappati, di anziani in tutto o in parte non
autosufficienti e degli altri soggetti in grave difficoltà socio-economiche.
Al riguardo è significativo quanto aveva affermato il
Ministero dell’interno nella relazione sul bilancio dello Stato del 1969: «L’assistenza pubblica ai bisognosi (...) racchiude in sé un rilevante interesse
generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a
difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari (...)».
Dunque, gli assistiti erano considerati dal Ministero
dell’interno, l’organo con i più rilevanti poteri in materia di assistenza, un
pericolo per il resto della popolazione; di conseguenza essi dovevano essere
esclusi dal contesto sociale. Vedremo che questo concetto ritorna anche ai
giorni nostri, ma prima ricordiamo la stagione positiva dei cambiamenti.
I grandi
cambiamenti dal 1960 al 1980:
dal ricovero
in istituto ai servizi per tutti
• A partire dal 1962 molti gruppi di base, tra cui
l’Anfaa e l’Ulces, hanno svolto una intensa attività diretta ad informare
amministratori, operatori e opinione pubblica sulle deleterie conseguenze
psico-fisiche provocate sulla personalità dei minori dalla carenza di cure
familiari e dal ricovero in istituto.
A seguito delle numerose e documentate denunce, le
forti resistenze delle persone e dei gruppi sostenitori dell’emarginazione
incominciarono a cedere.
• Sorgono i
primi servizi alternativi al ricovero (aiuti economici alle famiglie,
assistenza domiciliare, le prime comunità alloggio, ecc.) e soprattutto emerge
l’esigenza di una radicale reimpostazione dei servizi primari non
assistenziali: sanità, casa, scuola,
ecc. Si comincia a parlare di servizi onnicomprensivi e cioè non riservati a
particolari categorie, ma aperti a tutti.
• Si registrano
le prime iniziative di superamento delle scuole speciali per handicappati
fisici insufficienti mentali, ciechi, sordi e per l’eliminazione delle classi
differenziali. Un importante ruolo è svolto dalla proposta di legge di
iniziativa popolare “Interventi per gli handicappati psichici, fisici e
sensoriali e per i disadattati sociali” presentata al Senato il 21 aprile 1970
con 220 mila firme. Viene approvata la legge 30 marzo 1971 n. 118, riguardante
i soggetti con handicap, che rappresenta comunque una prima rottura rispetto al
passato, anche se molte disposizioni vengono scarsamente applicate.
• È di questi
anni anche la legge 482/1968 che introduce la disciplina del collocamento
obbligatorio degli handicappati. Si tratta di una legge molto discussa, che non
ha certamente risolto l’avviamento al lavoro di tutti gli handicappati, tanto
meno di coloro che presentano una riduzione della capacità lavorativa, anche se
ha permesso di dimostrare – laddove è stata applicata – che la maggioranza delle
persone handicappate è in grado di raggiungere una resa produttiva piena,
purché adeguatamente collocate in modo mirato sul posto di lavoro. Questo vale
anche per gli altri soggetti, che, a causa di una minore autonomia, possono
raggiungere un rendimento ridotto. Resta, però, una parte non consistente di
persone handicappate che, a causa della gravità delle loro condizioni
intellettive e/o fisiche, non può svolgere attività lavorativa proficua e,
dunque, ha diritto a servizi assistenziali. Vedremo più avanti come si pone la
nuova normativa.
• La legge 5
giugno 1967 n. 431, che introduce nel nostro ordinamento l’istituto
giuridico dell’adozione speciale, e che scaturisce dalle iniziative dei gruppi
di base a cui aderirono parlamentari, giuristi, magistrati, donne e uomini di
cultura, amministratori, operatori e organizzazioni sociali.
• Le famiglie di origine, accettano sempre meno il
ricovero in istituto dei loro figli; maturano così le prime positive esperienze
di inserimento in famiglie affidatarie e vengono create le condizioni culturali
per la diffusione dell’adozione. Dai 310 mila minori ricoverati in istituto nel
1960 si arriva ai 16-20 mila del 1999. I minori italiani e stranieri adottati
dal 1967 al 1998 sono oltre 87 mila.
• Dalla
repressione manicomiale, si passa ai servizi di igiene mentale grazie alla
mobilitazione di operatori (ricordiamo in particolare Franco Basaglia),
intellettuali, associazioni, movimenti di base e una parte dei sindacati dei
lavoratori. La disposizione che determina una netta rottura con il regime
manicomiale è la legge 13 maggio 1978 n. 180, le cui norme sono successivamente
inserite nella legge di riforma sanitaria 23 dicembre 1978 n. 833.
• Le case di
riposo si svuotano degli anziani attivi autosufficienti in tutto o in parte. Non
ci sono dati aggiornati; gli ultimi risalgono al 1992 e comunque non sono
utilizzabili per i nostri fini, perché sono accorpati in una stessa voce tutti
gli anziani (sia quelli autosufficienti sia i non autosufficienti); non c’è
distinzione tra i ricoveri in strutture di assistenza e in strutture sanitarie,
tra quelle pubbliche e quelle private/convenzionate. Tuttavia, è possibile
affermare che la percentuale degli ultrasessantacinquenni autosufficienti
ricoverati in istituto oggi, rispetto alla popolazione della stessa età è
scesa. È ormai ampiamente riconosciuto che si vive più a lungo, ma in
condizioni economiche e culturali che ci permettono di giungere in età avanzata
con condizioni di salute e di benessere di gran lunga migliori delle generazioni
precedenti. Infatti, se è vero che negli ultimi decenni è aumentato il numero
delle persone ultrasessantacinquenni, è altrettanto vero che si tratta di
persone con un livello di autonomia migliore. È sufficiente una visita ad una
qualunque struttura residenziale di ricovero di anziani per verificare che i
ricoveri sono quasi totalmente attuati nei confronti di persone che hanno
problemi di non autosufficienza conseguente a patologie o loro esiti.
La grande
involuzione a partire dagli anni ’80
Quasi vent’anni or sono sulla rivista “Prospettive assistenziali”, n. 48,
ottobre-dicembre 1979, era uscito l’editoriale dal titolo “Inaccettabile
l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale”. Si è trattato di un
grido di allarme, purtroppo ignorato, che per la prima volta puntava il dito
contro il ritorno della pratica del ricovero in istituto delle persone più
deboli.
Veniva segnalato, già allora, 1979, l’involuzione in
atto (che continua oggi), a causa della caduta della partecipazione e del
cambiamento di posizione dei partiti di sinistra.
A partire dalle Regioni economicamente più sviluppate,
comincia in quegli anni la riorganizzazione del settore assistenziale mediante
il graduale cambiamento dell’utenza degli istituti di ricovero assistenziale.
Gradualmente vengono create le condizioni per la riproposizione delle attuali
“moderne” forme di istituzionalizzazione, di cui parleremo nell’ultima parte di
questa relazione.
Si passa dagli anziani autosufficienti agli anziani
malati cronici non autosufficienti; dagli istituti escono i bambini piccoli e
normali e restano quelli grandicelli e/o malati o handicappati; sono sempre
meno gli handicappati fisici, mentre continua il ricovero di handicappati
intellettivi gravi; i disadattati sono sostituiti con persone con profondi
disturbi psichiatrici. Si ricoverano, dunque, sempre più persone con limitata o
nulla autonomia, non in grado di protestare, di comunicare i loro bisogni e le
loro esigenze, né quindi capaci di attirare
l’attenzione della parte più sensibile della popolazione.
I passaggi più significativi che caratterizzano questa
fase involutiva, che sta alla base della situazione attuale, possono essere
riassunti nei seguenti provvedimenti.
• Il nefasto
documento del Consiglio sanitario nazionale del 1984, proposto dal Prof.
Achille Ardigò e approvato in data 8 giugno 1984 da tutti i componenti del
Consiglio sanitario nazionale: rappresentanti delle Regioni, dei datori di
lavoro, dei sindacati dei lavoratori, dei commercianti, degli artigiani, dei
coltivatori diretti, ecc. Nel documento viene brutalmente stabilito che gli
anziani non autosufficienti dovevano essere trasferiti dalle strutture
sanitarie alle case protette allo scopo di ridurre gli oneri del Servizio
sanitario nazionale nella misura massima del 50 per cento, addebitando la
differenza agli utenti. Il provvedimento investe anche gli handicappati non
inseribili nel lavoro, le persone con disturbi psichiatrici, i
tossicodipendenti, gli alcolisti. È bene ricordare che questo decreto aveva un
mero valore amministrativo; non modificava nessuna delle leggi vigenti ma, in
assenza di proteste, tanto le Regioni che le Usl ebbero ed hanno ancora oggi
buon gioco ad applicarlo. Continuiamo a non capire perché l’assenso sia stato e
sia tutt’oggi dato anche dai Comuni, nonostante che ad essi fossero e siano
attribuiti compiti e spese non previsti da alcuna legge e ancora di più non si
comprende l’appoggio dei Sindacati dei lavoratori.
• L’art. 20
della legge finanziaria 67/1988 prevede la realizzazione di 140.000 posti letto
per gli anziani non autosufficienti (ma secondo un’interpretazione data da
i più, le Rsa devono riguardare anche gli handicappati); ed è la conseguenza
diretta del decreto del 1985. Con il Dpcm del dicembre 1989 nascono le Rsa,
residenze sanitarie assistenziali che prevedono il ricovero di anziani e altri
soggetti non autosufficienti.
• La legge 8
novembre 1991, n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali”, nasce con lo
scopo di “integrare i cittadini svantaggiati, tra cui gli handicappati”; in
realtà si propone – e ci riesce, come vedremo in seguito – di diventare il
canale parallelo della collocazione al lavoro delle persone non “desiderate”
dalle aziende. D’altronde la legge 2 aprile 1968 n. 482 è sempre meno applicata
anche per l’assenza di iniziative di tutela da parte dei Sindacati, che, salvo
rare eccezioni di singoli sindacalisti, non manifestano alcun interesse a
rappresentare questi lavoratori disoccupati.
• La scatola
vuota della legge 5 febbraio 1992 n. 104 “Legge quadro per l’assistenza,
l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, con i suoi
22 “possono”, lascia ampio margine a Regioni ed Enti locali per continuare
nella pratica dell’istituzionalizzazione delle persone handicappate
specialmente di chi ha una limitata o nulla autonomia. La legge 162/1998, a sua
volta, ha aggiunto altri 3 “possono” al testo precedente. In assenza di
obblighi precisi (e di sanzioni per gli inadempienti), come viene denunciato
nel documento del Gruppo di lavoro «Famiglia di handicap grave, servizi
territoriali, “dopo di noi”» (in Atti della 1ª Conferenza nazionale sulle
politiche dell’handicap, Roma 16-17-18 dicembre 1999, a cura della Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari sociali), «la caratteristica dominante spesso è la
frammentarietà e il non coordinamento: ogni problema implica un percorso
diverso, sedi diverse, referenti diversi, spesso ulteriormente parcellizzati e
sempre non comunicanti. Se poi si guarda a livello regionale e locale, si
colgono ulteriori forti differenze: aree con un buon livello di servizi e con
sperimentazioni fortemente innovative, aree con assurde carenze anche nei
servizi essenziali. I problemi dei disabili esigono al contrario l’attivazione
di una rete di servizi stabile, omogenea e visibile, che rispetti l’unitarietà
della persona. Per poter modificare l’attuale sistema organizzativo occorre
prima di tutto ricollocare in posizione centrale gli utenti e i loro bisogni (...). Si tratta concretamente di definire uno
standard minimo di servizi e prestazioni da garantire obbligatoriamente su
tutto il territorio nazionale» (pag. 157).
Un altro grave limite è la mancata definizione di che
cosa si intende per “struttura comunitaria a carattere familiare”. Le
esperienze di comunità alloggio, di 8-10 posti al massimo, inserite in normali
contesti abitativi e non accorpate tra loro in un unico edificio, non sono mai
diventate una norma di legge, un vincolo per le Amministrazioni regionali e
locali. Di fatto assistiamo oggi al rifiorire – purtroppo anche per i minori
oltre che per le persone handicappate – di strutture residenziali in cui si
parla di nuclei – e non di comunità alloggio – da 10 posti. In questo modo è
possibile realizzare nello stesso edificio più nuclei per più categorie di assistiti.
Non si usa più la brutta parola “istituto”, ma si inventano nuove definizioni.
La Regione Piemonte, ad esempio, con la delibera 38-16335 del 1992 introduce la
definizione di “residenza assistenziale flessibile” dove possono essere accolti
in nuclei da 10, 20 posti letto indifferentemente anziani cronici non
autosufficienti, handicappati con limitata o nulla autonomia, dimessi dagli
ospedali psichiatrici, malati di Alzheimer, senza fissa dimora. Torniamo ad
avere i vecchi istituti ghetto da 80-100 posti se non di più.
• La riforma
psichiatrica si è fermata. È di questi giorni la notizia dell’indagine
condotta dalla Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati secondo cui
in molti casi la chiusura dei manicomi si è rivelata solo “falsa” o semplici
atti “amministrativi”. Secondo la Commissione risulterebbe che nei riguardi dei
malati continui “un approccio
custodialista del trattamento psichico”. Marida Bolognesi, che della
Commissione è presidente, afferma: «La
destrutturazione dei manicomi in alcuni casi è stata solo nominale. Mancano i
controlli efficaci per verificare quali strutture abbiano realmente chiuso e
quale sia la qualità dei servizi offerti». Il Ministero della sanità
assicura, al contrario, che la chiusura e lo smantellamento dei manicomi è
stata quasi completata. Ma sia Franco Previte dell’Associazione “Cristiani per
servire”, sia Nino Lo Presti, Vice-Presidente della Diapsi, Difesa ammalati
psichici, denunciano la mancanza di strutture terapeutiche e riabilitative, per
cui, alla fine l’ammalato è spesso ancora a carico solo della famiglia (Avvenire, 8 agosto 2000). Si sa che
mancano le comunità alloggio sanitarie, in alternativa ai manicomi, e sono
insufficienti i servizi territoriali di salute mentale indispensabili per
offrire il supporto a domicilio del paziente. Permangono inoltre molti grandi
manicomi con situazioni pesanti periodicamente denunciate senza che nulla sia
cambiato. La legge 724/1994, che stabilisce la chiusura definitiva degli
ospedali psichiatrici entro il 31 dicembre 1996, mette in atto una serie di
provvedimenti assunti dalle Regioni, che hanno del miracoloso: pazienti
psichiatrici con diagnosi di schizofrenia o paranoia, dopo 20-30 anni di
ricovero in strutture manicomiali improvvisamente vengono “rivalutati” solo più
anziani oppure assumono lo status di handicappati intellettivi. Ancora una
volta “la malattia” viene negata – e viene negata la cura al malato che non ha
forza contrattuale di opporsi – per una pura questione economica. Nella tabella
predisposta dal Direttore generale del Consorzio di Collegno-Grugliasco
(Torino), in una lettera inviata il 9 dicembre 1998 ai rappresentanti dei
Comuni per contestare il trasferimento in assistenza (e dunque a carico dei
Comuni) di 550 dimessi dagli ospedali psichiatrici, si vede immediatamente il
risparmio notevole che la sanità intende operare:
– Soggetto di “Tipo A” (paziente rivalutato anziano):
quota giornaliera lire 100.000;
– Soggetto di “Tipo B” (paziente rivalutato
handicappato): quota giornaliera lire 80.000;
– Soggetto di “Tipo C” (paziente riconosciuto malato
psichiatrico): quota giornaliera lire 200.000.
Da cui risulta che il costo di degenza per 550
pazienti di tipo C (che restano “malati psichiatrici”) è di 40.150.000.000 di
lire x 365 giorni di ricovero, mentre 550 pazienti “rivalutati” anziani o
handicappati intellettivi (e trasferiti in assistenza) si spendono solo più
18.031.000.000 di lire, sempre per 365 giorni di ricovero.
Che cosa
possiamo ricavare dai dati statistici?
I dati Istat, come ho già anticipato, si fermano al
1992 (ad eccezione per i minori, che esaminiamo a parte). Il sistema utilizzato
dall’Istat era stato più volte criticato anche perché non sempre i dati
raccolti erano compatibili con quelli degli anni precedenti. Invece di
apportare i necessari correttivi, l’Istat ha preferito disinteressarsi
completamente dell’andamento della istituzionalizzazione.
Da tempo si è segnalata l’esigenza della creazione di
una anagrafe delle persone (minori, adulti, anziani) ricoverate in istituto,
anagrafe che andrebbe costantemente aggiornata per intervenire e potenziare i
servizi necessari a prevenire e a ridurre la richiesta di ricovero. Dalle
informazioni avute, però, risulta che non sia in atto nessuna ricerca in
proposito. Il documento “Programma di azione del Governo per l’handicap
2000-2003” conferma tale carenza anche per l’handicap. C’è da osservare che
anche i dati forniti negli atti della Conferenza che ha avuto luogo nel mese di
dicembre 1999 non sono utili per comprendere il fenomeno, i bisogni delle
persone handicappate e, quindi, la programmazione dei servizi di cui
necessitano. È inutile contare gli handicappati senza entrare nello specifico
della diversità dei bisogni, che deriva dalla diversa autonomia che le persone
possono o non possono avere o raggiungere. Almeno si potrebbe cominciare con
una valutazione più attenta di coloro ai quali è stata riconosciuta una
percentuale di invalidità del 100 per cento.
Ancora 20
mila minori ricoverati in istituto
Soltanto per quanto riguarda il ricovero dei minori è
possibile usufruire di dati aggiornati al 30 giugno 1998, grazie alla ricerca “I bambini e gli adolescenti fuori dalla
famiglia - Indagine sulle strutture residenziali educativo-assistenziali”
(Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza,
Firenze, ottobre 1999).
Il quadro che si presenta non è tuttavia confortante.
In primo luogo si rileva che non è fatta alcuna distinzione tra le strutture di
ricovero in base alla loro capienza, per cui vengono equiparati gli istituti
tradizionali con le piccole comunità alloggio. Per quanto riguarda ricoveri si
osserva che dai 14.945 minori (7.995 maschi e 6.950 femmine), di cui:
• 1.174 portatori di handicap (723 di natura psichica,
senza alcuna distinzione fra gli intellettivi e coloro che soffrono di disturbi
mentali);
• 173 con minorazione plurime;
• 145 con difficoltà fisiche;
• 133 con disabilità sensoriali;
è ragionevole arrivare alla cifra di circa 20 mila
minori ricoverati, considerando che non sono stati censiti gli handicappati
ricoverati in struttura sanitarie, nei collegi e nei convitti di istruzione.
I dati che ci devono preoccupare, ai fini del nostro
seminario, sono a mio avviso i seguenti:
1. la durata del ricovero: 1.730 minori sono
ricoverati da oltre 5 anni nella struttura oggetto dell’indagine;
2. i ricoverati nella fascia di età 0-6 anni sono
2.104, in quella dai 7 ai 14 anni 8.088;
3. 1.946 minori provengono da precedenti ricoveri
presso istituti o comunità;
4. 2.495 frequentano le scuole interne dell’istituto;
5. 4.785 minori non rientrano mai a casa loro;
6. dalle risposte multiple sulle cause del ricovero
emerge la diffusa presenza di problemi economici (43,6%), abitativi (23,6%),
lavorativi (19,4%), associati a forme acute di disadattamento personale e
sociale.
A questo riguardo la legge 285/1997 non ha inciso in
quanto non ha scelto come obiettivo l’azzeramento dei ricoveri nella fascia 0-6
anni, e gli enti locali sovente hanno dirottato i finanziamenti per la
ristrutturazione di istituti (ad esempio con la formula gruppi-famiglia) oppure
per il potenziamento di forme di convitto, piuttosto che incentivare
alternative al ricovero (aiuti alla famiglia d’origine, affidamenti familiari
diurni o temporanei).
Le nuove
forme di istituzionalizzazione
Sono quindi vent’anni che i cittadini totalmente
incapaci di autodifendersi e non tutelati da familiari o da altri soggetti
(anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer e altre persone
colpite da demenza senile, pazienti psichiatrici e handicappati intellettivi
con limitatissima o nulla autonomia) vengono sistematicamente esclusi dal
contesto sociale mediante il loro ricovero in strutture assistenziali (case di
riposo e altri istituti) in cui spesso non ricevono le necessarie cure
sanitarie e le altre indispensabili prestazioni.
A causa del disinteresse delle istituzioni, succede
anche che il trasferimento dal manicomio in una comunità peggiori notevolmente
le condizioni di vita dei ricoverati. Pier Luigi Donetti, nell’articolo “Il
manicomio chiuso a Collegno (Torino) riapre altrove - Cristalli al posto dei
muri” denuncia: «Venti ospiti dell’ospedale psichiatrico finiti sotto chiave a
Bessolo di Ivrea» (Corriere di Rivoli,
Collegno, Grugliasco, 23 aprile 1999).
Ma possiamo dire che, oltre a queste forme tradizionali
di istituzionalizzazione, che ci riconducono alle esperienze stigmatizzate
negativamente alla fine degli anni ’60, è nata una proposta di ricovero, che
potremmo definire di “seconda scelta” per cittadini, sempre in condizione di
limitata o nulla autonomia, per i quali si sono predisposti interventi sociali,
comunque separati però dai servizi previsti per tutti gli altri cittadini.
Ad esempio gli anziani malati cronici non
autosufficienti non vengono curati insieme agli altri malati (nelle medicine
degli ospedali, nelle case di cura convenzionate, negli istituti di
riabilitazione), ma possono finire in una delle tante pensioni abusive; più di
frequente, specialmente al Nord, il loro destino è comunque nelle Rsa,
residenze sanitarie assistenziali, e cioè in un luogo separato dagli altri
servizi sanitari previsti per tutti i cittadini.
Questo succede anche per i malati di tumore con la
malattia in stadio avanzato per i quali, anziché prevedere nel luogo in cui
sono (la casa, l’ospedale, la casa di cura, la Rsa...) cure sanitarie a
dimensione umana si propongono strutture apposite solo per loro come gli hospice, di nuovo una struttura solo per
questi malati, con tutte le incongruenze del caso: se oltre al tumore vi sono
altre patologie, ad esempio una demenza, la persona è da ricoverare in una Rsa
oppure in un hospice? Se i posti di
ricovero nell’hospice non sono
sufficienti, cosa ne è degli altri malati terminali che non possono ricevere
tutte le stesse prestazioni sanitarie riservate ai ricoverati dell’hospice?
Per i malati in coma apallico, anche giovani, si
individuano moduli a parte, inseriti nelle Rsa per anziani malati non
autosufficienti, anziché prevedere i pochi posti letto necessari all’interno
dell’ospedale, assicurando peraltro gli interventi tempestivi di cui
necessitano in caso di miglioramento o peggioramento improvviso (cfr. la
delibera della Giunta Regionale del Piemonte, 21 luglio 1997 n. 93-21140).
E così stanno spuntando anche ipotesi – proprio a
Torino – di Rsa appositamente realizzate per handicappati fisici con gravi
patologie da 30 posti letto con annesso centro diurno da altri 20 posti.
Servizi separati per soli handicappati, pienamente in grado di intendere e
volere, anziché potenziare fin che è possibile la loro permanenza a casa con
l’assicurazione di adeguate cure domiciliari e prevedere, in caso di
peggioramento, per assicurare l’assistenza sanitaria di cui necessitano, il
ricovero in reparti ospedalieri, che tengano conto anche delle esigenze
relazionali.
Si sta pensando anche a soluzioni particolari per gli
handicappati con capacità lavorativa anche piena, ma che hanno la necessità di
un collocamento mirato e, dunque, qualche difficoltà la pongono.
Se potranno essere così fortunati da non finire in un
“laboratorio protetto”, avranno ugualmente grandi probabilità di trovare lavoro
in contesti diversi dalle normali aziende, grazie all’articolo 12 della legge
68/1999 che dà la possibilità all’azienda di collocarli nelle cooperative
sociali, anche a tempo indeterminato. E le cooperative sociali, ricordiamolo,
per legge devono avere non meno del 30 per cento di persone “svantaggiate”: non
meno, vuol dire che può essere anche superiore alla percentuale indicata; e
dunque ecco pronto un “contenitore” per le diversità e non certo per i
cittadini normali.
Lo stesso discorso si ripropone purtroppo per i
minori. Ad eccezione dei neonati o dei bambini piccolissimi adottabili e senza
minorazioni o problemi gravi di salute, come abbiamo visto dai dati dell’ultima
indagine, gli altri restano in istituto o, nella migliore delle ipotesi, in
comunità alloggio, comunque non in una famiglia, neppure affidataria.
Le ragioni
di questa linea “nuova” di emarginazione delle persone con limitate capacità di
autodifesa sono molteplici
1. Mancanza di
capacità contrattuale dell’interessato: come fa un bambino, un anziano
cronico non autosufficiente o un handicappato intellettivo ad organizzarsi per
far sentire le sue istanze? Per questo chi fa parte del mondo che decide, può
tranquillamente emarginarli ed escluderli.
2. Decide chi
conta: secondo Gambino (cfr. A. Gambino, “Il ritorno della disuguaglianza”,
Il Mulino, n. 4/5 luglio-agosto
1995), la nostra democrazia poggia sui 7/8 della popolazione. La sua essenza è
che tutti gli aspiranti uomini politici, al momento di formulare programmi,
decidono di abbandonare al proprio destino il settore marginale più basso della
cittadinanza, vale a dire quel 12-15% che in tutti i paesi occidentali
costituisce la underclasse, le cui
esigenze se fossero prese davvero in considerazione, non si dimostrerebbero
“incompatibili” con le richieste degli altri settori sociali, ma ridurrebbero
ovviamente le condizioni di privilegio e i relativi benefici delle classi alte.
Essi finiscono così, per concentrare la loro attenzione unicamente sulla
maggioranza di coloro che già hanno come sostenitori o che nel prossimo futuro
sperano di avere, e cioè sui 7/8 della popolazione, abbandonando gli altri al
loro destino. Un errore grossolano commesso da chi si trova fortunatamente –
per ora – tra i 7/8 che contano, è di non considerare l’eventualità di
precipitare tra coloro che oggi esclude o emargina.
3. La mancanza
di un forte volontariato impegnato nella promozione e difesa dei diritti.
Tuttora la stragrande maggioranza del volontariato svolge una attività
consolatoria, senza adoperarsi per la ricerca delle cause che creano la
condizione di bisogno assistenziale allo scopo di rimuoverle. Non è poi un buon
segno l’avvicinamento continuo delle organizzazioni di volontariato al terzo
settore. Le associazioni di volontariato dovrebbero svolgere la propria
attività gratuitamente e porsi come obiettivo il compito di intervenire per il
rispetto dei diritti degli utenti, con la libertà d’azione nei confronti di
tutti gli enti gestori di servizi, comprese le cooperative. Per tali ragioni
non dovrebbero mai essere confuse o, peggio, associate con il terzo settore (non profit non significa gratuito) e,
soprattutto, non dovrebbero “morire” di convenzioni con gli Enti locali, come
aveva già anticipato Luciano Tavazza all’entrata in vigore della legge quadro
sul volontariato, prevedendo – purtroppo – il soffocamento sul nascere di ogni
spirito di denuncia contro le istituzioni inadempienti, per timore di perdere i
relativi finanziamenti. Il ritorno alla beneficenza con le maratone televisive
(Telethon, Cento ore per la vita...) ed alle risorse aleatorie (vedasi le
ultime dichiarazioni del Ministro Turco sul “Lotto” come fonte di finanziamento
delle comunità alloggio per l’handicap),
ci sta spostando dalla cultura del diritto, a quella della
solidarietà/beneficenza. L’affermazione di principio di qualche decina d’anni
fa: “Non per favore, ma per diritto”
è passata di moda.
4. Un’alleanza
per la gestione degli emarginati. Il 12 febbraio 1999 il Governo e il Forum
del terzo settore hanno sottoscritto un protocollo di intesa. Una delle
caratteristiche salienti dell’accordo è il riconoscimento ufficiale – da parte
del Governo – del terzo settore quale soggetto politico, sociale ed economico
in grado sia «di corrispondere in modo
efficace alla domanda insoddisfatta di servizi di interesse collettivo e al
diffuso bisogno di “beni relazionali” necessari per la convivenza civile e la
coesione sociale», sia di incentivare «l’occupabilità
dei lavoratori svantaggiati». Dunque, con la stessa logica del Ministero
dell’interno degli anni passati, il Governo e il terzo settore non puntano alla
prevenzione del bisogno e del disagio, non chiedono la riprogrammazione degli
interventi sociali fondamentali (lotta all’evasione scolastica, cure sanitarie
anche ai malati inguaribili, adeguamento delle pensioni minime...), ma
propongono servizi di contenimento per garantire la convivenza civile e la
coesione sociale. Inoltre, alle persone svantaggiate, comprese quelle in grado
di assicurare un rendimento lavorativo uguale a quello degli altri lavoratori,
il Governo e il terzo settore non si impegnano per la loro occupazione nelle
normali aziende, ma hanno deciso la loro emarginazione presso le cooperative
cosiddette sociali. Nell’accordo non sono nemmeno indicate le iniziative da
assumere per il passaggio dei lavoratori idonei dalle cooperative alle normali
aziende private e pubbliche. Va detto che il Governo e il Forum hanno stabilito
di dare attuazione alla proposta avanzata da Pellegrino Capaldo nella sua
funzione di Presidente della Fondazione italiana del volontariato e della Banca
di Roma. Nel n. 6, giugno 1995, della Rivista
del volontariato, edita dalla Fivol, il Capaldo – dopo aver premesso che
bisognava abbandonare «la strada degli
obblighi e dei vincoli che spesso hanno il solo risultato di ridurre la
competitività delle aziende» – affermava quanto segue: «Penso ad una diversa disciplina delle “categorie protette” che
consenta alle imprese di scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di
commesse ad un organismo produttivo che dia lavoro a quelle “categorie”».
La proposta emarginante della Fondazione del
volontariato non si rivolgeva solo alle persone con handicap, comprese quelle
pienamente in grado di svolgere la loro attività lavorativa al pari degli altri
colleghi di lavoro – ma si estendeva anche ai soggetti “svantaggiati”. Infatti
il Capaldo aveva chiesto anche «l’allargamento
della nozione di “soggetto svantaggiato” rispetto a quella prevista dalle norme
sulle cooperative sociali», che già consideravano in modo estremamente
estensivo tutti i soggetti svantaggiati, senza tenere in considerazione la loro
autonomia personale e le loro capacità lavorative. L’art. 4 della legge 8
novembre 1991 n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali” stabilisce che «si considerano persone svantaggiate gli
invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti
psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli
alcoolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i
condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione». A questo
elenco vengono poi aggiunti altri soggetti di volta in volta individuati per
decreto. Il Capaldo ritiene che «con
l’aiuto di volontari, esse (le cooperative sociali, n.d.r.) riescono a dare un lavoro dignitoso a
soggetti “svantaggiati” per i quali sarebbe impossibile inserirsi in un normale
circuito produttivo». A questo riguardo è interessante il parere dei
diretti interessati. L’ultima testimonianza in proposito risale al 7 luglio
2000 ed è stata pubblicata su Specchio
dei tempi (rubrica del quotidiano La
Stampa) dove leggiamo a firma di Patrizia Russo: «Ho lavorato presso un asilo nido privato, gestito da una cooperativa
sociale: in base al regolamento interno, i soci lavoratori non hanno diritto
alla retribuzione di ferie, festivi, periodo di assenza (ovvero primi tre
giorni di mutua), permessi di vario genere, ecc. Puntualizzo che lo stipendio
viene calcolato approssimativamente, senza conteggiare i giorni e le ore
effettive, su base annua con corrispettivo irrisorio. Questo è un esempio di
come possono agire talvolta le cooperative sociali. Informo che per legge le
suddette possono redigere il regolamento interno in base alle proprie esigenze,
farlo votare dall’assemblea dei soci, diventando così, valido a tutti gli
effetti. Non importa, poi, se il contenuto non si attiene alle normali
regolamentazioni di lavoro. L’Ispettorato del lavoro e i sindacati ne sono a
conoscenza, ma non possono agire. Il mio intento è quello di contribuire alla
salvaguardia dei lavoratori e utenti che si rivolgono alle cooperative.
Consiglio di farsi consegnare subito lo statuto e il regolamento prima di
iniziare un qualsiasi rapporto con le suddette».
Solo tre giorni dopo, sempre sulla stessa rubrica la
denuncia viene confermata da un’altra testimonianza: «Sono d’accordo con quanto ha scritto Patrizia Russo in quanto vivo le
stesse vessazioni in qualità di socio-lavoratore e sono indignata che vengano
permessi tanti abusi. Alcune cooperative “sociali” sono solo imprese mascherate
da cooperative che sfruttano il lavoro a bassissimo costo e sono esenti da
imposte. Dovrebbero esistere solo quelle veramente “sociali” e verificare che
si comportino in modo veramente corretto. Sono alla ricerca di un altro impiego
e spero che la buona sorte mi dia una mano. Mi auguro che la giustizia trionfi
e che si facciano cessare tanti abusi nei confronti di gente che ha solo
bisogno di lavorare». Purtroppo, come ho già ricordato, la legge 12 marzo
1999, n. 68 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” ha dato alle imprese
la possibilità di chiedere l’inserimento in cooperativa degli handicappati da
assumere, al posto dell’avviamento in azienda.
5. L’impostazione
assistenzialistica dei problemi e delle soluzioni per le persone in difficoltà.
Anziché operare affinché tutti i settori di interesse sociale (sanità,
scuola, lavoro, ecc.) siano predisposti in modo da accogliere pienamente anche
i soggetti più deboli, si tende a risolvere il problema con interventi
assistenziali, che – in base a quanto previsto dal primo comma dell’articolo 38
della Costituzione – devono invece occuparsi esclusivamente delle persone più
marginali, prive di capacità lavorative e della possibilità di procurarsi i mezzi
necessari per vivere. La Costituzione prevede, quindi, interventi aggiuntivi a
tutti gli altri di carattere onnicomprensivo (sanità, scuola, casa, lavoro,
ecc.). Questi interventi assistenziali non interessano, né potrebbero
interessare gli altri cittadini, ma se non vengono erogati le persone coinvolte
non possono vivere o vivrebbero peggio. Ad esempio, gli handicappati
intellettivi in situazione di gravità frequentano la scuola di tutti,
utilizzano i servizi sanitari di tutti, si servono dei mezzi di trasporto di
tutti, ma i centri diurni assistenziali sono organizzati esclusivamente per
rispondere alle loro esigenze e non potrebbe essere diversamente. Analogo
discorso vale per i senza fissa dimora. Così un bambino in situazione di
abbandono, ospite di una comunità alloggio, frequenterà la scuola di tutti, i
servizi sanitari se sta male come tutti gli altri, ma la comunità alloggio o la
famiglia affidataria o adottiva deve essere scelta solo per lui dai servizi
assistenziali in accordo con i tribunali per i minorenni. Questo servizio
assistenziale non interessa di certo tutti gli altri minori che vivono
serenamente con i propri genitori. Su questa linea assistenzialistica si
muovono invece anche le ricerche del Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro, nel rapporto “Il ruolo degli
organismi non profit nel settore
assistenziale” elaborato in data 21 aprile 1998. Nella ricerca è segnalato
che «i settori assistenziali nei quali è,
dunque, ipotizzabile il raggiungimento da parte degli organismi non profit, di
una posizione significativa possono, così, essere individuati: nelle case di
riposo e abitazioni protette, negli asili nido, nei settori assistenziali
innovativi (assistenza domiciliare agli anziani, istituti per anziani e
handicappati, servizi a persone affette da problemi sanitario-sociali,
consultori per alcolisti e tossicodipendenti, istituti per minori in stato di
disagio, servizi di pasti a domicilio, consultori familiari)». Per cui i
ricercatori del Cnel non soltanto inseriscono gli asili nido fra le strutture
assistenziali (e non fra i servizi educativi), ma ripropongono addirittura gli
istituti assistenziali per anziani, handicappati e minori come se fossimo
ancora negli anni ’60-’70. D’altronde sempre i ricercatori del Cnel in un altro
rapporto redatto per la Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati
nella stessa data di quello sopraricordato, avevano esplicitamente richiesto
che la competenza ad intervenire per gli anziani malati cronici non
autosufficienti, anziché restare alla sanità – come previsto dalle leggi
vigenti – venisse assegnata al settore dell’assistenza.
6. Analisi
incompleta. Sia la Caritas italiana che la stessa Fondazione Zancan hanno
pubblicato presso la Casa editrice Feltrinelli due rapporti: il primo, che reca
il titolo “I bisogni dimenticati -
Rapporto 1996 su emarginazione ed esclusione sociale”, analizza la
condizione anziana, i problemi dei minori e dei giovani a rischio, i fenomeni
legati alla dipendenza, l’immigrazione e la situazione detentiva; il secondo,
avente per oggetto “Gli ultimi della fila
- Rapporto 1997 sui bisogni dimenticati” affronta gli argomenti relativi
alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, le persone senza
fissa dimora, la disoccupazione giovanile, i malati psichiatrici, l’usura.
Molte parti sono condivisibili, ma in questo contesto mi preme rilevare – come
è già stato commentato su Prospettive
assistenziali, che ha recensito con un articolo i due volumi –
l’insufficienza dell’analisi delle cause che stanno a monte di ogni forma di
emarginazione e, dunque, gli strumenti suggeriti per contrastarla. Si sostiene
che – «i nodi critici che spesso
ostacolano l’attuazione di politiche sociali efficaci ruotano attorno ad una
serie di contraddizioni: l’insufficiente realizzazione dei servizi essenziali,
la sporadica e formale attuazione dei distretti sociosanitari, la mancata
formazione dei responsabili dei servizi, lo scarso investimento negli
interventi ad elevata integrazione socio-sanitaria, la cronica insufficienza
delle risorse destinate ai servizi territoriali e domiciliari, la sistematica
incertezza nella ripartizione della spesa sociale e sanitaria, tale per cui
spesso persone anziane non autosufficienti malate croniche, vedono messo in
discussione il loro diritto alla salute, cioè ad aver prestazioni sanitarie
fondamentali garantite invece agli altri cittadini». Si aggiunge che «queste disfunzioni spesso nascono da
responsabilizzazioni parziali e simulate, da mancate collaborazioni e
integrazioni, da conflittualità fra settori, da contrapposizioni improprie tra
pubblico e privato, dalla insufficiente definizione delle condizioni di accesso
e di esigibilità dei servizi, soprattutto nel caso di bisogni che
richiederebbero un approccio globale e integrato». In sostanza, secondo gli
Autori, l’esclusione e l’emarginazione potrebbero essere efficacemente
contrastate mediante misure di natura tecnica: l’attuazione dei distretti, lo
sviluppo degli interventi ad elevata integrazione sociosanitaria,
l’attribuzione di risorse ai servizi territoriali e domiciliari, la formazione
dei responsabili dei servizi, ecc. Non esisterebbero, dunque, problemi politici
di tipo generale. Crediamo davvero che le disuguaglianze sociali sarebbero
solamente la conseguenza di una cattiva e correggibile disorganizzazione? Su
questa linea è anche il rapporto redatto da Mons. Benito Cocchi, Presidente
della Caritas italiana, che asserisce che la risoluzione delle ingiustizie
esistenti potrebbe essere realizzata mediante apporti individuali. Nell’introduzione
del primo volume precisa che oggi per un approccio corretto al problema dei
poveri occorrono «una catechesi e una
liturgia che sappiano parlare a tutti a partire da linguaggi e gesti semplici,
profondamente calati nell’umanità delle persone e trasparenti sul mistero di
Dio-Amore». Davvero è sufficiente l’impegno personale e la creazione di
luoghi di solidale accoglienza per rimuovere le attuali situazioni di
emarginazione e di esclusione sociale?
Se confrontiamo quanto è successo solo trent’anni fa,
vediamo che un salto qualitativo per le persone emarginate si è avuto solo
quando sono cominciate le denunce e si sono stigmatizzati gli interventi che
miravano a escludere dal contesto chiunque poteva “disturbare”, anche solo con
la sua presenza (pensiamo agli handicappati), la quiete sociale e sono stati
avviati servizi alter-
nativi.
Continua dunque a nostro avviso la necessità di
perseguire l’obiettivo della prevenzione dell’emarginazione, mentre
l’umanizzazione dei servizi e dei luoghi dell’assistenza è una tappa, ma non
deve distogliere dal traguardo che bisogna conquistare.
7. Continuo
raggiro delle leggi da parte delle istituzioni e dei pubblici poteri. Alcuni
esempi: dimissioni degli anziani malati cronici non autosufficienti dagli
ospedali, nonostante le leggi vigenti sanciscano il diritto alla cura senza
limiti di durata; allo scopo di smascherare la condizione di malattia si
assiste al cambiamento delle diagnosi per cui il malato di demenza senile ha
solo una vasculopatia cerebrale e il dimesso dall’ospedale psichiatrico, dopo
vent’anni di manicomio, è “solo” più un anziano; richiesta di contributi ai
familiari di assistiti maggiorenni, in violazione a quanto previsto dal codice
civile con particolare accanimento da parte del Comune di Firenze, che ha di
recente deliberato prevedendo, in contrasto anche con il decreto legislativo
130/2000, la compartecipazione dei familiari degli assistiti al pagamento di
rette di ricovero.
Conclusioni
A mio parere, restano valide le analisi e le soluzioni
che erano state adottate alla fine degli anni ’60 e che si sono fermate a causa
della caduta in generale dei principi etici di riferimento e per il mutato
clima politico e culturale degli ultimi anni. Per cui mi sembra che non si
debbano tanto cercare nuove strade, ma riprendere al più presto la via già
tracciata e che, come ho cercato di argomentare, aveva cominciato a dare buoni
risultati. Quindi:
a) Contro il
rischio di esclusione ed emarginazione in assistenza dei cittadini con limitata
o nulla capacità di autodifesa, bisogna tornare a rilanciare i servizi per
tutti, accessibili a tutti: il lavoro, la casa, i trasporti, la sanità, il
tempo libero, lo sport e la cultura non devono essere prerogativa dei ceti
sociali forti; ogni settore sociale deve essere capace di accogliere con
proprie risorse e con proprio personale anche le persone con difficoltà;
b) l’assistenza
è un servizio aggiuntivo, che va assicurato di diritto e obbligatoriamente
a quei
cittadini che, pur usufruendo dei servizi di tutti, hanno bisogni specifici e
particolari che non riguardano cioè tutta la popolazione; tali servizi vanno
garantiti in primo luogo ai cittadini che il 1° comma dell’articolo 38 della
Costituzione individua nelle persone inabili e sprovviste dei mezzi necessari
per vivere. Osservo con amarezza la caduta di
tensione sul piano etico, a mio avviso dimostrata dai Deputati con
l’approvazione del testo sulla riforma dell’assistenza licenziato dalla Camera
e ora in discussione al Senato (disegno di legge
n. 4641) (1). Essi hanno stravolto il dettato costituzionale e arbitrariamente
hanno stabilito l’erogabilità dei servizi socio-assistenziali a tutta la
popolazione, senza peraltro prevedere l’obbligo per gli enti locali ad
assicurare almeno gli interventi indispensabili per le persone emarginate o a
grande rischio di esclusione sociale.
c) È dunque indispensabile ritornare alla cultura del diritto, non aleatorio, non
discrezionale, ma al diritto esigibile, che è tale solo se la legge prevede
l’obbligo di intervenire per l’ente tenuto a soddisfare la prestazione
richiesta. Ad esempio il diritto all’istruzione obbligatoria per tutti i
bambini, handicappati compresi.
d) Solo la norma
giuridica prescrittiva permette al cittadino (o alle associazioni che lo
rappresentano) di esercitare i propri diritti anche tramite la denuncia e
il ricorso contro l’Amministrazione inadempiente. Tutte le altre disposizioni
che contornano le norme legislative (linee guida, programmi d’azione, piani
socio-sanitari regionali, piani di zona, progetti individuali, uffici del
difensore civico, carte dei diritti del malato...), se non riprendono in primo
luogo i riferimenti normativi che tutelano la persona, soprattutto, se non sono
ancorate a obblighi precisi per le istituzioni, da sole non possono certamente
difendere le persone a rischio di esclusione sociale assicurando loro il
diritto agli interventi di cui necessitano. In merito, anche il Cardinale
Martini, nella relazione presentata in occasione della prima Conferenza
nazionale della sanità (Roma, 24-26 novembre 1999) ha acutamente osservato che
occorrerà «verificare che le numerose
“Carte dei diritti del malato” non si trasformino, nella realtà in “diritti di
carta”, soprattutto per persone bisognose, ad esempio, di riabilitazione
estensiva o di assistenza a lungo termine, per persone affette da grave
cronicità, che rischiano di essere escluse dalla tutela della salute».
* Relazione tenuta al
seminario “Percorsi di istituzionalizzazione mascherata: come riconoscerli ed
evitarli”, organizzato dalla Fondazione Zancan, tenutosi a Malosco (Trento),
dal 3 al 7 settembre 2000.
La relazione è stata
preparata con il contributo di Francesco Santanera e degli articoli pubblicati
sulla rivista Prospettive assistenziali
per i quali si rinvia ai numeri: 48, ottobre-dicembre 1979, “Inaccettabile l’attuale riorganizzazione
del settore assistenziale”; 64, ottobre-dicembre 1983, “I nulla”; 68, ottobre-dicembre 1984, “Tutto è pronto per una nuova emarginazione”; 111, luglio-settembre
1995, “La fondazione italiana per il
volontariato non vuole che handicappati e svantaggiati lavorino nelle normali
aziende”; 126, aprile-giugno 1999, M.G. Breda, “Aspetti positivi, negativi e problematici della nuova legge sul
collocamento al lavoro delle persone con handicap” e “I bisogni dimenticati”; 127, luglio-settembre 1999, “Intesa fra il Governo e il Forum del terzo
settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi limitate capacità di
autodifesa”; 128, ottobre-dicembre 1999, F. Santanera, “Cambiamenti più significativi del settore assistenziale dal 1960 al
1998”; 129, gennaio-marzo 2000, F. Santanera, “Esperienze di prevenzione del bisogno assistenziale dell’emarginazione
sociale” e “Sono ancora 20 mila i
minori ricoverati in strutture assistenziali: le promesse non rispettate del
Ministro per la solidarietà sociale”.
(1) Il testo (ora legge 328/2000) è stato approvato
dal Senato nell’identica stesura varata dalla Camera dei Deputati.
www.fondazionepromozionesociale.it