Prospettive
assistenziali, n. 133, gennaio-marzo 2001
Costituita a Firenze una associazione per la
difesa dei diritti delle persone non autosufficienti
Anna Nocentini, responsabile dell’Associazione per la
difesa dei diritti delle persone non autosufficienti (Adina), ha raccolto
nell’istruttivo libretto “Una vecchiaia serena...?!” una serie di testimonianze
(1).
Esse riguardano essenzialmente tre problematiche:
l’espulsione dagli ospedali degli anziani malati cronici non autosufficienti,
la carenza degli interventi sanitari domiciliari, l’obbligo imposto ai parenti
di versare contributi economici anche rilevanti per il ricovero in Rsa.
Piero: «Nel giugno 1996, a seguito di una nuova caduta, mia
madre fu ricoverata al Cto di Firenze e subì un intervento al femore: anche in
questo caso fu dimessa dopo 10 giorni dall’intervento, quasi in coma. Mi
rivolsi nuovamente all’assistente sociale sul territorio, la quale già
conosceva il caso, ma non ebbi da lei nessun aiuto (...). Alla fine del 1998
sono stato convocato dall’assistente sociale che pretendeva riempissi un
questionario (il cosiddetto “riccometro”) che avrebbe comportato sicuramente un
aumento della retta da pagare. Mi sono detto: quando poteva darmi delle
informazioni, un po’ di aiuto l’assistente sociale non mi ha chiamato; ora per
farmi pagare di più mi convoca, eccome! A questo punto mi sono informato:
ebbene, non è scritto in nessuna legge che io devo provvedere a mia madre,
invalida e non autosufficiente; è scritto un regolamento comunale che non mi
sembra neppure legittimo, visto che la Costituzione ancora garantisce
l’assistenza ai cittadini inabili e agli anziani incapaci di provvedere a se
stessi. Quindi io, e come molti altri, dall’assistente sociale non ci sono
andato più e al suo questionario non ho risposto: ma nessuno si azzardi a dire
che non ho fatto tutto quello che potevo per mia madre».
Nedo: «Mia madre è nata nel 1911 ed ha sempre vissuto con
la sua famiglia; all’età di 84 anni ha incominciato a manifestare un
deterioramento delle facoltà mentali (...). Nel novembre del 1998 le
diagnosticano il morbo di Alzheimer (...). Il 5 luglio 1999, ad un esame più
approfondito, vengono riscontrati due ictus sottodurali e operata alla testa,
pena la vita. L’esito dell’intervento è positivo ma lei rimane completamente
non autosufficiente (...). Il medico semplicemente mi comunica che devo
riportarla a casa, ma io mi rifiuto assolutamente perché non saprei come
accudirla, alimentarla, curarla (...). A forza di proteste ottengo che sia
inserita in un progetto speciale in una casa di cura, che però può accoglierla
solo per un mese; così il calvario di mia madre e mio arriva al massimo;
rifiuto le dimissioni, mi costasse la galera e così la portano in un’altra casa
di cura, dietro il pagamento di un milione e duecentomila lire al mese; non
capisco come mai, prima gratis e poi a pagamento, nessuno mi spiega niente,
tanto meno l’assistente sociale dalla quale faccio continui viaggi, tutti
inutili (...). Non voglio neppure più sentire parlare delle assistenti sociali,
che sono solamente impiegate che servono al Comune per farti stare buono e
rimanere all’oscuro dei tuoi diritti».
Rita: «Nel 1988, a seguito della morte di mio padre, mia
madre entra in una grave forma depressiva. La nostra vita è completamente modificata:
(...) accanto al dolore, le continue necessità pratiche, (...) la
preoccupazione a lasciarla sola in casa per andare al lavoro senza nessun
aiuto, senza sapere a chi rivolgermi per avere una mano, oppure rivolgersi
all’assistente sociale e sentirmi rispondere che non ha disponibilità neppure
di mandare una persona per un po’ di assistenza domiciliare (...). Dopo quattro
anni sono iniziati attacchi di gonatrosi bilaterale agli arti inferiori che,
aggravandosi progressivamente, portano alla perdita della capacità di
deambulare. Viene ricoverata per un po’ in una casa di cura per fare
riabilitazione e infatti si vede un po’ di miglioramento. Al rientro a casa
però le cose peggiorano in seguito a ripetute cadute e relative contusioni;
alla fine un ictus impone un nuovo ricovero per un paio di mesi. Quando torna a
casa, dopo 60 giorni, è in condizioni disastrose sia fisiche che mentali:
perché è stata dimessa? Nessuno me l’ha spiegato (...). Per assistere mia
madre, dovetti prendere tre mesi di aspettativa dal lavoro senza stipendio,
finché sono riuscita, solo girando per le Rsa senza che nessuno mi desse una
mano o un po’ di informazioni, a trovare un posto per la mamma: era il marzo
1995. La pensione della mamma non fu considerata sufficiente per pagare la
retta e così accettai la quota che mi fu fissata come contributo, sebbene
500.000 lire tolte dal mio stipendio significavano difficoltà non piccole; feci
anche ricorso per chiedere una riduzione del contributo ma non ho mai ricevuto
risposta. Poi, come succede nelle famiglie, la situazione è precipitata perché
ho dovuto cominciare ad aiutare regolarmente mio figlio: nulla di eccezionale,
per carità, non è che si drogasse o si trovasse in chissà quali guai;
semplicemente dopo pochi anni dal matrimonio hanno deciso di divorziare, dopo
di che lui si è creato una nuova famiglia e così fra gli alimenti alla prima
figlia e la nuova moglie a carico e poi il secondo bambino, io ho dovuto
contrarre dei prestiti per far fronte alla situazione. Ma la Commissione, a cui
avevo chiesto di rivedere la mia quota, non si è mai riunita: così mi ha detto
l’assistente sociale».
Mirella: «Mia sorella ha oggi 73 anni e dal 1988 le è stato
diagnosticato il morbo di Alzheimer (...). Per i primi sei anni siamo riusciti
ad accudirla impiegando tutto il tempo libero dal lavoro e sostenendo grandi
spese per pagare persone che potessero assisterla giorno e notte, senza poter
contare su nessun aiuto pratico o economico da parte delle istituzioni. La
situazione è diventata insostenibile quando, a causa di una caduta, si è
fratturata tre costole. Dallo Iot dove era ricoverata, venne dimesa con le
costole ancora incrinate e con la necessità di indossare un busto ortopedico
(...). In conseguenza delle nostre pressanti richieste, dopo oltre un mese di
attesa, è stato possibile ricoverare mia sorella in una struttura pubblica dove
è stata trattenuta per due mesi: ricordo che l’assistente sociale ci disse che
era stata una attesa breve, perché noi l’avevamo tenuta tanti anni in casa. La
struttura pubblica non ospita infatti i malati per più di due mesi e perciò di
nuovo ha dimesso l’ammalata giudicata “stabile”, nonostante indossasse ancora
il busto ortopedico, ancora una volta non considerando il suo stato di salute
generale. Fu solo per il nostro continuo ricercare una soluzione che al momento
della dimissione mia sorella poté trovare accoglienza presso un’altra struttura
convenzionata. Oggi, dopo cinque anni, mia sorella è ricoverata in un’altra Rsa
convenzionata con il Comune con una retta di 85.000 lire al giorno a nostro
carico. Quindi solamente per la retta i familiari devono pagare L. 2.570.000 al
mese alle quali vanno aggiunte le spese per i farmaci, per il vestiario, la
biancheria, ecc. Eppure in tutti questi anni nessuno ha detto che mia sorella
non è malata: il fatto che sia una malattia da cui non si guarisce dovrebbe
comportare maggiore solidarietà da parte della società e delle istituzioni;
invece ci sentiamo dire che siccome è una malata cronica da cui non si
guarisce, allora non sta più nel campo della sanità, ma dell’assistenza e
allora dobbiamo pagare la retta: sembra proprio che si aggiunga al danno anche
la beffa».
(1) La pubblicazione può essere richiesta
all’Associazione Adina, Via Vittorio Emanuele 135, 50134 Firenze.
www.fondazionepromozionesociale.it