Prospettive
assistenziali, n. 134, aprile-giugno 2001
Notiziario dell’Associazione nazionale famiglie
adottive e affidatarie
Le linee programmatiche
dell’anfaa
Il 18 novembre 2000, l’Associazione nazionale famiglie
adottive e affidatarie, il Coordinamento Ubi Minor, la rivista Prospettive assistenziali e la Scuola
dei Diritti “Daniela Sessano” dell’Ulces, hanno tenuto a Taranto all’Hotel
Palace, la Conferenza nazionale sul tema “20.000
bambini hanno diritto a una famiglia ma restano in istituto”.
L’incontro ha fatto seguito alle Conferenze regionali
svoltesi in Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Toscana,
conferenze che hanno tutte evidenziato la dolorosa condizione dei minori
ricoverati negli istituti assistenziali.
Dalla Conferenza di Taranto, che ha visto una
partecipazione di oltre 300 persone e il contributo attivo di un alto numero di
famiglie, operatori, studenti, è scaturito un nuovo impegno per arrivare al
superamento di tutte quelle gravi forme di abuso e di violenza istituzionale di
cui si parla pochissimo, ma che provocano conseguenze gravissime sulla vita
presente e futura dei bambini ricoverati.
Sono state illustrate le richieste emerse dalle
conferenze regionali, richieste che i partecipanti alla Conferenza nazionale
hanno fatto proprie e hanno tradotto nelle seguenti proposte operative:
a) assunzione da parte delle Regioni e degli Enti
locali – nell’ambito delle rispettive competenze – di un progetto
specifico diretto al superamento, entro il 2001, dell’istituzionalizzazione dei
minori, a partire dai piccoli (0-6 anni, priorità questa affermata dalla legge
di riforma della legge 184/1983) che maggiormente risentono delle conseguenze
negative del ricovero, attraverso il rilancio degli aiuti socio-economici ed
educativi alla famiglia d’origine, degli affidamenti familiari, delle adozioni,
e di piccole comunità di tipo familiare, inserite in normali case d’abitazione,
per permanenze comunque temporanee.
In considerazione delle drammatiche conseguenze sui
bambini determinate dalla privazione o dalla carenza di cure familiari, si
prospetta per i minori della fascia di età 0-3 anni la sostituzione
dell’inserimento in comunità (anche se breve) con l’affidamento “di pronto
intervento” presso famiglie, adeguatamente preparate e sostenute. A questo
proposito è indispensabile anzitutto da parte dei Comuni singoli o associati,
che gestiscono gli interventi assistenziali, l’approvazione di uno specifico
atto deliberativo in cui siano previste le modalità di realizzazione degli affidamenti
dei neonati. È inoltre necessaria la definizione di una procedura che definisca
le modalità di rapporto fra le istituzioni coinvolte (Autorità giudiziarie
minorili, Comuni singoli o associati, Aziende sanitarie e Aziende ospedaliere,
ecc.), con l’obiettivo di ridurre al minimo la permanenza in istituti, comunità
od ospedali dei piccoli ed individuare i percorsi più rapidi per l’inserimento
in famiglie affidatarie di “pronto intervento” dei bambini per i quali non sia
attuabile fin da subito, un affidamento “a rischio giuridico di adozione” o
preadottivo (vedi l’articolo “Affidamento di pronto intervento di bambini
piccolissimi” nel Bollettino Anfaa,
n. 2/2000);
b) istituzione e costante aggiornamento dell’anagrafe
regionale dei minori istituzionalizzati, i cui dati devono essere forniti
semestralmente alle istituzioni competenti (Giudici tutelari, Tribunali per i
minorenni, Enti locali) ed alle associazioni interessate, chiedendo la sua
estensione alle strutture (istituti e comunità) psico-medico-pedagogiche, in
modo da avere aggiornata la situazione personale e familiare dei minori,
compresi i portatori di handicap, anche per individuare tempestivamente
eventuali situazioni di abbandono (v. l’art. 9 della legge 184/1983);
c) revisione dei criteri per l’autorizzazione
preventiva a funzionare delle strutture residenziali per i minori.
Ridefinizione dei requisiti delle comunità alloggio per i minori che devono
essere inserite nelle comuni abitazioni, non devono essere accorpate tra di
loro e non devono accogliere più di 6/8 minori;
d) incentivazione economica da parte dei Comuni singoli
o associati degli interventi diretti al sostegno dei nuclei familiari d’origine
e alla promozione degli affidamenti familiari, garantendo anche la prosecuzione
degli interventi assistenziali e/o dell’affidamento nei confronti dei giovani
che al compimento del 18° anno di età non hanno ancora raggiunto una loro
autonomia anche economica (v., ad esempio, la delibera del Comune di Torino);
e) attuazione delle disposizioni della legge n. 476 del
1998 relativa alla ratifica della Convenzione de l’Aja sull’adozione
internazionale attraverso l’unificazione – per quanto possibile
– delle procedure relative alla adozione di minori italiani e stranieri e
la definizione da parte delle Regioni e degli Enti gestori dei servizi
socio-assistenziali delle attività di informazione, formazione, valutazione e
sostegno degli aspiranti genitori adottivi. È determinante, inoltre, la
previsione di specifiche misure di supporto per l’adozione di minori con gravi
problemi (ad esempio portatori di handicap, malati, ecc.);
f) iniziative dirette ad incentivare il
convenzionamento delle Province con i Comuni per la gestione unificata delle
competenze assistenziali attribuite alle Province; al riguardo viene ricordato
che ai sensi dell’art. 8, comma 5 della legge n. 328/2000, le Regioni possono
assegnare alle Province i compiti relativi all’assistenza ai minori nati fuori
del matrimonio, mentre gli interventi per quelli nati nel matrimonio sono stati
attribuiti alla competenza dei Comuni singoli o associati. Si devono, altresì,
prevedere iniziative a livello regionale per garantire adeguati interventi
socio-assistenziali diretti alle gestanti (ivi incluse tutte quelle attività
necessarie per garantire il segreto del parto per chi intenda non riconoscere
il proprio nato), alle madri ed ai loro nati.
Queste proposte operative sono state richiamate e
fatte proprie dall’Assemblea nazionale che si è tenuta a Genova il 1° aprile
2001.
Per arginare i danni prodotti dall’approvazione delle
deleterie leggi 328/2000 e 149/2001 (v. in questo numero l’articolo a firma di
Donata Micucci) è stata inoltre richiamata la necessità che a livello regionale
siano attivate iniziative per richiedere alle Regioni l’approvazione di una legge
che renda obbligatoria da parte dei
Comuni singoli o associati l’istituzione dei servizi necessari per i minori con
gravi difficoltà familiari o in stato di adottabilità (v. ad esempio la
petizione in corso in Piemonte promossa dal Csa cui l’Anfaa aderisce).
È stata riconosciuta la necessità di un forte impegno
in un lavoro a lungo termine per rilanciare il valore della genitorialità e
della filiazione che hanno il loro fondamento nei rapporti affettivi e
reciprocamente formativi che si instaurano – giorno dopo giorno
– nella famiglia, attraverso un approfondimento di questa tematica dal
punto di vista sociologico, psicologico, biologico, giuridico, etico, ecc. L’impegno in questa direzione è
più che mai indispensabile, anche per porre rimedio alla profonda ferita
inferta all’adozione dalle norme della legge 149/2001 che prevedono e
regolamentano l’accesso dei figli adottivi all’identità dei propri procreatori.
Per arrivare a un reale superamento del ricovero in
istituto, sarà necessario vigilare sull’emanazione del decreto legislativo da
parte del Governo, sui requisiti delle strutture, decreto previsto dalla legge
328/2000. In particolare, si dovrà lavorare per arrivare a una definizione
corretta di “Comunità di tipo familiare” (di cui all’art. 2 della legge
149/2001) onde evitare trasformismi formali degli istituti e delle comunità che
verrebbero di fatto a vanificare uno dei pochi punti positivi della legge di
riforma.
Sarà inoltre determinante ottenere dagli enti
competenti la previsione di specifiche misure di supporto per le adozioni di
minori con gravi problemi (ad esempio, portatori di handicap, malati, ecc.).
Per quanto riguarda l’attuazione a livello regionale
della legge 476/1998 sull’adozione internazionale si dovrà richiedere alle
Regioni di legiferare in merito alle competenze loro attribuite in materia di
adozione di minori stranieri e italiani, vigilando affinché sia stabilito un
percorso che, nel rispetto delle specifiche competenze, contempli l’iter
adozionale nel suo insieme (individuazione e segnalazione delle presunte
situazioni di abbandono, collaborazione con l’autorità giudiziaria per
l’accertamento dello stato di adottabilità, valutazione dell’idoneità delle
coppie aspiranti all’adozione – sia nazionale che internazionale –, sostegno al
minore e alla famiglia adottiva per realizzare il miglior inserimento
possibile, sostegno nell’anno di affido preadottivo, ecc.).
Infine un forte appello dovrà essere rivolto ai
Presidenti dei Tribunali per i minorenni per sollecitarli ad un’applicazione
della legge di riforma dell’adozione che sia rispettosa dei diritti dei minori.
Risposta a don oreste benzi: i
figli adottivi sono figli veri
Nell’editoriale
“Ogni bambino ha diritto a dei veri genitori”, Sempre, aprile
2001, Don Oreste Benzi, Fondatore e Presidente dell’Associazione Papa Giovanni
XXIII, ha contestato, con affermazioni lesive della dignità delle famiglie
adottive, l’istituto dell’adozione legittimante, introdotto nella nostra
legislazione dalla legge 431/67, perfezionata poi dalla 184/83 (1). A queste dichiarazioni risponde con una
lettera aperta Don Alberto Lesmo, sacerdote che opera a Milano e figlio
adottivo. Nel prossimo numero pubblicheremo le nostre considerazioni.
Lettera
aperta di Don Lesmo a Don Benzi
Leggendo l’articolo di Don Oreste Benzi “Ogni bambino
ha diritto a dei veri genitori”, che in verità mi ha da subito interessato,
conoscendo le diverse frontiere sulle quali don Oreste annuncia e testimonia la
parola liberante del Vangelo, sono rimasto però stupito dal sottotitolo di un
paragrafetto del suo intervento: “Il dramma dell’adozione”.
Se poi a leggere queste è un figlio adottivo che
spesso ci tiene a precisare che ad essere “adottivi” in realtà sono i genitori,
perché uno è figlio e come tale vive il suo rapporto da figlio, a tutti gli
effetti, dei suoi genitori adottivi, si capisce lo sconcerto.
La tesi sostenuta da Don Oreste e che mi sento
– non polemicamente, siamo confratelli, ci mancherebbe, ma sulla base
della mia personale esperienza – di contestare mina e ridimensiona
l’efficacia vera dell’istituto “adozione”.
Intanto dire che con questa riforma l’adozione è
migliorata significa non riconoscere che le modifiche apportate sono state
varate soprattutto per venire incontro alle esigenze degli adulti e non per
realizzare il diritto a una famiglia anche per quei bambini (grandi, malati e
disabili) che non trovano risposta alle loro esigenze e vivono ancora in
istituti o in quelle strutture che più modernamente sono chiamate case
famiglia. Ma che l’adozione sia vista poi anche in certi casi un “atto di costrizione”, mi pare proprio
sbagliato.
Cerco però, lo stesso, di capire meglio, perché le
parole se si usano devono avere un senso.
Don Benzi dice, e ne fa una regola certa per tutti
quanti, che “il figlio adottato più cresce
nell’età più sente il bisogno di incontrare i genitori che l’hanno generato”.
Farne una regola così assoluta mi sembra contro la verità di quei molti
– compreso il sottoscritto – che questo bisogno proprio non lo hanno
avvertito. Spesso ho sentito figli di genitori adottivi reclamare questa
convinzione: se si consente la ricerca dei propri genitori naturali si minano
le basi dello strumento stesso dell’adozione. È come un contratto a termine
dire: “Facciamo finta che siete i miei
genitori, tanto poi da grande andrò a cercare chi mi ha messo al mondo”. Se
vogliamo che l’adozione “funzioni”, dalla parte dei figli, occorre dire no a
questo presunto diritto. Ci date una famiglia e ci dite che tanto i veri
genitori sono altri. Non è vero che questo bisogno di conoscenza delle proprie
origini sia insopprimibile. Lo diventa quando uno non si sente veramente
accolto e quindi figlio a tutti gli effetti di chi lo ha adottato. Non ci
stancheremo mai di dire, noi figli adottivi, sperando che di queste cose ci rimanga
un po’ di voce in capitolo, che abbiamo bisogno di genitori per certi versi
“super”, proprio perché all’inizio della nostra avventura siamo partiti con
fatica, svantaggiati, senza una famiglia; non dobbiamo inoltre dimenticare come
la cultura che ci sta intorno non riconosca l’adozione come un rapporto di
genitorialità vera e completa, e come spesso i genitori adottivi devono
rassicurare e sostenere il figlio, che torna da scuola piangendo, perché gli
hanno detto che i suoi genitori non sono “quelli veri”.
E la convinzione del ruolo che hanno questi genitori
adottivi cresce, si afferma e sta nella definitività del rapporto che con essi
si instaura. Il sapersi figlio di qualcuno diventa il punto di partenza
necessario, indispensabile per qualsiasi avventura umana. Se l’adozione, come
paventa Don Benzi, diventa tale solo con la scomparsa dei genitori d’origine,
allora questo diritto ad avere una famiglia sarebbe solo per chi resta orfano.
Incredibile!
Faccio poi alcune considerazioni che traggo dalla mia
personale esperienza di sacerdote impegnato nella pastorale giovanile e quindi
in un quotidiano contatto con ragazzi, adolescenti e giovani. Quando un ragazzo
attraversa il tempo dell’adolescenza spesso non capisce le scelte operate dai
propri genitori e li contesta: si passa attraverso la nota crisi
adolescenziale. Ma uno ha i suoi genitori e con quelli cresce e questa crisi la
supera. Se poi mai si parte, con decisione e slancio d’amore in questo
rapporto, perché secondo Don Benzi occorre una sorta di affidamento prolungato
preadottivo fino alla scomparsa dei genitori d’origine – e la prospettiva è
pure un po’ lugubre – mai si arriverà a capo di niente.
Per concludere questi distinguo rivolti a Don Benzi,
io un’idea ce l’avrei sulla legge dell’adozione: che la si attui e che la si
faccia rispettare, cioè che si tuteli veramente l’interesse di chi è nato,
naturalmente, ma non si sente ancora figlio di nessuno, perché non voluto o non
accettato. Ulteriori complicazioni ledono ancora una volta questo diritto fondamentale
di ogni bambino.
Fraternamente, caro Don Benzi, impariamo come tu tante
volte ci hai dimostrato di saper fare, ad ascoltare di più chi ha una voce più
tenue, più soffocata e soprattutto mettiamoci dalla parte del minore con più
obiettività e coraggio.
Don Alberto
Lesmo - Milano
(1) Così
si è espresso Don Benzi: «L’adozione come
è definita oggi secondo la nuova legge è migliorata ma ha ancora troppi limiti
e in molti casi rischia di tradursi in un atto di costrizione, di brutalità nei
confronti dei bambini. L’adozione intesa come taglio netto e definitivo dei
rapporti con la famiglia di origine, è ammissibile solo nelle situazioni in cui
i genitori d’origine non esistano più di fatto.
«Mi spiego: il figlio adottato più cresce
nell’età più sente il bisogno di incontrare i genitori che l’hanno generato e
di ritornare da loro. Questo bisogno è insopprimibile. Per questo il genitore
adottivo viene accettato dal figlio adottato solo quando può dimostrargli che
egli l’ha tenuto con sé a lungo come genitore affidatario. Il genitore adottivo
deve potere dimostrare che solo quando si è accertata la scomparsa dei genitori
d’origine all’affidamento è subentrata l’adozione.
«L’adozione è un atto indebito e ingiusto fino
a quando i genitori sono vivi, anche se ammalati, drogati, disturbati psichici.
Per il figlio, infatti, i genitori prima sono papà e mamma e poi ammalati: la
storia di innumerevoli casi lo dimostra.
«Dico queste cose non per
giudicare le molte coppie di genitori adottivi che sono mosse da vero spirito
di amore gratuito, ma per valutare l’istituto dell’adozione in sé, che a mio
avviso va cambiato tenendo conto dei bisogni del bambino».
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