Prospettive
assistenziali, n. 134, aprile-giugno 2001
altre
considerazioni sulla nuova legge relativa all’adozione e all’affidamento
familiare
Donata micucci (*)
Il 26 aprile 2001 è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, la legge 28 marzo
2001, n. 149 «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento
dei minori”, nonché al titolo VIII del libro Primo del codice civile». Sul
numero 133 di Prospettive assistenziali abbiamo riportato il testo della
legge n. 184/1983 come risulta dopo l’approvazione della legge suddetta e della
n. 476/1998 relativa alla ratifica della Convenzione de L’Aja in materia di
adozione internazionale.
Nell’articolo “La
nuova legge sull’adozione: dai fanciulli senza famiglia soggetti di diritti ai
minori oggetto delle pretese egoistiche degli adulti” (1) abbiamo
commentato le modifiche in materia di adozione più allarmanti, in questo
articolo prendiamo in esame gli altri aspetti salienti della normativa.
Segnaliamo, inoltre, che, contestualmente alla legge
n. 149/2001 sulla stessa Gazzetta
ufficiale è stato riportato il decreto legge n. 150 “Disposizioni urgenti in materia di adozione e di procedimenti civili
davanti al Tribunale per i minorenni” con cui è stata sospesa l’entrata in
vigore delle disposizioni di cui al titolo II, capo II della legge 184/1983,
così come modificate dalla legge 149/2001, riguardanti la segnalazione e
l’accertamento dello stato di adottabilità dei minori «fino alla emanazione di una specifica disciplina sulla difesa
d’ufficio» (2).
La legge n. 149/2001 è stata approvata frettolosamente
dal Parlamento, con l’aperto sostegno del Forum delle Associazioni familiari
(di cui fanno parte, tra le altre, le Associazioni: Papa Giovanni XXIII,
Famiglie per l’accoglienza, Amici dei bambini), nonché dell’Associazione dei
Giudici per i minorenni e dell’Ordine degli Assistenti sociali.
L’Anfaa ha cercato, fino alla fine, di ottenere
sostanziali modifiche del testo: sono stati indirizzati appelli al Presidente
della Camera dei Deputati (sono state spedite centinaia di lettere e
telegrammi), inviate lettere personali a tutti i Deputati, si sono avuti
incontri con diversi componenti della Commissione Giustiza della Camera (che ha
convocato l’Anfaa, insieme ad altre Associazioni per una audizione informale il
14 febbraio 2001) e di quella Speciale per l’Infanzia del Senato; inoltre, sono
stati elaborati emendamenti al testo del disegno di legge, inviati a tutti i
componenti delle Commissioni.
Purtroppo anche la mobilitazione di altre
associazioni, fra cui ricordiamo l’Ufficio Famiglia dell’Azione cattolica, le
Associazioni: Progetto Accoglienza, Insieme e Fiaba, è stata vana. È scandaloso
che il Parlamento e il Governo italiano abbiano strumentalizzato, a scopo
elettorale, i bambini con gravi difficoltà familiari o in stato di
adottabilità, calpestando i loro diritti per far prevalere le pretese degli
adulti.
Il diritto
del minore alla propria famiglia è un diritto inesigibile
Nel presentare e commentare la nuova legge, vi è stato
anche chi ha enfatizzato il cambiamento del titolo “Diritto del minore alla propria famiglia”, che sostituisce quello
del 1983 “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”: nei fatti si
tratta della ripetizione di quanto già affermato dall’art. 1 della legge
184/1983. Purtroppo, le nuove disposizioni non garantiscono nessun diritto
esigibile ai nuclei familiari d’origine né ai minori che necessitano di essere
affidati a scopo educativo e neppure nuove tutele per chi accoglie minori in
situazione di abbandono grandicelli o handicappati.
Infatti, le relative prestazioni possono essere
fornite dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali, solamente «nei limiti delle risorse finanziarie
disponibili» (art. 1 della legge n. 149/2001, comma 3). E questo è
purtroppo in linea con le inique disposizioni previste dalla legge n. 328/2000
“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali” (v. l’editoriale del n. 132 di Prospettive assistenziali). In particolare si ricorda che anche
l’art. 22, nell’indicare gli interventi che «costituiscono
il livello essenziale delle prestazioni sociali» precisa che essi sono
erogati «nei limiti delle risorse del
fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie
già destinate dagli enti locali alla spesa sociale»,
Pertanto, ogni Comune potrà decidere di operare come
meglio crede, non essendo obbligato a istituire i servizi necessari per
favorire la permanenza dei bambini nella famiglia in cui sono nati! Inoltre, né
questa legge né la n. 328/2000 di riforma dell’assistenza, prevedono norme che
garantiscono agli utenti e alle associazioni di tutela dei diritti, la
possibilità di far rispettare dagli enti locali la priorità degli interventi
alternativi al ricovero, per cui, ad esempio, se un Comune non attiva il
servizio di affidamento familiare non c’è nessuna norma che possa costringerlo
ad istituirlo.
Va anche segnalato che l’art. 5 della legge 149/2001
prevede che «lo Stato, le Regioni e gli
enti locali nell’ambito delle proprie competenze e nei limiti delle
disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci intervengono con misure di
sostegno e di aiuto economico in favore della famiglia affidataria».
Gli affidatari contribuiscono, con la loro scelta di
accoglienza, alla realizzazione di precise competenze istituzionali. In vista
di un rilancio di questo intervento, sarebbe stato quindi importante stabilire
l’obbligatorietà di un adeguato rimborso-spese agli affidatari, in relazione
anche alle condizioni degli affidatari, per consentire questa scelta a tutte le
persone idonee, indipendentemente dalle loro condizioni economiche.
Come è noto, il rimborso-spese, insieme alla copertura
assicurativa e ad altre provvidenze, è già erogato agli affidatari dagli enti
locali più attenti e sensibili. Ma nei confronti degli enti inadempienti,
purtroppo, la legge n. 149/2001 non prevede alcuna possibilità di intervento!
Da osservare che le disposizioni sopra indicate
contrastano con l’art. 80 della legge n. 184/1983, modificato dalla stessa
legge n. 149/2001, che stabilisce quanto segue: «Le Regioni determinano le condizioni e modalità di sostegno alle
famiglie, persone e comunità di tipo familiare che hanno minori in affidamento,
affinché tale affidamento si possa fondare sulla disponibilità e l’idoneità
all’accoglienza indipendentemente dalle condizioni economiche».
Infine, rileviamo che il sostegno economico previsto
nei casi di adozione di minori di età superiore ai 12 anni o portatori di
handicap, non è riconosciuto quale diritto esigibile. Infatti al comma 8
dell’art. 6 è disposto che «lo Stato, le
Regioni e gli enti locali possono intervenire nell’ambito delle proprie
competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci,
con specifiche misure di carattere economico, eventualmente anche mediante
misure di sostegno alla formazione e all’inserimento sociale, fino all’età di
diciotto anni degli adottati». Si tratta di affermazioni generiche che non
obbligano le istituzioni a fornire gli aiuti previsti in quanto tutto è
subordinato ancora alle «disponibilità
finanziarie dei rispettivi bilanci».
L’affidamento
familiare
Il comma 4 dell’art. 4 della legge 149/2001 prevede
che il periodo di durata dell’affidamento consensuale non superi i 24 mesi e
possa essere prorogato, con provvedimento del Tribunale per i minorenni, solo «qualora la sospensione dell’affidamento
rechi pregiudizio al minore». In base anche alle esperienze finora
realizzate, riteniamo negativa tale disposizione in quanto l’intervento del Tribunale,
dopo solo due anni, con la conseguente trasformazione dell’affidamento da
consensuale in giudiziario, rischia di introdurre elementi di conflittualità in
situazioni di positiva collaborazione tra la famiglia di origine del bambino e
la famiglia affidataria.
Vi è il rischio reale che in tal modo l’affidamento si
caratterizzi sempre più come un intervento “punitivo” nei confronti della
famiglia di origine e non come un aiuto al bambino e alla sua famiglia.
Va peraltro rilevato che non è previsto l’intervento
del Tribunale per i minorenni per i ricoveri in istituto o in comunità che si
protraggono oltre due anni.
Sarebbe stato invece auspicabile stabilire nei casi di
proroga dell’affidamento consensuale, la semplice segnalazione al Tribunale per
i minorenni, il che avrebbe consentito un monitoraggio della situazione da
parte dell’autorità giudiziaria, anche allo scopo di scongiurare la
precostituzione di situazioni dirette ad “aggirare” la normativa sull’adozione.
All’art. 5 sono precisate le funzioni degli
affidatari, che esercitano i poteri connessi con la potestà genitoriale in
relazione agli ordinari rapporti con l’istituzione scolastica e con le autorità
sanitarie; essi devono anche essere sentiti «nei
procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità».
Il
superamento del ricovero in istituto: un impegno generico
Il 2° comma dell’articolo 2 afferma correttamente che
ove non sia possibile l’affidamento familiare, i minori di anni 6 debbano
essere inseriti in comunità di tipo familiare. Al 4° comma si prevede, inoltre,
che entro il 31.12.2006 sia superato il ricovero in istituto. Se da queste
affermazioni generiche derivasse per le istituzioni preposte un obbligo
preciso, saremmo ben lieti. Finalmente vedremmo realizzato un obiettivo che
l’Anfaa persegue da tanti anni. In realtà, si tratta, ancora una volta, di
disposizioni generiche che hanno un carattere puramente declamatorio.
Infatti, nulla viene previsto in caso di inadempienza
degli enti locali rispetto a quanto disposto ai commi 2 e 4; la definizione di «comunità di tipo familiare caratterizzate
da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una
famiglia» è molto vaga. Non precisa, ad esempio, che queste comunità devono
essere inserite nel normale contesto abitativo, che non devono essere accorpate
fra loro (altrimenti istituti anche con 150-200 ospiti, organizzati in
gruppi-appartamento, potrebbero essere considerati “comunità di tipo familiare”) e che non devono accogliere,
contemporaneamente, più di 6-8 minori.
Infine, la definizione degli standard minimi delle comunità di tipo familiare e degli istituti è
rinviata alle Regioni, sulla base di criteri stabiliti dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e Bolzano, senza che siano previste scadenze per l’emanazione del
relativo provvedimento (3).
Il
procedimento di adottabilità
Per quanto riguarda il procedimento di adottabilità,
la legge 149/2001 ha previsto alcuni significativi cambiamenti.
Anzitutto la segnalazione dei minori in situazione di
abbandono deve essere indirizzata non più al Tribunale per i minorenni, ma al
Procuratore del-
la Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (art. 9 comma 1°), che può
chiedere a quest’ultimo l’apertura dei procedimenti di adottabilità.
Anche gli elenchi dei minori ricoverati negli istituti
e nelle comunità non devono più essere inviati ai giudici tutelari, ma al
Procuratore della Repubblica che, assunte le necessarie informazioni, potrà
chiedere al Tribunale per i minorenni di dichiarare adottabili i minori in
situazione di abbandono (art. 9 comma 2°).
Fin dall’apertura del procedimento di adottabilità, i
genitori devono nominare un difensore. Essi, con l’assistenza del difensore, «possono partecipare a tutti gli
accertamenti disposti dal Tribunale, possono presentare istanze anche
istruttorie e prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel
fascicolo previa autorizzazione del giudice» (art. 10 comma 2).
Va peraltro segnalato che l’art. 8 comma 4, dispone
che «il procedimento di adottabilità deve
svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o
degli altri parenti di cui al comma 2 dell’art. 10».
Non viene però precisato negli articoli successivi
quando si procede alla nomina del curatore del minore. Inoltre all’art. 10,
comma 3 si prevede che il Tribunale possa
e non debba disporre la sospensione
della potestà dei genitori, con la conseguente nomina di un tutore provvisorio
per il minore, rischiando così di lasciare senza una adeguata rappresentanza il
minore stesso nel procedimento.
Un aspetto indubbiamente positivo della legge n.
149/2001 è lo snellimento della procedura e la definizione di tempi certi per
la dichiarazione definitiva dell’adottabilità.
È stato eliminato il ricorso presso lo stesso
Tribunale per i minorenni che ha pronunciato lo stato di adottabilità, per cui
contro il provvedimento del Tribunale (che non è più un decreto, ma una
sentenza), l’impugnazione deve essere proposta alla Corte di appello, sezione
minorenni, entro trenta giorni dalla notifica.
La Corte di appello deve depositare la sentenza entro
quindici giorni dalla pronuncia; i ricorsi in Corte di appello e in Cassazione
devono essere discussi entro 60 giorni dal deposito degli atti. Come
accennavamo in apertura dell’articolo, queste nuove disposizioni non sono però
entrate in vigore in base a quanto è stabilito dal decreto legge n. 150/2001.
Va infine segnalato che né la legge n. 149/2001, né il
decreto legge n. 150/2001 hanno previsto norme transitorie: cosa succederà dei
procedimenti di adottabilità iniziati con la precedente procedura e in corso al
momento dell’entrata in vigore della nuova normativa?
La fretta con cui è stata approvata la legge n.
149/2001 ha causato anche questa grave lacuna!
Il ruolo
delle associazioni
Anche per acquisire il consenso delle associazioni e
dei gruppi sulla legge, il Parlamento ha previsto il loro coinvolgimento nella
gestione di alcuni interventi.
È stato previsto che lo Stato, le Regioni e gli enti locali
possano stipulare convenzioni con enti e associazioni senza fini di lucro per
la realizzazione di «iniziative di
formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno
all’attività delle comunità di tipo familiare» e per l’organizzazione di «corsi di preparazione ed aggiornamento
professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e
preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o
in adozione minori» (art. 1, comma 3).
All’art. 5, 2° comma, è inoltre precisato che «Il servizio sociale, nell’ambito delle
proprie competenze, su disposizione del giudice ovvero secondo la necessità del
caso, svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola i rapporti con
la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le
modalità più idonee, avvalendosi anche delle competenze professionali delle
altre strutture del territorio e dell’opera delle associazioni familiari
eventualmente indicate dagli affidatari».
Sarà necessario porre una particolare attenzione
affinché questa previsione non si traduca in una delega ad associazioni private
di tutta la gestione degli affidamenti.
Conclusioni
Il futuro dei bambini con gravi difficoltà familiari o
in stato di adottabilità è pesantemente compromesso, come abbiamo visto, dalle
norme contenute in questo testo di riforma.
Rivolgiamo un pressante appello ai magistrati dei
Tribunali per i minorenni, delle Corti di appello e della Cassazione e delle
relative Procure, nonché agli operatori dei servizi sociali, affinché
interpretino le nuove norme alla luce delle esigenze preminenti dei minori.
È quanto mai indispensabile, per arginare, per quanto
possibile, gli effetti pesantemente negativi di questa legge, un rinnovato
impegno di tutti quanti operano “dalla parte dei bambini”.
* Presidente nazionale
dell’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie.
(1) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 133, 2001.
(2) Il testo del decreto è il
seguente:
«1. In via transitoria e fino alla emanazione di una specifica
disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello
stato di adottabilità disciplinati dal titolo II, capo II della legge 4 maggio
1983, n. 184, e successive modifiche, ai predetti procedimenti e ai relativi
giudizi di opposizione continuano ad applicarsi le disposizioni processuali
vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
«2. In via transitoria e fino all’emanazione di nuove disposizioni che
regolano i procedimenti di cui all’art. 336 del codice civile, ai medesimi
procedimenti continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti
anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
(3)
Non è chiaro come queste disposizioni verranno coordinate con quanto previsto
dall’art. 9 della legge n. 328/2000 in base al quale spetta allo Stato la «fissazione dei requisiti minimi strutturali
e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle
strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale» e la «previsione dei requisiti specifici per le
comunità di tipo familiare con sede nelle civili case di abitazione».
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